oggetto all’altro, da un luogo all’altro, da un momento all’altro. Questo moto continuo della immaginazione popolare, nella ricerca di analogie, moltiplica i miti all’infinito. Essa trasferì le immagini che desta nell’uomo la contemplazione delle vicende naturali d’ogni giorno che si rinnova al primo giorno del creato, al gran giorno cosmogonico. Ora, se noi riflettiamo a quello che un uomo il quale viva in mezzo alla natura, osserva ancora intorno a sè nello spazio di ventiquattro ore, non ci meravigliamo più che l’uomo primitivo attribuisse al cielo il principio della vita. Quando cade il sole, s’alzano le ombre, la terra s’occulta alla vista dell’uomo, la natura sembra davvero rientrare nel caos tenebroso; un vivo terrore s’impadronisce allora dell’animo dell’uomo, un profondo sgomento che cessi la vita; ma egli rialza gli occhi al cielo stellato, e spera da esso il ritorno della luce risvegliatrice de’ mondi. Dal cielo scende a noi la luce; qual meraviglia che si figurasse Dio nel cielo. Dio che, come abbiamo osservato, secondo l’etimologia, vuol dire il luminoso? Onde ogni luminoso celeste è diventato un Dio. Qual meraviglia che il cielo ove siede il Dio luminoso, onde l’uomo aspetta ogni giorno la risurrezione della vita, sia pure apparso non solo come la sede degli Dei immortali, ma come la sede della immortalità? Che, nel cielo, ove la luce si mantiene eterna, ove gli Dei si cibano di ambrosia ossia di luce eterna si collochi la sede dell’immortalità, della vita eterna, dell’eterno paradiso? Che si speri tutto dal cielo, che al cielo ascendano tutte le speranze dei mortali? Ora se il cielo è il