Mitologia comparata/Il cielo
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MITOLOGIA COMPARATA
LETTURA PRIMA.
IL CIELO.
Che cosa è propriamente un mito? Nel nostro linguaggio ordinario si dice spesso di una cosa che non esiste: essa è un mito o una favola; e chi sa un po’ di greco non ignora che i Greci chiamavano, per l’appunto, miti le favole. Ma ove il mito non fosse veramente altro se non che una cosa la quale non esiste, perderebbero veramente il loro tempo i mitologi che vogliono rintracciarla. Ma il mito è qualche cosa di più; esso è una finzione poetica popolare. Notate che io aggiungo popolare. Quando un nostro poeta mariniano paragona il cielo ad un crivello e le stelle a buchi lucenti di questo crivello
Del celeste crivel buchi lucenti,
egli trova, per suo conto, due immagini molto strambe, e pure egli non crea ancora alcun mito; perchè diventassero o rimanessero un mito sarebbe stato necessario che la fantasia popolare avesse già trovato essa stessa o adottato di poi quelle immagini.
I poeti per sè stessi non creano alcun nuovo mito essenziale; espongono invece i miti già esistenti, li svolgono, li ornano, o inconsciamente o seguendo l’analogia e la coscienza creativa del popolo. L’immaginazione del popolo vide talora nel cielo una vòlta, talora un padiglione stellato; ma i poeti vedici parlano pure di una gran coppa celeste, opera mirabile di artefici divini, i quali fecero il bel miracolo di foggiar quattro coppe d’una sola coppa, rappresentandosi, con tale immagine poetica divenuta un mito, le quattro plaghe del cielo diversamente colorate nelle quattro parti nelle quali si dividevano le ventiquattro ore del giorno. Il poeta vedico e il popolo creano miti del pari; o più tosto il poeta vedico, come l’ellenico, non fa altro se non levare, in una forma più artistica, la credenza popolare già esistente. A quella coppa divina vanno a bere l’ambrosia gli Dei dell’India, ossia intendasi che quando il cielo si copre di nuvole gravi di pioggia, la coppa si empie d’un liquore celeste.
Invece d’una coppa, i poeti vedici rappresentano pure nel cielo nuvoloso una gran botte, che si versa. I Greci si rappresentano lo stesso mito con le Naiadi, le quali versano acqua dalle loro brocche, o con le Danaidi le quali ora s’affaticano ad empiere una botte sfondata, ora versano acqua a traverso un crivello. Ed ecco che ritroviamo già come una nozione popolare mitica antica, l’immagino del cielo figurata come un crivello, che il poeta mariniano credette avere inventato primo come sommamente peregrina. Se il poeta mariniano avesse scritto due mila anni prima in greco e adoperato quella stessa immagine, non solo essa non sarebbe sembrata strana, ma dal suo consenso con un mito popolare, avrebbe acquistato, per quel suo abito democratico, una nuova consecrazione popolare. In Germania si usano ancora dal popolo magie fatte con un crivello per scoprire i ladri, come tra gli arabi con un orcio. Questo crivello, questo orcio magico, che fa da spia ha una probabile origine mitica, anzi celeste, poichè nel cielo troviamo appunto figurate talora le stelle come spie. I buchi lucenti del crivello del poeta mariniano trovano dunque essi pure un riscontro certamente inconsapevole con una nozione popolare antichissima, del quale le magie germaniche del vaglio possono essere una reminiscenza. Ma il verso del poeta nostro non rispondendo ora più ad alcuna viva nozione popolare, appare a noi una semplice bizzarria che attesta soltanto il cattivo gusto del poeta e del suo secolo, quando invece ci parrebbe ancora, nella sua rozzezza, vivace e poetico se potessimo riconoscere in esso un modo singolare e immaginoso del popolo di contemplare, nella sua ignoranza, il cielo. La scusa dell’ignoranza che giustificherebbe la finzione popolare non può giustificare egualmente un poeta letterato, quando egli non segue una tradizione popolare, ma, per amor di novità, inventa scientemente un’immagine falsa. Io ho forse già detto più parole che non occorressero a mostrare la differenza che passa tra la finzione individuale d’un poeta e quella del popolo. Ma parevami necessario, prima d’entrare a discorrere di alcuni miti, persuadere chi m’ascolta, che i miti sono bensì poesia, ma non invenzione di poeti, sì bene creazione mirabile d’un solo, d’un grande, unico, veramente immortale poeta, del popolo.
La nozione mitica ha quasi sempre un carattere di universalità; il mito indo-europeo, nel viaggiare di paese in paese, può trasformarsi come il linguaggio indo-europeo e vestir nuove fogge, fantastiche, nazionali, ma non certamente più del linguaggio, del quale pure si rintracciano le radici comuni. Perciò è possibile la mitologia comparata come la filologia comparata. Solamente il nostro studio è un po’ più vago e pericoloso che non sia quello dei filologi. Noi muoviamo in un elemento assai più elastico e assai più fantastico. Tutto il materiale linguistico è noto, fisso, presente e può già essere classificato, ordinato, comparato; il materiale mitico in parte andò perduto, in parte ci è comunicato imperfettamente; la storia mitica indo-europea ci presenta troppe lacune perchè ci sia lecito chiamar scienza compiuta la nostra; vi ha scienza solamente quando si ha una serie di conoscenze sufficiente a fermarne i principî generali. Ora noi non possiamo ancora dire d’avere classificato il nostro materiale scientifico. Abbiamo indizî probabili d’una scienza vicina, a costituir la quale è desiderabile che concorra pur l’opera dell’intelletto italiano. Ma il trattato compiuto della mitologia comparata non è oggi ancora possibile, perchè la nostra indagine storica ci presenta ancora troppe lacune, che solo il tempo e la diligenza de’ curiosi raccoglitori di tradizioni popolari d’ogni maniera e d’ogni età, orali e scritte, potranno riempire. Io non vi insegnerò dunque nulla; ma solamente avrete da me qualche accenno, onde rileverete quale sia l’oggetto più tosto che l’esito finale, ancora assai lontano, delle nostre ricerche.
Il popolo, come fu già detto più volte, immagina e crea a modo d’un fanciullo, ossia a modo d’un ignorante pieno d’ingenuità, di sincerità, di curiosità, d’impressionabilità, scusate la parola che non è di Crusca; ma la Crusca non sapendomene finora offrire un’altra che esprima la stessa idea, mi conviene adoperare quella che mi sembra atta a rendere evidente il mio pensiero.
Uno scienziato, poniamo un astronomo, che contempli oggi il cielo con un buon telescopio, d’onde gli si fa vicino ciò che appariva lontano, e intieramente palese la natura de’ corpi celesti, non inventerà di certo più alcun mito. La mitologia è la poesia degli ignoranti commossi o stupefatti od atterriti. Bisogna esser creduli, paurosi, ingenui, ignari come fanciulli per trovar tante occasioni di meraviglia o di terrore nel cielo. Fin che un oggetto non si conosce può apparir mirabile; appena si conosce com’è fatto, cessa lo stupore. Lo scienziato può ammirare ancora l’armonia suprema delle cose che sfugge ancora e sfuggirà sempre alla sua indagine; ma gli sarebbe certamente impossibile raffigurarsi più il Dio Febo in quella gran luminosa massa celeste di cui esamina col telescopio le macchie. Il Mitologo deve dunque, se vuole esser compreso e comprendere, ripetere anch’esso il celebre: sinite parvulos ad me venire.
Io non so fino ad ora che cosa si debba pensare della nuova teoria darwiniana intorno alla creazione dell’uomo, e a’ suoi pretesi antenati. Se è vero che noi partimmo dal bruto, mi consolo al pensiero che ce ne siamo già tanto allontanati e con la speranza che ce ne allontaneremo sempre più. Ma questo m’importa avvertire, come mitologo, che i miti sono il primo indizio storico che l’uomo diede della sua eccellenza ideale sopra tutti gli altri animali. Ovidio cantò già che il nume diede all’uomo come suo principal distintivo l’ordine di guardare in su, di guardare il cielo,
Os homini sublime dedit, coelumque tueri
Jussit.
Ma, guardando il cielo, l’uomo non istette muto, e lo interrogò. Vedea piovere dall’alto la luce diurna, accendersi ogni notte, come lampade divine, la luna e le stelle, scenderne ai campi le rugiade benefiche e le pioggie invocate e chinò le ginocchia adorando, avendo, con credula e poetica pietà immaginato che si muovesse un nume arcano e benefico in ogni corpo luminoso celeste. Il cielo stesso poi gli parve un gran Dio, anzi il primo, il sommo degli Dei.
La parola Dio che noi adoperiamo ora a rappresentare il nume suona, come sapete, Deus in latino e Devas in sanscrito. Ma in sanscrito la parola Devas non significa soltanto Dio, ma sì ancora propriamente nel suo primo significato, il luminoso. La parola Dio in origine fu sinonimo di cielo. La parola div significò splendere; diu rappresentò il cielo in quanto risplende; il vedico Dyaus (in greco Zeus) è il nume del cielo chiamato anche Dyaus pitar, ch’è il Diespiter o Jupiter Giove Padre de’ latini, propriamente il padre luminoso, il padre del luminoso, salutato pure ne’ Vedi col nome di Divaspati o Signore del cielo, Signore del luminoso. È cosa mirabile in verità il riconoscere ora che il principio dell’orazione dominicale cristiana: Padre nostro che sei ne’ cieli concorda perfettamente con la prima nozione ed espressione mitica della stirpe indo-europea, la quale a differenza delle altre stirpi umane più basse, adoratrici di feticci, pone subito il suo nume al disopra di sè, più in alto nel pieno splendore della luco celeste, anzi fa il nome di Dio perfettamente sinonimo di quello splendore. Come Jupiter o Diespiter fu, in origine, il padre del cielo, così il suo antenato indiano Indra, il Dio fulminante, tonante e pluvio indiano, rappresentò in origine soltanto il sommo nume del cielo. Quando poi leggiamo che nell’Olimpo indiano Indra fu spodestato dal Dio Brahman, poichè in origine Brahman significò pure il vasto cielo, noi non abbiamo altro se non una restituzione del Dio Indra, ormai divenuto per una razza brahmanica troppo battagliero, alla sua forma e natura primitiva, alla figura cioè di un nume più alto, sedente immobile nel sommo cielo, regolatore, ordinatore, creatore de’ mondi, simile al Varuna, col quale Indra si trova pure invocato negli inni vedici, e al greco Ouranos, propriamente il Cielo, che nella mitologia greca si figura principale autore della creazione del mondo. Nella mitologia vedica Dyaus, il cielo nella sua qualità di luminoso, appare sposo di Pr’ithivî propriamenta la larga, appellativo che in origine si riferì alla volta del cielo. Dyaus lo splendore penetra la larga volta del cielo e la ravviva. Così il cielo si anima e si popola.
Ma la Pr’ithivî che, in antico, figurò la larga volta celeste, passò quindi a rappresentare specialmente l’ampia terra. Avvenuta questa ipostasi, la creazione divina primigenia non si fa solamente più nel cielo fra il luminoso e la larga, ma fra il cielo figurato come fecondatore e la terra fecondata dalle rugiade e dalle pioggie celesti. Il cielo Dyu Dyaus, nella sua qualità di fecondatore prende, specialmente, negli inni vedici, il nome di Parg’anya, col quale fu già paragonato il Giove slavo Perkun, Perun. La parola parg’anya vale propriamente la nuvola tonante e pluvia, la nuvola tempestosa; poi figurò il Dio della pioggia e della tempesta. La Pr’ithivî celeste, ossia la larga volta del cielo, e la Pr’ithivî terrestre ossia l’ampia terra, sono spose del pari del Diu-Parg’anya ossia del luminoso pluvio fecondatore. Un inno vedico dice precisamente che, per mezzo del Dio Parg’anya, il cielo si riempie e la terra si feconda. Talora di Dyu-Parg’anya si fanno due persone distinte, dello quali Dyu il cielo luminoso appare il padre e Parg’anya il cielo pluvio è detto figlio; il che vuol dire, in somma, che dal cielo sereno si forma il cielo pluvio. Dyu adunque che ha un figlio celeste deve puro necessariamente avere una sposa celeste, e questa sposa celeste è precisamente la Pr’ithivî che raffigura l’ampia vôlta del cielo. Anche il Dio Indra, come il Dio Parg’anya, nel ventesimo inno del quarto libro del Rigveda, nella sua qualità di Giove pluvio e tonante, è fatto emergere dal Dyu, dalla Pr’ithivî, dall’oceano dal cielo nuvoloso. La Pr’ithivî come larga vôlta celeste è un equivalente di un’altra Dea Vedica, chiamata Aditi, parola che significa propriamente l’infinita. Questa Aditi è rappresentata qual madre degli Dei chiamati perciò Adityas, ed anche qual madre dei venti (mâtâ Rudrânam). Anche nell’inno cosmogonico vedico vien detto che il vento Vâyu (Eolo) non solo fu la prima creazione, anzi l’increato, ma che esso, agitato dal desiderio, dall’amore, si mosse e creò. Come vediamo poi Indra che, nel suo primo e più antico aspetto rappresenta il cielo luminoso, dal quale si generano tutte le cose, nella sua qualità di cielo tonante, diviene un Dio guerriero, possente, il primo degli eroi, anche il vento si moltiplica ne’ venti che soffiano nella nuvola, che adunano le tempeste, che corrono pel cielo tempestoso, e come tali i venti col nome specialmente di Marutas vennero celebrati dai poeti vedici come formidabili eroi, quasi paladini, che assistono il grande Indra nelle sue battaglie epiche celesti. Ma poichè il cielo e l’aria che si muove od il vento, nella loro prima figura apparvero numi cosmogonici, vediamo ora quale corrispondenza abbia trovata una tale rappresentazione mitica nel mondo ellenico.
Come Dyaus e Pr’ithivî appaiono negli inni vedici quali primi parenti, come Dyaus negli inni vedici è talora sostituito da Varuna, e alla Pr’ithivî è dato pure il nome di Go, Gaus, la quale è insieme la nuvola celeste che si muove e la vacca celeste che si feconda, e poi la terra la gran madre degli uomini, della quale la vacca tra gli animali è l’immagine, così troviamo nel mito ellenico rammentati gli amori di Ouranos con Gaia. Ouranos fu, in origine, certamente il cielo, e, se divenne più tardi l’oceano, ciò avvenne perchè nel cielo si vide un oceano, ora inondato di luce, ora d’acqua tenebrosa e nuvolosa.
Quando Esiodo, Omero, Eschilo parlano della Gê pantôn mêtêr, e della Gaîan pammeteiran, della Gê pammêtor, ossia della Gea madre di tutte le cose, questa Gea non può ancora essere la terra, ma dev’essere una madre universale celeste come l’Aditi vedica madre degli Dei. Quando lo stesso Esiodo rammenta come prima creazione uscente dal caos una Gea dal largo petto eurysternos, sede stabile di tutte le cose pantôn hedos asfalès aieì, noi ricordiamo ancora la Pr’ithivî, la larga sede celeste, ove siede Indra signor del cielo, ove ha il suo trono l’immobile creatore dell’universo, il Dio Brahman. Così, come pensare ad una Gea terrestre, quando l’inno omerico la saluta qual Theôn mêtêr ossia madre degli Dei, e come sposa dello stellato Ouranos? Ma come, mi direte, come mai figurarci che al cielo siasi mai dato lo stesso nome che alla terra? E come no, se si è pure immaginato che cielo e terra fossero soltanto due coppe che si combaciavano? Come non pensare che il cielo sia stato immaginato nella figura di una Gea, di una terra paradisiaca, poiché s’immaginò che il cielo fosse non pure abitato dagli Dei, che potevano benissimo avere il privilegio di rimaner sospesi in aria, ma da animali e coperto d’erbe, piante, foreste, praterie, campi di biade d’oro, pietre, montagne, miniere, che suppongono un suolo, una terra? Le stelle ora sono fiori, ora gemme; il cielo stesso fu concepito come un grand’albero cosmogonico. Le radici, come si capisce bene di que’ fiori di quelle erbe, di quegli alberi posano sopra una terra privilegiata celeste, che nessuno coltiva, quando non la solchi il sole, come, infatti, veramente nel mito la solca. Il sole è il grande seminatore, e agricoltore, e produttore celeste. Come la terra verdeggia per virtù del sole, così il cielo per virtù del sole, ogni giorno, torna a risplendere. Il non avere posto mente a questo mito singolare e poetico di una terra celeste trasse fin qui in errore i mitologi, e li portò ad una vera confusione nella determinazione di alcuni tra i miti più elementari.
I responsi divini vengono dal cielo; il tono, che mugge nella nuvola, il vento che fischia, dànno questi responsi: l’oracolo d’Apollo fu pure, in origine, l’oracolo del sole tonante. Gli alberi fatidici, le quercie profetiche del Giove Dodoneo, furono alberi celesti, ossia nuvole tonanti nella foresta divina, nel cielo nuvoloso. E quando Eschilo nelle Eumenidi ricorda la Gea prima profetessa prôtomantin Gaian, noi abbiamo ancora una figura della terra celeste. In reminiscenza di quel mito, per equivoco naturale, dopo s’interrogò pure dagli uomini la terra, la quale fu supposta tenere i secreti del nume. Ma i secreti de’ numi sono sempre in cielo; e solamente, per una ipostasi del nume, furono pure immaginati alberi, fonti, antri fatidici sopra la terra. Noi stessi attendiamo ancora tutto dal cielo, anche quanto si tratta d’ottener benefici dalla terra. Il cielo è per noi sinonimo del nume. Quando s’invoca nel discorso il cielo e si dice: o cielo, il cielo mi aiuti, voglia il cielo, tali e simili espressioni che equivalgono al Dio mi aiuti, Dio voglia, sono certamente un resto di reminiscenza e credenza religiosa pagana che collocava nel cielo tutte le meraviglie e dal cielo ripeteva tutte le grazie, delle quali la pioggia e la luce specialmente invocate, piovevano. La terra, che noi conosciamo, non ebbe mai nell’India ed in Grecia un culto simile. Il poeta vedico la loda pure, ma specialmente come quella che deve servirgli di tomba, che nasconde, che cela, che copre pietosamente le membra de’ cari trapassati; egli la prega anzi di non fare alcun male al morto, d’essergli leggiera. Questo linguaggio è assai tenero, ma non è mitico; la terra mitica è, quasi sempre, una terra celeste; quando anche alla nostra propria terra si attribuiscono virtù divine, quando alle piante, alle pietre, agli animali della terra si riferiscono virtù magiche, si può essere persuasi che il principio di una tale credenza muove quasi sempre da un mito primordiale celeste, per la stessa forma, con lo stesso processo storico, per la stessa analogia evolutiva, per la quale gli eroi epici nazionali, i quali vengono a celebrare le loro gesta in un mondo storico terrestre, discendono, per la massima parte, tutti da qualche nume veramente olimpico. Per la stessa ragione per la quale il Dio vedico Indra intieramente celeste si trasforma nel bellissimo principe Argiuna del Mahâbhârata, ossia, per avere raffigurato il cielo come un enorme açvattha o ficus religiosa, si concede quindi un culto sacro anche all’açvattha terrestre. Così, ripeto, raffigurato il cielo ora come un gran giardino, ora come un gran campo, ora come una grande prateria, ora come una grande foresta, ossia tutto insieme, spesso, come una terra mirabile, si cercarono e si credettero trovare anche sulla terra giardini, campi, praterie, foreste miracolose, e s’attribuirono talora anche alla terra singolari virtù magiche. Ed ecco in qual modo veramente sono nate più spesso quelle che noi chiamiamo ora credenze ed usanze superstiziose, ossia da una traduzione terrestre della mitologia celeste, la quale, in origine, fu una semplice poesia. La Dêmêtêr è certamente una Dea celeste, e 1a madre universale come l’Aditi vedica; con essa fu identificata la Gêmêtêr; anzi i due nomi si confondono in uno e raffigurano la stessa Dea. Perciò Pindaro può dire nelle Nemesie che uomini e Dei traggono la loro origine dalla stessa madre, dalla stessa Gê. Da quanto abbiamo detto finora intorno alla terra celeste, noi possiamo renderci dunque ragione della somiglianza che si trova negli inni vedici fra Dyaus e Pr’ithivî, invocati insieme e in certo modo identificati, e spiegarci pure come la madre del filosofo Anassagora gli raccontasse un giorno una cosa che era certamente un’antica tradizione popolare, cioè che una volta cielo e terra formavano una sola sostanza. Noi sappiamo ora infatti che Dyu e Pr’ithivî sono l’uno il cielo luminoso, l’altro, in origine, il cielo vasto, e che Ouranos e la Gê, madre universale, sono pure il cielo e la terra celeste, ossia una duplice figura, maschio e femmina, del cielo. La prima fecondazione dell’essere animato si fece nel cielo, ove nacquero pure Dei, animali, piante e pietre preziose; poi nello stesso modo, si immaginò che venissero fecondate sulla terra tutte le creature umane, come cantò Lucrezio:
Denique cœlesti sumus omnes semine oriundi;
Omnibus ille pater est, unde alma liquentis
Umoris guttas mater cum terra recepit,
Feta parit, nitidas fruges, arbustaque laeta
Et genus humanum.
Il culto de’ fratelli Arvali si fonda principalmente sopra il carattere sacro attribuito alla terra produttrice di tutti gli alimenti. Ma questo culto non poteva certamente essere primitivo; esso era specialmente proprio de’ Romani cioè di un popolo pratico, il quale guardava certamente molto più alla terra che al cielo, così che quasi tutte le sue feste religioso erano pure feste agricole. Che se non si dimentica quanto lasciò scritto Tacito de’ Germani, i quali onoravano essi pure come loro madre comune Ertha, la terra che interveniva, dicevasi, come Dea nelle faccende umane; per questa sua stessa qualità di Dea, rimarrà lecito supporre che la terra, alla quale essa presiedeva, fosse una terra ideale, fantastica, lontana da quella realtà, alla quale il genio pratico dello storico romano voleva farla corrispondere, che fosse insomma della stessa natura di quel paradiso terrestre della tradizione semitica ed iranica, di quell’orto ellenico delle Esperidi, che appare una ipostasi terrestre del paradiso cosmogonico celeste figurato in quasi tutta la mitologia indo-europea. Così, quando il poeta vedico fantastica intorno al creatore possibile di Dyaus e di Pr’ithivî, attribuendoli ora all’uno ora all’altro degli Dei, appare molto evidente che si tratta per lo più di una Pr’ithvî celeste. Per la disperazione di risolvere in modo adeguato la grave questione intorno all’origine del cielo e della Pr’ithivî che doveano poi creare alla loro volta tutte le cose, il popolo indo-europeo si levò forse d’imbarazzo, immaginando un nume apposito quasi mostruoso e caotico, con la qualità di fabbricatore e fabbro degli Dei. Al Vulcano latino, all’Efesto greco, risponde il vedico Tvashtar che vuol dire propriamente l’artefice, chiamato pure Viçvakarman, ossia che fa tutto, od anche Viçvarûpa che assume e che crea tutte le forme. Come dal caos uscirono i mondi, così dalla tenebra e dalla nuvola attraversata da lampi escono gli Dei luminosi; il fabbro degli Dei è propriamente il genio che elabora le figure divine nel caos cosmogonico, del quale le tenebre della notte e le ombre della nuvola tempestosa, ove egli riappare, sembrarono al poeta vedico immagini assidue. Tvashtar chiudendosi poi spesso nella nuvola, si comprende come il nome di lui siasi pure dato nella mitologia vedica al Dio Indra tonante nella nuvola, ove fa le sue grandi magie e si fabbrica armi formidabili. Ma Indra, nel cielo non combatte soltanto; come Giove, indulge egli pure agli amori; il padre del cielo, il signore del cielo, Indra, ama specialmente l’Aurora, che come figlia del cielo duhitar divas verrebbe ad essere sua figlia. Il mito dimentica spesso la parentela d’Indra con l’Aurora; e però non vi è quasi più nulla di mostruoso ne’ loro amori. Per lo più Indra protegge l’Aurora e la benefica; quando la perseguita, l’Aurora assume essa stessa un aspetto maligno, perverso, quasi demoniaco, come l’eroina dei Nibelunghi, come la Medea, la Circe, le Amazzoni elleniche, e sotto un certo aspetto anche la Pallade che diviene quasi una rivale guerresca di Marte e del padre Zeus. Allora Indra appare veramente come perseguitatore della propria figlia, di cui distrugge, egli stesso, combattendone il carro, facendolo piombare nelle acque, come il carro di Fetonte precipita nelle acque eridanie. Ma, in quanto Indra ama l’Aurora, in quanto l’Aurora prende pure nel Rigveda il nome di Sitâ, noi abbiamo in questa Sitâ vedica una figlia del cielo, una duhitar divas; quando pertanto leggiamo nel Râmâayana che l’eroina Sitâ è la figlia di G’anaka, propriamente il generatore, e della Pr’ithivî, non pensiamo al solco terrestre, ma al solco luminoso celeste, solco che fa il Dio Indra attraversando col suo timone tre volte il corpo infermo della fanciulla Apâlâ, perchè la sua pelle che era scura diventi chiara, all’Aurora, che Indra rende, dopo le sue battaglie contro il mostro della tenebra, nuovamente manifesta. Così il mito vedico si è continuato nell’epopea del Râmâyana ove Hanumant, il figlio del vento, venne co’ suoi compagni scimii a ripetere sulla terra indiana contro i mostri, contro i rakshasi, le battaglie combattute intorno ad Indra nell’Olimpo vedico dai venti Marut, contro i demonî rapitori di donne, di vacche e dell’ambrosia divina, ossia della luce e della pioggia. Come il cielo è supposto autore di ogni cosa creata, la fantasia popolare lo ha grandemente animato. Come abitato dagli Dei, è una reggia divina, un Olimpo, un Paradiso; quando gli Dei combattono è un campo di battaglia; quando il sole lo accende, una fornace ardente, una fucina, o pure anche un campo di biade d’oro; quando è fiorito di stelle, un giardino incantato, una sala da ballo, una chiesa coi ceri accesi, un ricco padiglione, una splendida prateria; quando le tenebre le nuvole lo ingombrano, una selva scura, un labirinto, un mare profondo; la luce d’oro che piove dal cielo è farina; la rugiada è miele che stilla, o ambrosia; il sole e la luna ora s’amano, ora s’odiano, ora son fratelli, ora sposi, ora rivali, ora nemici; le aurore sono ora fidanzate del sole, ora madri benefiche, ora sorelle, ora guidatrici di cavalli, ora pastorelle, ora ballerine, ora donne guerriere, ora ridestatrici ed eccitatrici degli uomini all’opera; le nuvole ora sono ninfe, ora ballerine, ora musici celesti, ora botti, ora fortezze, ora montagne, ora vacche, ora donne, ora streghe, ora mostri; gli esseri celesti ora strisciano come rettili, ora nuotano come pesci, ora corrono come cavalli, ora volano come uccelli; il cielo apparve insomma alla fantasia popolare assai ricco d’abitatori, svariato, pieno di moto, di colore, e di rumori diversi. Voi dunque mi scuserete agevolmente se non potrò descrivervi pure uno de’ mille miti ai quali le varie figure poetiche adoperate dal linguaggio per rappresentare i fenomeni celesti diedero origine; vi basti che ogni immagine potrebbe avere la sua storia mitica e divenire un capitolo d’un intiero trattato mitologico sovra il cielo. L’indulgenza vostra accolga intanto questo mio primo accenno, come una specie di rozzo inventario de’ tesori mitologici che potreste, se la curiosità vi reggesse, scoprire nel cielo. Ma, per darvi un’idea sola del viaggio che potè fare una sola immagine, anche secondaria, vi aggiungerò soltanto che, fra le tante fantasie popolari, quando l’uomo incominciò a leggere e a scrivere non solo nacque l’idea di convertire in fogli le foglie, ch’è una realtà e non una finzione, e di scriverci su; non solo egli suppose che su certe foglie di certi alberi mitici si trovassero scritti arcani divini, ma figurò pure tutto il cielo come un immenso, unico foglio di carta sopra il quale si potrebbe scrivere. Ora parmi cosa alquanto curiosa il seguire, sopra la guida erudita di Reinhold Köhler, quasi tulle lo forme che nella letteratura assunse questa sola immagine, di origine probabilmente semitica, alla quale aggiungo intanto una espressione assai comune del nostro linguaggio Quando noi vogliamo indicare una cosa che ha proprio da essere, diciamo pure: sta scritto in cielo che si farà. Ora il cielo appare in tale espressione come un gran libro sopra il quale viene fatalmente segnato il destino degli uomini.
Ad un dotto rabbino, Jochanan ben Zachai contemporaneo di Vespasiano, s’attribuiva, nel medio evo, questo motto ambizioso: «se tutti i cieli fossero pergamene e tutti i figli degli uomini scrittori, e tutti gli alberi della foresta penne, non potrebbero bastare a trascrivere tutto quello che ho imparato». L’immagine è forse d’origine biblica. Il motto: Cœli enarrant gloriam Dei mi sembra pure supporre che il cielo siasi immaginato come un libro od un foglio sopra il quale le glorie di Dio si trovano naturalmente descritte. Perciò un rabbino del secolo undecimo. Mir ben Isaak, in un suo canto ebraico-aramaico, lasciò pure scritto: «Se i firmamenti fossero pergamene e tutti i giunchi penne, e tutti i mari e tutti i laghi inchiostro, e tutti gli abitanti della terra scrittori esercitati, non basterebbero a descrivere la maestà del signore del cielo e del principe della terra». Nel Talmud si legge: «Se tutti i mari fossero inchiostro, tutti i giunchi penne, tutto il cielo una pergamena, e tutti i figli degli uomini scrittori, non arriverebbero a scrivere i sentimenti segreti del cuore di un re. Nel Corano l’adagio appare monco, poichè non si rammenta nelle due volte in cui vien citato il cielo di carta, ma soltanto il mare d’inchiostro. Un canto popolare neo-greco col quale si accorda intieramente un canto serbo, suona così: «Io prendo il cielo come carta, e il mare come inchiostro, non arrivo a descrivere le mie pene.» In un altro canto greco l’amante, per scrivere alla sua bella senza fine, adopera il cielo come carta, il mare come inchiostro. Il nostro Arrigo da Settimello si lagna egli pure fin dal secolo XII, che se il cielo fosse la pagina, e se le fronde scrivessero e se l’acqua divenisse inchiostro, ei non potrebbe riferire tutte le sue pene. Nei canti popolari italiani, invece del cielo carta, l’immagine si sciupa, e si dice invece dall’amante che a scrivere, ora l’amore, ora i suoi dolori, egli non arriverebbe anche:
Se gli alberi potessan favellare,
Le fronde che son su fossano lingue,
L’inchiostro fosse l’acqua de lo mare,
La terra fosse carta e l’erba penne.
Tuttavia poichè un’altra variante toscana pubblicata dal Tigri suona così:
Se l’acqua dello mare fosse inchiostro
D’ogni stella ci fosse uno scrivano,
Non scriverassi il bene che io vi voglio,
si capisce bene che le stelle dovevano soltanto scrivere sopra il cielo di carta e non sopra la terra; il che ci viene pure confermato da una variante popolare umbra. Un poeta medioevale tedesco di nome Adolfo, assai poco galante con le donne, adoperava la solita immagine per vendicarsene, mostrando la infinità dei loro inganni, anch’esso adopera alla sua vendetta le stelle come scrivani:
Si stellæ scribæ pelles cœlum, maris unda
Esset incaustum, nec cifra cum sociis,
Sufficerent plene mulierum scribere fraudes,
Cum quibus illaqueant corda modo jucenum.
I canti popolari tedeschi ripetono generalmente la stessa immagine delle stelle che scrivono sulla carta del cielo, per mostrare che non bastano ad esprimere l’amore o le pene d’amore. I canti inglesi trasferiscono pure l’immagine dal cielo alla terra come i canti italiani, ed uno di essi se la piglia pure come il poeta Adolfo contro le frodi delle donne. Ecco dunque in qual modo una semplice immagine, inspirata forse a qualche poeta giudaico da un solo motto biblico, potè trasformarsi in espressione mitica, e, viaggiando in occidente, diventar popolare, anche in mezzo a popoli di stirpe indo-europea. Impadronitisi ora il popolo di quella immagine, essa lo può moltiplicare senza fine, ed anche alterarla, mescolandola con altre immagini di fonte ariana. Onde voi vedete bene da questo solo tenue, minimo indizio, quanto vario e complicato sia il mondo mitologico, e come, a rappresentarvelo degnamente ed intiero, dovrei invocare davvero anch’io un foglio largo quanto il cielo e non metterei come faccio qui pur troppo, un po’ di nero sul bianco, ma rapire da prima la penna d’oro alle stelle, poi tuffarla nelle onde rosee dell’aurora e narrare quindi sul foglio azzurro del cielo ad una ad una le mirabili ed infinite glorie degli Dei.