Mitologia comparata/Miti ario-africani
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APPENDICE.
MITI ARIO-AFRICANI
Semper novi quid ex Africa; — il motto è antico e non vi è scrittore intorno alle cose africane che non ripeta; ma chi potrebbe trovarne un altro migliore, fin che tanta parte dell’Africa rimane nascosta alla nostra investigazione? Fin che si conservano ancora, per ignoranza, in Europa tanti strani pregiudizi sulle cose africane? Molte delle novelle strane che ci arrivano dall’Africa sono strane solamente per rispetto alla nostra ignoranza che si figurò, per così gran tempo, tutta l’Africa come un’immenso, arido, spopolato deserto. Ma i viaggiatori che man mano la visitano, ed i coloni che l’abitano si persuadono e ci persuadono invece che l’Africa è una regione ricca d’acque, di piante, d’animali e di popoli diversi, ciascuno de’ quali ha una propria indole, un proprio tipo, propri costumi, proprie tradizioni, ed ora possiamo quasi aggiungere una propria letteratura.
Dal principio dell’anno scorso si è incominciato a pubblicare al Capo di Buona Speranza un Giornale di Letteratura Popolare di quegli indigeni, sotto il titolo seguente: Folk-Lore Journal (edito dal comitato della Società per la Letteratura Popolare dell’Africa meridionale fondato dal compianto dottor Bleek). Ne ho ricevuto fin qui i primi quattro fascicoli, usciti nel gennaio, nel marzo, nel maggio e nel luglio del 1879, e mi pare ormai tempo di farne sapere qualche cosa anche ai lettori italiani.
Il giornale abbraccerà tutte le lingue e tutte le letterature del Sud, fra le quali, come dimostrarono già le Zulu Nursery Tales pubblicate dal Vescovo di S. John, la letteratura degli Zulù, gli Spartani o i Tebani dell’Africa, sembra avere un posto eletto. Gli editori incontrano, fin da principio, e le dichiarano essi stessi, due gravi difficoltà: la mancanza fra loro d’un filologo comparatore che conosca tutte le lingue dell’Africa australe, all’autorità del quale possano rivolgersi per consiglio, e il difetto di tipi atti a rappresentare certi suoni e piuttosto rumori peculiarissimi alla pronuncia di quelle lingue. Essi sono dunque obbligati, per ora, a trascrivere i loro testi in un modo più tosto empirico che scientifico, e a limitare il lavoro comparativo a pochi casi, riserbando una comparazione più larga al tempo in cui il materiale letterario di quelle lingue sia quasi tutto raccolto e si possa incominciare ad ordinare e classificare. Frattanto è preziosa l’opera loro, così pel testo che essi ci trascrivono nei nostri caratteri, come per la traduzione che ne tentano, la quale ci permetto già di formarci un’idea, se non ancora compiuta, almeno sufficiente del modo con cui que’ popoli esprimono i loro pensieri.
Vediamo, anzi tutto, quale sia il contenuto di questi primi quattro fascicoli, i quali occupano già insieme 96 pagine.
Primo fascicolo. — Notiamo anzitutto un carattere assai frequente nelle storielle africane; quei popoli credono alla metempsicosi, non solo nella vita futura, ma in questa vita stessa; come i Francesi credono ancora al loup garou, nel quale, per forza d’alcuna stregoneria, un uomo od una donna può trasformarsi, e durare fin che un cacciatore pietoso col lacerare quella veste animalesca non restituisca alla persona stregata la sua forma primitiva, anche i popoli dell’Africa australe suppongono che, sotto l’aspetto di alcune bestie si celino uomini, serbando ancora tutti i loro sentimenti umani, che quell’aspetto sia, per lo più, conseguenza d’una maledizione, e che da quella maledizione liberi l’ossesso il bacio d’una donna. Come ognuno può vedere, la novellina francese della bella e della bestia, la quale, alla sua volta, ha molti punti di contatto con l’antica favola di Amore e Psiche, si ritrova pure fra i Cafri. Come si può spiegare un fenomeno così curioso? È egli possibile immaginare che la stessa nozione mitica siasi spontaneamente generata in un cervello cafro e in un cervello ario? Io non sono molto disposto a crederlo. E sapendo come e quanto viaggino le leggende popolari, e quanta varietà di forme assumano viaggiando, credo piuttosto che una nozione aria penetrata, per un accidente storico del quale ci manca, per ora, il filo, tra popoli africani, abbia dato occasione ad una nuova manifestazione d’antico mito particolarmente ariano. Chè, se può essere nozione comune di qualsiasi popolo anche dei più selvaggi, quella che sotto le forme bestiali ravvisa ancora l’uomo, se questa nozione, così universale a tutta la mitologia, può, fino ad un certo segno, confermare l’ipotesi Darviniana, mostrando una così stretta analogia fra il mondo delle bestie e il mondo umano, io dico che può essere soltanto proprio d’una razza cavalleresca, d’una razza ariana la particolarissima nozione che il bacio d’una donna può liberare l’uomo dalla sua forma bestiale e ridargli lo splendore della gioventù e della bellezza. Ma l’etnologo può bene spiegarsi come di un particolare così delicato della psicologia ariana abbiano potuto impadronirsi i Cafri, quando sappia e pensi che presso que’ popoli non solo vige l’uso eroico dei popoli ariani, ove troviamo, come nello svayamvra (libera scelta dello sposo) indiano, e nelle nozze eroiche scandinave e germaniche, e nelle corti d’amore provenzali la donna eleggersi lo sposo, ma fare qualche cosa di più, andarselo addirittura a cercare.
Il fatto non è nuovo neppure negli usi ariani: la leggenda indiana di Sâvitrî che esce dalla casa paterna per cercarsi lo sposo ce lo prova. Onde io mi confermo sempre più nel sospetto che molti degli usi africani abbiano la loro origine da usi indiani, anzi, particolarmente, da usi del Dekhan, ove, come è ben noto, vive una razza drâvidica nera, che non può, in origine, essere slata troppo diversa da alcuna delle varie razze africane. Io faceva già, or sono alcuni anni, una tale osservazione, ritrovando singolari analogie fra certe tradizioni popolari dell’Africa centrale e le tradizioni indiane; ora le tradizioni dell’Africa australe mi confermano nello stesso sospetto, e mi fanno sperare che qualche etnologo vorrà avviare le sue ricerche in questa speciale direzione, nella quale mi pare che, accettando qual ponte etnologico e linguistico l’isola dì Madagascar, fra l’India drâvidica e l’Africa centrale e meridionale, si vengano a trovare tali contatti da permetterci di dichiarare molti fenomeni della civiltà africana che ora ci appaiono singolari e curiosi.
Dopo queste preliminari osservazioni, vediamo un primo saggio di novellina cafra.1
«Una volta una fanciulla lasciò il luogo di suo padre e si recò al villaggio del Lungo Serpente. Essendo arrivata al villaggio del Lungo Serpente essa vi rimase, ma il proprietario del luogo era assente. La sola persona presente era la madre del proprietario del luogo. Allora, a sera, la madre del Lungo Serpente diede alla fanciulla un po’ di miglio2 a macinare. Quando questo fu macinato, essa ne fece pani. Quando esso fu pronto, la madre del Lungo Serpente le disse: «Porta questo pane nella casa del Lungo Serpente.» Poco dopo che la fanciulla era entrata nella casa, arrivò il proprietario del luogo. Allora essa gli diede pane e latte fermentato, ed esso ne mangiò. Quando ebbero finito il cibo si posero a dormire. Al primo mattino il Lungo Serpente si destò, perchè nel giorno esso vive all’aperto. La fanciulla si recò alla casa dei parenti del Lungo Serpente. La madre del Lungo Serpente le mise una veste bellissima. Quando fu vestita, essa domandò una scure e si recò a tagliar legna per il fuoco. Arrivata nell’aperta campagna, essa non potè tagliar le legna per il fuoco, gettò via la scure e corse al luogo di suo padre. Poichè fu arrivata al luogo di suo padre, la sorella di lei le domandò dove si fosse procacciata quella bella veste. La sorella lo raccontò ed essa disse: «Andrò anch’io in quel villaggio.» La sua sorella disse: «Ascolta quello che io ti dirò intorno all’uso di quel villaggio.» La sorella rispose: «Io non ho bisogno che tu mi dica nulla, poichè tu stessa non fosti messa in guardia prima d’arrivare.» Allora essa si pose in viaggio ed arrivò la sera al villaggio del Lungo Serpente. Quando essa si pose a sedere, la madre del Lungo Serpente le diede miglio per macinarlo e farne pane. Quando questo fu pronto, essa lo tolse con sè nella casa del Lungo Serpente. A sera arrivò il proprietario del luogo, e la fanciulla gli diede pane e latte fermentato. Quando essi ebbero finito di mangiare, essi si posero a dormire, e di buon mattino il Lungo Serpente si destò. Allora la fanciulla si recò alla casa dei parenti del Lungo Serpente. La madre vestì pure quella fanciulla nel modo medesimo con cui aveva vestita la sorella maggiore. Allora essa tolse una scure e uscì per tagliar legna. Con quel pretesto fuggì via. In quel giorno, tuttavia, il marito corse dietro le sue mogli e arrivò nel luogo del suocero quando il sole tramontava. Essi uscirono dalla casa, perchè lo sposo potesse dormire in essa. Mentre che egli mangiava, il popolo del villaggio ammucchiò covoni di paglia, e lo sposo fu bruciato nella casa. In tal modo egli morì.»
Noi abbiamo qui evidentemente una ben nota novellina un po’ sciupata. Tuttavia, sebbene io non possa qui perdermi in minute dimostrazioni mitologiche, si potrebbe avvertire come l’apparente incendio del cielo nella sera e nel mattino abbia dato spesso l’immagine d’un rogo, nel quale la forma mostruosa del nume od eroe si distrugge. Il sacrificio del Lungo Serpente de’ Kafir è un fenomeno mitico che ha probabilmente la stessa sede e la stessa ragione fìsica e solare che il sacrificio biblico d’Isacco, e il sacrificio vedico di Sunassepa. Così, nelle novelline popolari, quando si brucia la pelle d’asino, e la veste della strega, esce la fanciulla luminosa e la strega perisce; quando il loup garou viene ferito, ringrazia il cacciatore che l’ha colpito, e lo liberò dalla sua maledizione.
Viene seconda una favola Setshuâna, Il Leone e lo Struzzo: è curiosa in essa la parte reciproca de’ due animali. Il leone è sopraffatto in ogni gara dallo struzzo, fin che viene ucciso da esso; la parte che nelle favole europee è generalmente sostenuta dal lupo e dalla volpe, qui si rappresenta dal leone e dallo struzzo il quale ha sempre il di sopra. È evidente che la favola, la quale ricorda pure in parte la favola del leone e dell’asino, si trasformò presso un popolo africano, che tiene in particolare onoranza gli struzzi. La favola Setshuàna suona così:3 «Si dice: una volta un leone ruggiva, ed anche lo struzzo ruggiva. Il leone si recò verso il luogo dove stava lo struzzo. S’incontrarono. Il leone disse allo struzzo: «Ruggi.» Lo struzzo ruggì. (Allora) il leone ruggì. Le (loro) voci erano simili. Il leone disse allo struzzo: «Tu sei il mio compagno.» Allora il leone disse allo struzzo: «Ti sfido a cacciare insieme.» Essi videro parecchi animali e li appostarono. Il leone ne prese uno solo; lo struzzo ne uccise molti, afferrandoli con l’artiglio che stava sulla sua gamba; ma il leone ne uccise uno solo; ed essi vennero ad incontrarsi. Quando furono presso l’uno all’altro, vollero vedere chi aveva vinto il giuoco, ed il leone s’accorse che lo struzzo aveva ucciso molti. Il leone aveva pure de’ lioncini. Essi vennero all’ombra per riposarcisi. Il leone disse allo struzzo: «Sali su e strazia; mangiamo.» Lo struzzo disse: «Sali e strazia tu; io mi ciberò del sangue.» Il leone salì su, e straziò e si mise a mangiare coi lioncini. Quando egli ebbe mangiato, salì pure lo struzzo e si cibò del sangue. Quindi si posero a dormire. I lioncini giuocavano all’intorno; nel giuocare, s’accostarono allo struzzo addormentato. Nel dormire, lo struzzo teneva aperta la bocca. Allora i lioncini videro che lo struzzo non aveva denti. Essi vennero alla loro madre e dissero: «Questo compagno che dice esserti uguale non ha denti esso si burla di te.» Allora il leone svogliò lo struzzo e gli disse: «Sorgi, combattiamo.» Ed essi combatterono. E lo struzzo disse: «Tu va a quella parte di questo formicolaio, io andrò da questa.» Lo struzzo diè un colpo al formicolaio e lo lanciò verso il leone. Quindi colpì il leone al fegato e l’uccise.»
Non è, del resto, la prima volta, che, nella favola, il re degli animali, il leone, ha la peggio nelle sue gare e ne’ suoi conflitti. I lettori dell’indiano Panciatantra non si formano di certo una idea superlativa del coraggio e dell’accorgimento del leone, che ora teme del toro, ora del montone, ora dell’asino, ora dello sciacallo, che fa straziare prima dal leone la pelle dell’elefante di cui vuole mangiare la carne. La favola è certamente d’origine indiana; ma lo struzzo le diede un colorito specialmente africano.
Lo stesso fascicolo, presso questa favola, contiene ancora una novellina Setshuâna. Anche qui il motivo leggendario non è punto nuovo; i lettori di Firdusi conoscono troppo bene le virtù dell’uccello solare Simurgh che protegge il neonato eroe; ed è popolare tra i latini il ricordo dell’uccello Picus nutritore di Romolo e Remo; le novelline popolari indo-europee, poi, nelle quali appare un’aquila salvatrice dell’eroe, sono numerosissime. Della novellina Setshuâna, che fu imperfettamente tradotta da miss Meeuwsen sopra un racconto di certo Abramo Ranthogele della tribù Batlaku, basterà dire qui per sommi capi il contenuto: «Un temporale trasporta alcuni fanciullini nel deserto; tra questi fanciulli uno più accorto degli altri li consiglia: viene la notte, arriva un cannibale, i fanciullini salgono in cima ad un alto albero; quando albeggia il cannibale scompare, e arriva Phukuphuku che prende seco i piccoli fanciulli e li riporta alle loro madri.» Secondo altre varianti, questo Phuku-phuku appare un grande uccello; ed una di queste varianti setshuâne ci spiega pure il modo con cui l’uccello riuscì a trovare i fanciulli smarriti. Quando l’uccello partì alla ricerca de’ fanciulli la mamma Mosemanyanamatong prese della cenere e la pose sull’uccello dicendo: «Quest’uccello sa dove sono i figli nostri.» Verso mezzogiorno l’uccello invita il capo di quella gente ad ordinare a tutto il popolo di spandere paglia in tutte le vie; il capo comanda, il popolo obbidisce; in quel modo i fanciulli possono tornare a casa.» È ovvio il riconoscere in questa novellina, anche ne’ suoi particolari, una variante del notissimo Petit-Poucet. Così alle tre novelle che ci offre il primo fascicolo abbiamo agevolmente trovato affinità con tradizioni popolari indo-europee.
Secondo fascicolo. — Presso i Boschimani (Bushmen) e presso i Bântu (ai quali appartengono gli Zulù) è popolare e frequento il motivo leggendario d’un meraviglioso fanciullo liberatore. Indra Vishnu, Vikramâditya, Ciro, Sansone, Ercole, Romolo, fanciulli prodigiosi, furono glorificati da mille racconti mitici, epici e storici; le gesta eroiche poi di fanciulli nani sono il motivo prediletto delle novelline popolari indo-europee. Udiamo ora le imprese del piccolo eroe cafro Ulusanana. «Alcune fanciulle si recarono a coglier foglie d’aloè; un fanciullino, di nome Ulusanana, le seguitava. La sua sorella maggiore disse: «Torna.» Egli continuava tuttavia; egli non voleva tornare. Arrivarono ad un gran fiume; schiacciarono il fanciullo con una pietra da macina, lo presero e lo gettarono nell’acqua, poi andarono via. Ma il fanciullo, quantunque ucciso, si rialzò, e, muovendo sulle traccie delle fanciulle, le ritrovò sulla via. Quando s’accostò ad esse, stava già per essere ammazzato una seconda volta dalla sua sorella maggiore. Ma la sorella minore s’oppose, la sorella minore pianse e disse: «Per ora lasciatelo solo.» La sorella maggiore nel vedere che la sua sorella minore gridava lo lasciò solo. Incominciò allora a cadere una gran pioggia. Ulusanana disse: «Io posso fare apparire qui una casa, perchè non ci bagniamo.» La sorella maggiore disse: «Fallo, fratellino mio, perchè non restiamo bagnati.» Ulusanana domandò: «Dimmi, non sei tu che m’hai schiacciato?» «Fallo in ogni modo, fratellino mio.» Allora Ulusanana tagliò bacchettine e le piantò sul suolo, tagliò dell’erba e disse: «Io posso fare che la casa si copra da sè stessa.» E la casa si coprì da sè stessa. Quando la casa fu coperta da sè stessa, Ulusanana disse: «Io posso fare che s’accenda qui subito il fuoco.» E Ulusanana fece un gran fuoco. Quando egli ebbe fatto un gran fuoco, essi sentirono fame. Ulusanana disse: «Io posso far venire gli alimenti da questa casa.» E gli alimenti vennero. Quando il sole si coricò, essi si posero a dormire. Mentre che dormivano, arrivò nella notte Inunu (una specie di mostro antropofago, che piglia forme diverse), disse sette volte di seguito: «Io mangerò, io divorerò» e terminò col dire: «Io mangerò finalmente Ulusanana.» Ma Ulusanana teneva gli occhi aperti. Il mostro partì: Ulusanana svegliò le sue sorelle. Partirono insieme per tornare a casa. Arrivati al gran fiume, esso era pieno d’acqua. Ulusanana disse: «Io passerò il fiume quantunque pieno.» Fa un salto ed arriva alla sponda opposta senza toccar l’acqua. Allora le sorelle gridarono: «Vieni e porta anche noi, Ulusanana!» Ulusanana disse: «Io non vi porterò, perchè mi avete schiacciato.» Allora venne un cannibale per mangiar le fanciulle. Ulusanana n’ebbe pietà, ripassò il fiume, come un uccello, fece attraversare il fiume a tutte le fanciulle.» Il signor A. Kropf, sopraintendente delle missioni a Stutterheim, che ci diede tradotta, com’egli seppe meglio, questa novellina, soggiunge semplicemente: «It seems to me a beautiful illustration of St. Matth. 5, 44.» A scanso di malintesi, ecco qui il versetto di San Matteo: «Ma io vi dico: Amate i vostri nemici, benedite coloro che vi maledicono, fate bene a coloro che vi odiano, e pregate per coloro che vi fan torto, e vi perseguitano.» È possibile che i Cafri convertiti al cristianesimo raccontino ora agli Europei questa novellina che ci mostra la carità in azione, più spesso delle altre meno gradite ad orecchio cristiano; ma la pietà prima di predicarsi come un sentimento cristiano, fu predicata come un sentimento buddhistico, e se la novellina cafra avesse un’origine indiana, nessuno potrebbe meravigliarsi di ritrovarvi tali sentimenti che nelle novelline buddhistiche si trovano assai frequenti. La menzione poi così frequente di uomini in forma di animali e di mostri antropofagi nelle novelline africane è forse un indizio di più della loro origine indiana, essendo ben noto come nelle credenze indiane prevalga l’idea della metempsicosi, e come tutti i demoni indiani siano particolarmente figurati come divoratori di carne, e specialmente di carne umana, in opposizione agli Dei e agli Arii, ossia alle tre caste superiori che non mangiano carne alcuna. Tutta la natura è per l’Indiano popolata di mostri; anche nelle acque si figura una specie di gandharva, di mostro guardiano, trattenitore, che si riproduce nel drago della credenza europea, un mostro che attira a sè. I lettori del Râmâyana conoscono il mostro marino Sinhikâ che attira a sè il gran scimio Hanumant e lo tiene alcun tempo nel suo corpo, fin che lo lascia uscire, come Giona esce dal ventre del gran pesce. Questo miracolo mitico si spiega agevolmente, poichè si rinnova ogni notte nell’oceano notturno; il gran mostro di quest’oceano inghiotte ogni sera nel suo immenso corpo l’eroe solare, e lo restituisce poi intatto ogni mattino all’altra riva. Un simile mostro marino troviamo pure ricordato in una novellina cafra raccolta dal signor Theal. «Vi era una volta, ne’ tempi antichi, un fanciullo di nome Stomachino Rosso. Un giorno avendo egli sete si accostò all’acqua d’una fonte per bere. Accorse allora prontamente la madre e gli disse: «Non bere di quest’acqua, di cui tu non conosci il padrone.» Egli disse: «Io vo’ bere.» La madre rispose: «Sarai ucciso dal padrone dell’acqua.» «Non fa nulla se muoio solo,» egli rispose. Allora sua madre disse: «Io andrò via quando beverai di quest’acqua.» E la madre se ne andò. Stomachino Rosso allora bevette. «Perchè hai tu bevuta la mia acqua? Non ti ha detto tua madre che non dovevi bere di quest’acqua?» Disse il padrone dell’acqua: «Io t’ammazzerò, perchè tua madre ti ha detto di non bere di quest’acqua,» disse il proprietario dell’acqua. Dopo di ciò, Stomachino Rosso chiuse gli occhi e fu divorato da quella bestia. Ma Stomachino Rosso pesa troppo; la bestia ne riceve un forte mal di stomaco e muore; quando è morta, Stomachino Rosso col suo coltellino la taglia e ne vien fuori.» Io ho qualche sospetto che in questa pretesa novellina cafra ci sia entrato qualche cosa d’inglese. Quel chiuder gli occhi di Stomachino per lasciarsi mangiare mi sa di umorismo anglo-sassone. Checchè ne sia, ora la novellina corre tra i Cafri, ed il suo nuovo travestimento è per noi un oggetto di curiosità. Lo stesso signor Theal ci comunica un frammento della storiella cafra del dragone dalle cinque teste; questo frammento non avrebbe per noi alcuna importanza, se non ci rappresentasse un costume nuziale cafro. La fanciulla stessa va ad offrirsi qual moglie al drago dalle cinque teste, che era capo d’un villaggio. Prima di sposarla, il drago dalle cinque teste domanda al popolo del villaggio se è contento che la sposi. Quando gli è risposto affermativamente, il drago, che intanto ottenne già il permesso dal padre della fanciulla, gli manda venti teste di bestiame. I parenti soddisfatti mandano allora un messo che dichiari allo sposo la loro soddisfazione. Altre usanze e superstizioni furono osservate tra i Betshuana da miss Meeuwsen: quando vi è siccità e si vuol far cadere la pioggia, si intraprende una caccia con sfide; una sola parte dell’animale cacciato si adopera, e gli stregoni non vogliono dire che cosa se ne faccia. Talvolta, dopo avere ammazzato un bove, se ne brucia verso sera il petto, poichè si dice che il negro fumo di esso raccoglie le nuvole e fa cadere la pioggia. Talvolta, quando si vede cadere la pioggia a un po’ di distanza, si unge una saetta con qualche molemo (la parola significa ad un tempo veleno ed antidoto) e la pioggia è invitata ad avvicinarsi con la ferma credenza che lo farà. Quando lo loro magie non riescono a far cadere la pioggia, dicono che ciò avviene perchè alcuno stregone che li invidia lo impedisce. Per rimuovere ogni malanno o disgrazia dal villaggio dalla città si metto sull’ingresso del recinto di essa una pietra aguzza od una sbarra in croce unta con qualche molemo; con questo mezzo, si tengono sicuri da qualsiasi malanno. Le vedove sono trattate in un modo singolare. Quando il marito muore ad una donna, essa non può rientrare in città se non passa prima per le mani di uno stregone, che deve purificarla. La purificazione si fa in questo modo, che mi persuado l’usanza essere d’origine indiana, essendo ben noto come il culto degli Indiani per la vacca si estenda fino a’ suoi escrementi, adoperati come un mezzo di purificazione. Le vedove betshuane devono dunque rimanere alcun tempo fuori della città; si munge quindi un po’ di latte da tutte le vacche e questo miscuglio di latte si versa nel loro cibo che le vedove devono mangiare. Si leva quindi dai piedi delle vacche dello sterco, col quale e con alcun molemo la vedova deve ungersi. Se questo non si fa, tutto il bestiame nella città dovrà perire. Quando gli indigeni viaggiano e s’accostano affamati ad una città, prendono una pietra e la collocano fra i rami d’un albero o sopra una pianta, immaginando che in tal modo il popolo presso il quale andranno a stare li accoglierà con vivande. Anche qui l’albero, come nella tradizione indo-europea, appare il fecondatore per eccellenza, poichè gli si attribuisce la virtù di cambiare sassi in frutti, miracolo simile a quello che fa Domeneddio in una novellina popolare subalpina, invitando la povera vedova caritatevole a buttar nella pentola de’ sassi che diventeranno fagiuoli. (Un miracolo analogo i lettori del Mahâbhârata ricordano essere stato operato dal Dio Krishna in favore della buona madre di famiglia che doveva apprestare il nutrimento ai cinque fratelli Panduidi.)
Il reverendo Roger Prince ci descrive pure una cerimonia annuale detta Dipheku in uso presso i Bamangwato, per lo scongiuro di tutti i malanni. È una specie di gran sacrificio, pel quale s’invitano dai vicini villaggi i sacerdoti o dottori (Dingaka), per dargli maggiore solennità. L’animale sacrificato deve sempre essere un toro nero. Gli si cuciono gli occhi, sì che diventi come se fosse cieco, e lo si lascia per due o tre giorni andare dove vuole (come usano gl’Indiani, nella festa dei fiori, con la vacca dell’abbondanza). Poi l’animale s’uccide; e la miglior carne cotta sotto la sorveglianza de’ Dottori si distribuisce fra i principali della città; il sangue si mescola con un decotto di ogni sorta di radici ed erbe, od anche con un decotto di ossa di gemelli umani, che sono ritenuti come di cattivo augurio. Quando ogni cosa è pronta, si pianta un pilastro innanzi al luogo dove siede il capo del villaggio o della città e si unge il pilastro con quel decotto. Si trovano pure tali pilastri ai vari ingressi della città e sulle strade che conducono alla città e si ungono del pari; o pure si sospende un corno pieno di quel decotto ai rami degli alberi che fiancheggiano le strade. Si attribuisce a quel decotto il potere di scongiurare dalle città tutti i malanni e di rendere impotenti gli eserciti nemici che si avvicinano.
Il secondo fascicolo contiene pure una breve notizia del rev. A. Kropf sopra gli Dei Basuto (parola con la quale sembrano venir particolarmente designati i Betshuâna orientali). Fin qui si credeva che i Basuto non adorassero alcun nume; ma il rev. Stech, che nel 1877 si trovava a Blauberg, nella Transvalia, fra la tribù dei Malebocho, che abbraccia, dicesi, venti mila abitanti, udì nominare da essi ben dodici Dei. Il primo è Relabepa, il padre di tutte le forze, formidabile per le sue vendette, specialmente per la sua potenza sul fuoco. Si crede che egli abiti presso i Basuetlas, dove lo chiamano Ralawimpa. Segue il Dio dell’acqua Ramochasoa; esso vive al fondo di tutte le sorgenti, motivo per cui i Basuto non amano scavar la terra presso le fontane, per timore d’offenderlo. Conoscono pure una specie di Dio Termine, che chiamano Ramaepa, il quale se ne sta chiuso in un lungo pilastro di pietra che ricorda le forme Priapee del nume latino, a guardare il campo da ogni maniera di nemico invasore e di demonio distruggitore della vegetazione. I Basuto spaventano poi i loro fanciulli, invocando Makofatsiloe, Maseletsoane, Manakisoe, Ngoalenkalo. Ma specialmente temuto è Sedatyane, che vive in una macchia folta presso Mareme. Nessuno osa accostarsi a quel bosco per tagliar legna, per timore di essere avvinghiati da quel mostro (i lettori del Râmâyana si ricordano che il mostro indiano Kabandha faceva perfettamente il medesimo). Si teme pur molto come strumento di divina vendetta il serpente velenoso Toona, venerato anzi come Dio della vendetta. Oggetto di un culto speciale è il piccolo uccello Khohoropo, di cui i fanciulli devono imitare il canto, specialmente nella cerimonia della circoncisione, sotte pena di venir vergheggiati, se lo ignorano. Conoscono pure il Dio della Danza Lotiloè, e la cometa Modulsa.
Terzo fascicolo. — Esso è tutto destinato ad illustrarci gli usi e le credenze superstiziose degli Ovaherero. Gli Ovaherero o Damaras, come c’informa W. Coates Palgrave, dal quale riceviamo le presenti notizie, sono la prima delle razze negre che s’incontrano dopo aver attraversato le razze gialle che giacciono sparse su quella vasta regione che si stende per duecento miglia al nord del fiume Orange, e contiene il paese Namaqua e una gran parte del Deserto Kalahari. Essi appartengono alla famiglia dei Bântu, sono un popolo interamente pastorale, ricco di vacche e di pecore. Il paese da loro occupato è vasto e ricco, sommamente adatto ad un popolo di pastori. I loro vicini del nord formano il gruppo di quelle tribù delle quali sono particolarmente famigliari agli Inglesi gli Ovambo, un popolo agricolo come i Kafir delle colonie inglesi. Il nome Damara è d’origine relativamente recente e si dà, nello stesso modo, agli Ovaherero, agli Ovambanderu e agli Ovatyimba. (Ova è un prefisso africano di plurale.) Il Palgrave segue tutti gli usi del popolo Herero dalla nascita (Ongoatero) fino alla creduta possibile risurrezione (Ombendukiro).
Alla nascita di un fanciullo, s’ammazza un bove, soffocandolo con la testa rivolta al nord, o una pecora, o una capra. L’animale può essere ucciso da chiunque, ma dev’essere cercato dal padre del neonato. Tutti ne mangiano, ma la madre specialmente ne beve il brodo; un pezzettino (ondendu) è pure riservato al fanciullo. Questo pezzettino è levato dal fuoco prima degli altri e portato alla madre che vi soffia sopra, poi messo sopra il dito pollice del fanciullo; quindi lasciato in un piccolo vaso, finchè si stacca dal fanciullo il cordone umbilicale, dopo di che l’ondendu gli vien dato a mangiare. Quando una donna ha partorito, si costruisce subito in fretta per lei e pel fanciullo una capannuccia, dove la madre e il fanciullo devono rimanere, fin che il cordone umbilicale non si stacca dal fanciullo. Appena questo avviene, la madre reca il fanciullo al luogo del fuoco sacro (okuruo), lo presenta all’Omukuro (avo divino, specie di nume domestico), affinchè la madre ed il fanciullo possano essere ricevuti nuovamente in casa. In tale occasione il padre impone al fanciullo un nome, prendendolo fra le sue braccia, e dicendo agli astanti il nome con cui devono salutarlo. Segue la circoncisione, ch’è in uso presso tutti gli Ovaherero, come presso la maggior parte dei popoli Bântu. Tutti i maschi sono generalmente circoncisi dal quarto al settimo anno della loro età, scegliendosi, se si può, come occasione particolarmente propizia, il tempo della morte del capo della città o del villaggio. La circoncisione è operata con una punta di saetta, in un luogo apposito, tenuto come sacro, ove il fanciullo rimane fin che le piaghe ricevute non siano intieramente saldate. In tal occasione si sacrificano animali; una parte dell’animale (ehango, la coscia sinistra; tenuta come sacra, perchè da quella parte si mungono le vacche) è serbata per il capo del villaggio, che alla sua volta, la destina alle grandi occasioni e per i ricevimenti più solenni. Nib sul sole novi. Quando lo scià di Persia fu a Torino, si narra che, assistendo egli a quel teatro regio nel palco reale ad una rappresentazione, in un intermezzo furono recati de’ gelati; lo scià volendo far onore ai suoi ospiti gustò di tutti i gelati, facendo quindi cenno cortese al re d’Italia e a tutta la corte che essi potevano continuare. Ora leggiamo che il capo degli Ovaherero, quando imbandisce il privilegiato ehango a’ suoi ospiti, lo dà, prima di mangiarne egli stesso, ad assaggiare a tutti i principali; quella cerimonia si chiama makera, ossia consecrazione per mezzo dei gusto. Ma non tutti gli ospiti hanno diritto all’onore del makera; per ottenerlo bisogna essere dello stesso oruzo, ossia dello stesso ordine gerarchico del capo. Ne’ casi dubbî, ossia quando il capo non è ben certo che un ospite abbia diritto al makera, invece di porgergli l’ehango con le proprie mani, colloca il pezzo di carne fra le dita d’un piede e lo accosta così alla bocca dell’ospite di qualità incerta, perchè se ne stacchi un pezzo. Con tale espediente si salvano la capra ed i cavoli tra gli Ovaherero.
Dopo la circoncisione i fanciulli Ovaherero sono sottoposti ad un altro piccolo supplizio; arrivati agli otto dieci anni, si strappano loro i quattro denti anteriori nella mandibola inferiore, e si arrotano i superiori a forma di punta di lancia, col mezzo di una pietra. Anche in tale occasione si celebra una festa, presso il fuoco sacro. Ad impedire i tristi effetti di quella violenta operazione si prepara una specie di cataplasma con le radici dell’amuvapu (un albero che ha una parte essenziale nelle cerimonie sacre di quei popoli africani), e si pone sulla testa, dei fanciulli.
A sette anni si tosa il fanciullo per la prima volta; dopo di che gli si prepara una specie di parrucca.
I fanciulli Ovaherero sono spesso, come i principi, fidanzati fin dalla loro nascita. Generalmente, il fidanzato non deve, fino alle sue nozze, conoscere nè la sua sposa, nè la madre della sposa. Il fidanzato non fa regali alla fidanzata; ma le dà solo un contrassegno del patto scambiato, che per lo più è un anellino di ferro, il quale la fidanzata porta fino al giorno del matrimonio, attaccato al suo grembiale. Restituendosi dai parenti della sposa quel contrassegno, si considera come annullato il matrimonio. Una simile consuetudine si osserva pure negli usi nuziali di alcune provincie subalpine.
Seguono informazioni sugli usi nuziali, funebri, sepolcrali, sacrificali; ma singolarmente importanti mi paiono quelli che riguardano i Mani, ne’ quali gli Ovaherero hanno fede, e la prosecuzione della vita dopo la morte. «Le usanze religiose e le cerimonie degli Ovaherero, scrive il signor Palgrave, son tutte fondate sulla credenza che il morto continua a vivere e che esso continua ad avere un gran potere sopra la terra ed influire sopra la vita e la morte dell’uomo.» Un tale potere è specialmente attribuito a quelli che furono grandi nella vita e che dopo morte diventano ovakuru, ossia Patres.
Noi non finiremmo, proseguendo in queste indagini di trovare occasione di riscontri fra le credenze de’ popoli africani e quelle de’ popoli indo-europei; e il nostro stupore sarebbe veramente grandissimo, se potessimo supporre che tante credenze così mirabilmente concordi con le nostre fossero un prodotto spontaneo del suolo africano. Ma io temo aver già accennato a sazietà il mio sospetto che la maggior parte delle tradizioni ed usanze africane muova da una fonte originaria indiana. Non insisterò dunque altrimenti su questo argomento, riducendomi ad esporre il contenuto del quarto fascicolo della curiosa raccolta che vede la luce alla Città del Capo.
Quarto fascicolo. — Oltre la favola del Daino ed il romanzo di Unyengebule che merita riscontro col mito egiziano di Batu, e con la serie numerosa di novelline indo-europee, ove l’eroe o l’eroina che una morte violenta uccise riappare in forme ora di pianta, ora di uccello, a raccontare i suoi casi funebri, la storia di Ngangezwe e Mnyamana, ossia dei due fratelli, de’ quali l’uno invidia il potere dell’altro e cerca di perderlo (ben noto motivo della tradizione popolare indo-europea come pure dell’egiziana), il fascicolo contiene alcune notizie dello Zululand, con le quali prenderò congedo dai lettori. Da esso apparirà in che modo si fa la storia presso gli Zulù. Ecco in qual forma si trova già descritta una delle loro vittorie sopra gli Inglesi in un loro racconto che diventerà probabilmente popolare, per gli elementi sovrannaturali che sono tosto venuti ad alterarlo:
«In uno de’ campi degli uomini bianchi (gli Inglesi), nel paese degli Zulù, quando gli uomini bianchi stavano riposando, arrivò un Zulù vecchio decrepito, inerme, che appariva disfatto dagli anni. Egli richiese il popolo bianco di nutrimento e d’un impiego: Essi risposero: «Dov’è la tua famiglia?» L’uomo vecchio disse: «L’ho lasciata dietro di me.» Allora essi; «Va e menala teco, allora li riceveremo.» Il vecchio partì. Appena si trovò fuori del campo, i bianchi videro che il vecchio danzava col suo scudo e col suo assegai. Egli aveva perduta la sua decrepitezza e ballava col furore d’un giovane, fingendo di combattere contro i bianchi e cantando le lodi del suo capo Getywayo. Gli Amangesi (gli Inglesi) incominciarono a far fuoco contro di lui; nè si sentiva altro in quel luogo che il fisciar delle palle. Madre! Il vecchio combatteva con essi, e neppure una palla lo toccò. Dopo alcun tempo, il vecchio scomparve ed entrò in una foresta vicina. Poco dopo uscì dalla macchia una piccola antilope 4 corse nella direzione del campo. L’ antilope corse nel campo contro i bianchi. Essi gridarono: «piglia, piglia » e cercarono ammazzarla. Non lo poterono. Alcuni spararono contro di essa, altri gettarono pietre, altri piatti sopra di lei; nessuno la colpì. In tale confusione, essi videro ad un tratto che l’antilope era diventata un giovine Zulù con lo scudo e l’assegai. Il giovine li assalì con l’assegai e li colpì. Mentre che egli li uccideva, essi non potevano fargli nulla; intanto apparve l’esercito di Cetywayo. I bianchi non lo seppero; il loro esercito fu circondato. I bianchi allora si misero sullo difese; ma l’esercito di Cetywayo fu sopra di essi e li uccise. Neppure uno scampò. Queste sono le notizie del paese dei Tshaka (così chiamano sè stessi gli Zulù); io debbo dirvi che i Tshaka posseggono magie possenti.»
Ma un popolo che confida ancora nella magia dei suoi stregoni, non può reggere a lungo contro le armi inglesi; e noi aspettiamo ora con molta curiosità i seguenti fascicoli per vedere in qual modo gli Zulù, con le loro magie, si spiegano adesso la disfatta di Cetywayo. Ma, da quanto sono venuto fin qui osservando, par quasi lecito argomentare che gli Zulù, al contatto degli Inglesi, informeranno la loro novissima letteratura alle idee inglesi, e che sarebbe oramai una vera illusione il credere che per trovare ancora nel mondo qualche cosa di molto nuovo, di molto originale, convenga proprio ricorrere agli Zulù. Non vi è forse genere di stranezza di cui l’Europa, e anzi la nostra privilegiata razza ariana non possa rivendicare a sè la priorità; che, se non ce ne accorgiamo troppo, egli è un po’ per la ragione che il becchino danese adduce ad Amleto «Becchino: Egli era pazzo, e fu mandato in Inghilterra. Amleto: Perchè fu egli mandato in Inghilterra? Becchino: Perchè era pazzo, e deve colà ricuperare la sua ragione; o se non può, poco male. Amleto: Perchè poco male? Becchino: Perchè nessuno se ne accorgerà; gli uomini sono colà tutti pazzi come lui.»
FINE.
- ↑ Per la curiosità di chi voglia avere un saggio della lingua dei Kafir, do nel testo originale il principio della novellina: Yati intombi etile, yemka kowayo yaya emzini ka Nyokalide. Ifiikileke ka Nyokalide yahlala kena kodwa engeko umninimzi. Kupela umtu okoyo-kulomzi ingunina.
- ↑ Col miglio pestato e mescolato con un po’ d’acqua fanno una specie di pane che gli Inglesi trovano molto insipido.
- ↑ Anche di questa favola, per comodo degli studiosi che vogliono avere un’idea del dialetto Setshuàna, riferisco qui il principio: «Gatua, tau e le ea duma, nche le éné. A duma. Me yana Tau e le ea Tsamaela kwa nch o gônâ. Me ba kopana. Tau ea raea nche, ea re, a ko o dume. Nuche a duma. Tau ea duma. Kodic tsa lekana. Tau ea raea nche, ea re, o molekane oa me».
- ↑ Cephalophus pigmaeus.