Lettere scientifiche di Evasio ad Uranio/III
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LETTERA III.a
Dopo di avere colle due precedenti lettere, o mio dolcissimo Uranio, procurato di mettere in chiaro quelle avvertenze e quelle cautele, per cui lo studio delle matematiche non abbia a divenire pregiudizioso, col produrre in noi sentimenti riprovati dalla nostra santissima Religione; vorrei, se è in grado al Dator d’ogni lume, far passaggio a mostrare que’ conforti, che da questo medesimo studio possiamo procurarci nella credenza, e nella condotta conforme alla nostra vocazione. So, che da taluni chiamansi le nostre scienze mute ed infeconde di quelle voci, che parlano al cuore, di que’ felici germogli, da cui sorgono opere di virtù; ed io, che venero la sagra sapienza di coloro, che ci sono maestri nelle vie dello spirito, fo plauso volontieri a quei salutari avvertimenti, ch’essi ne danno, onde di pii esercizi frammischiamo i nostri studi, per non lasciare ir lungi il pensiero da Lui, che ne deve essere il primo oggetto sublime, e poter tratto tratto presentargli in ossequio l’affetto del cuore, e la sommission della mente. Nondimeno dirò, che quel sapientissimo e provido consiglio, il quale ha voluto, che talora si vedessero frutti dolcissimi nati in mezzo a rami spinosi, ed acque pure e salubri sgorganti da durissime rupi, può far sì, che anche non allontanandoci dagli oggetti di nostra giornaliera applicazione, questi stessi a noi forniscano edificanti pensieri, che ci parlino utilmente dell’essere nostro, di Dio, della Religione, e de’ nostri privati e sociali doveri. Io bramerei di poter espandere l’anima mia, e a lungo trattenermi in un così soave argomento. Vasto è il campo da percorrersi, nè conviene il farlo fugacemente, però in una sola sua parte m’indirizzerò per questa volta; riserbandomi a migliore occasione le matematiche applicate, mi occuperò presentemente delle pure ed astratte: campo, che universalmente si crede il più sterile ed ingrato, e il meno atto ad essere irrorato da celeste rugiada.
La prima e più facile riflessione, che ci somministrano queste scienze figlie dell’umano pensiero, si è sull’eccellenza del nostro spirito dotato di quella maravigliosa facoltà, che dicesi dell’astrarre, per cui egli ragiona sulle essenze delle cose spogliandole degli accidenti, che le accompagnano nei concreti, e corre sopra tutto l’esistente, ed anche sopra il possibile con generali, e rapidissime considerazioni. Quando io penso a questa facoltà d’astrazione, di cui non si è mai potuto riconoscere alcun’orma ne’ bruti, mi par di veder l’uomo di gran tratto elevato su tutto ciò, dove i suoi sensi s’incontrano; veggo spezzata quella fantastica catena, che fu immaginata congiungere per piccolissimi ed insensibili anelli il sasso coll’essere ragionevole; un sentimento, non so, se di compassione o di dispetto, mi sorge in cuore per quel cieco filosofismo, che non vuol veder nell’uomo, se non materia. Quando il mio spirito prende questo volo su tutto il creato, sento in lui una voce, della cui veracità non ho dubbio, la quale parmi che dica: io vi trapasso, o inferiori sostanze: conosco, che il mio essere è di molto sul vostro più elevato: m’accorgo di quel lume del divino volto, che sopra di me è stato impresso. Quanto è mai soave una tal voce! come è possibile, che non la senta, chiunque si avvezza alle astrazioni matematiche? E in vero tre di queste astrazioni, o generalizzazioni, e le più ardite si fanno dall’analista una sull’altra per giungere nei recessi della sua scienza. La prima, quando si forma l’idea del numero astratto, che riesce sempre identico con se stesso, qualunque sia stata la quantità concreta, da cui fu tolto per mezzo della misura: la seconda, quando si crea quella quantità letterale, che può rappresentare qualunque numero; la terza quando sopra un’indefinita moltitudine di formole composte ad une, o più variabili, si forma l’idea della funzione indeterminata. Chi professa le matematiche, ha tutto dìFonte/commento: Pagina:Piola - Lettere di Evasio ad Uranio.djvu/117 famigliari queste prodigiose operazioni affatto dissimili da tutte quelle, che si vedono nell’universo: egli dunque esser dovrebbe il nemico implacabile de’ materialisti, il primo a predicar l’eccellenza, e l’altezza delle nature spirituali.
Ma la dignità dello spirito umano rilevasi anche di più per quella forza stupenda, ch’esso trae dalle matematiche scienze. Trattar l’incognito egualmente come il noto: formar dei criterii per discoprir l’impossibile: ragionar del fatto così bene come di ciò, che esiste soltanto in potenza: fra innumerabili possibili assegnar l’ottimo; spingersi senza pericolo eziandio nell’infinito: queste sono meraviglie, quanto vere, altrettanto difficili a persuadersi a chi è straniero all’analisi sublime. Un essere sì elevato potrà mai persuadersi simile a tutte quelle inerti sostanze, che il circondano nell’universo? sarà egli un’essenza di que’ fluidi sottilissimi, che pur talvolta non isfuggono al dominio de’ suoi calcoli? un tessuto di fibre, e di molle, delle quali egli giunge a determinar le tensioni e gli elaterii? una materia in somma, che per quanto vogliasi sublimata, se è materia, va lungi sìFonte/commento: Pagina:Piola - Lettere di Evasio ad Uranio.djvu/117 spesso dalle sue viste, che sin ne cade la rappresentazione e la memoria? In verità a me sembra, che un matematico materialista sia qualche cosa d’inconcepibile, e direi eziandio d’impossibile, se non sapessi altre misere contraddizioni, che talora s’incontrano nell’uomo. Che uno stupido selvaggio, od un brutal mussulmano non pregi la nobiltà del suo essere, o la sagrifichi a sordidi vizi, è cosa lacrimevole; ma che si degradi sì turpemente colui, che ha tuttodì, (per così dire) la sua anima fra le sue mani, sa di furore e di delirio.
Se le astrazioni dell’analisi possono sì bene giovare per sollevarci sopra tutto il sensibile, e persuaderci l’altezza della nostra natura, io m’inoltro e asserisco, ch’esse di più c’innalzano verso Dio e ci parlano dell’infinità de’ suoi attributi. Ciò mi sarà concesso da chiunque sulle prime si ponga meco d’accordo nelle due proposizioni seguenti. La prima è che ogni qual volta noi veggiamo in alcuni esseri una progressione nei gradi del loro perfezionamento siamo naturalmente portati a immaginarne altri in cui quelle prerogative siano maggiori: fino ad un ultimo in cui esse siano nel loro massimo grado. Infatti l’accennata progressione, mentre ci avverte della possibilità di un aumento, ci fa conoscere quegli esseri per sempre mancanti e limitati nelle loro perfezioni: e questo non cessa mai, finchè non si arrivi all’idea dell’Essere infinito, cui nulla manca e nulla si può aggiungere. L’altra asserzione è che per quella progressione argomentando dagli esseri finiti le perfezioni dell’Essere infinito, viene la nostra mente a formarsi di quest’ultimo idee di tanta dignità e grandezza, quanta non avrebbe per sè sola potuto subitamente conoscere senza giovarsi di quel mezzo.
Questo premesso, quanto è mai facile, o Uranio, che le nostre contemplazioni ci facciano scala a Dio! Nelle matematiche più, che in ogni altra provincia delle umane cognizioni, riesce lucida la gradazione di teorema in teorema, di scoperta in scoperta, di metodo in metodo: e si veggono tratto tratto sorgere degli ingegni straordinarii, che rimuovono i confini della scienza, e tutta la corrono a passi di conquista: dunque nelle matematiche più che altrove, per ciò che si è detto, è facile argomentare l’esistenza di una sapienza infinita, rispetto a cui ogni nostra s’impicciolisce, e si perde. Se io m’affatico su calcoli penosi per giungere dopo molti stenti a trovare una verità; Tu dunque vi sei, o Mente infinita, che miri di un solo slancio ogni vero! se m’accorgo, che un metodo è migliore dell’altro, e che tutti insieme non sono, che mezzi, per ajutar la mia debolezza: Tu esisti, che senza ajuto indiretto possiedi l’evidenza in ogni cosa. Quando veggo una moltitudine di teoriche, che si raggruppano spesso in una più generale, risalgo col pensiero a quell’Unità semplicissima, che tiene il cumulo di tutte le cognizioni. Oh! quante volte nella complicazione delle funzioni analitiche incluse le une nelle altre, io mi formo nell’immaginazione una speculazione indefinita, di cui non posso tenermi, che nei principj! chi tutto vedrà quest’immenso edificio, se non una Intelligenza interminata? Quante volte m’accorgo dell’infermità del mio spirito, che per aver idee chiare delle cose bisogna, che consideri le quantità parte per parte nei loro diversi stati sino ai valori numerici! Te dunque venero, o sommo Intelletto, la cui scienza è tutta presente a se stessa senza la minima confusione. E quelle immagini false, delle quali, non ostante il grido della ragione, vuole a forza la fantasia aggravare le idee delle cose spirituali? esse mi parlano della semplicità dell’Essere sapientissimo. E quelle idee fantastiche di tempo e di moto, che io conosco straniere all’analisi pura, ma che pur sovente non so da lei dissipare? sono cagione ch’io pensi a Lui, che è senza tempo e successione, perchè eterno ed immenso. E quel bisogno continuo di richiamare le acquistate cognizioni, per non perderne la ricordanza? mi umilia davanti a Dio, che è immutabile e onnisciente.
Così nello studio l’anima s’erge al suo Fattore: e questi sentimenti vengono senza sforzo, come è facile provare per via d’esempii: tra i quali mi giovano i seguenti del Galileo. Alla fine della giornata prima del troppo celebre dialogo „il modo, col quale Iddio conosce le infinite proposizioni, delle quali noi conosciamo alcune poche, è sommamente più eccellente del nostro: il quale procede con discorsi, e con passaggi di conclusione in conclusione; dove il suo è di un semplice intuito; e dove noi per esempio per guadagnar la scienza di alcune passioni del cerchio, che ne ha infinite, cominciando da una delle più semplici, e quella pigliando per sua definizione, passiamo con discorso ad un’altra, e da questa alla terza e poi alla quarta ec.: l’intelletto divino colla semplice apprensione della sua essenza comprende senza temporaneo discorso tutta la infinità di quelle passioni.„ E poco dopo: „Or questi passaggi, che l’intelletto nostro fa con tempo, e con moto di passo in passo, l’intelletto divino a guisa di luce trascorre in un istante, che è lo stesso, che dire: gli ha sempre tutti presenti. Concludo pertanto, l’intender nostro, e quanto al modo, e quanto alla moltitudine delle cose intese, esser d’infinito intervallo superato dal divino; ma non però l’avvilisco tanto, ch’io lo reputi assolutamente nullo: anzi quando io vo considerando quante, e quanto maravigliose cose hanno intese, investigate, ed operate gli uomini, pur troppo chiaramente conosco io, e intendo, esser la mente umana opera di Dio, e delle più eccellenti.„ E quell’altro nobilissimo passo alla fine della giornata quarta e di tutta l’opera: „Vaglia dunque l’esercizio permessoci, e ordinatoci da Dio per riconoscere, e tanto maggiormente ammirare la grandezza sua, quanto meno ci troviamo idonei a penetrare i profondi abissi della sua infinita sapienza.„ Anzi, non solo, come questi esempii e molti altri provar lo possono, il nostro spirito ne’ nostri studi s’innalza talvolta a Dio senza fatica: ma a lui si dirige, e lo trova quasi forzatamente. Eccone un esempio nel Laplace, che nel mentre (Saggio filosofico sulle prob. pag. 4.) va traviando nell’immaginare una formola, in cui siano contenuti tutti i movimenti della natura; vede a traverso delle sue ipotesi quella sublime intelligenza, che conosce tutte le forze, da cui la natura è animata, e alla quale nulla v’è di incerto, essendo l’avvenire come il passato presente a’ suoi occhi; e conchiude parlando dello spirito umano „tous ses efforts dans la recherche de la vérité tendent à le rapprocher sans cesse de l’intelligence, que nous venons de concevoir, mais dont il restera toujours infiniment éloigné.„
Che se le matematiche possono di tal maniera innalzar l’anima, saranno poi esse affatto mute di quella favella, che penetra il cuore? Io nol so, ma mi sembra, che contemplando tanta pompa di perfezioni nell’Essere supremo, e poi discendendo al mio essere, di cui ravviso ogni prerogativa, come da quel primo Tutto derivata, i miei affetti non rimangono addormentati; sento, che li scuote quella voce medesima, che prima ha destati i miei pensieri. Si sveglia un’altissima ammirazione, perchè l’Ente in se beatissimo abbia voluto far di nulla una creatura, ed arricchirla di nobilissime doti: sorge in appresso la gratitudine per beneficio sì segnalato, e l’amore mette l’ali verso quel Centro d’ogni bene, che quantunque infinito è pur quel solo, che basta ad appagar le sue brame. La mente, ed il cuore mantengono fra loro una mutua intelligenza: mentre quella scopre l’Essere sapientissimo e onnipotente, questo il desidera amabilissimo e pietoso; e allora subito ripiglia la prima, che l’Essere infinito debb’esser tale egualmente in tutte le perfezioni, sì che, se è infinita la sua sapienza, infinita è pure la sua Bontà. Ed ecco una felice disposizione per conforto di quella fede, senza di cui ogni altra credenza intorno alla Divinità non ci gioverebbe a salute: intendo la fede sui misteri della Redenzione. Giacchè un’anima credente compresa dell’idea d’un Dio infinitamente buono, non troverà soggetto di scandalo; ma piuttosto maraviglie ineffabili d’amore nelle umiliazioni incomprensibili, cui volle soggettarsi il Divin Verbo per oprar il nostro riscatto.
Potendo così per la cognizione dell’uomo, e per la cognizione di Dio rendersi utili le nostre scienze, nemmeno taciturne del tutto resteranno su quelle relazioni, che passano fra l’uomo e Dio, e l’uomo e l’uomo. Per dir delle prime, io ben so, che la Religione è un dono celeste, che vien concesso al dotto ed all’idiota, e che sovente rende quest’ultimo più caro agli occhi di Dio, che non il primo: ben so, che alcuni ingegni prevaricati, invece di usar la loro ragione per correre la via del raziocinio in tutela di quella fede, che ci viene infusa dalla Grazia soprannaturale e proveniente, ne abusarono deplorabilmente per farle oltraggio; ciò non ostante io son d’avviso, che un matematico, in cui la Religione è già fondata, può talvolta dalle sue cognizioni trar dei conforti per corroborarsi in quella credenza, ch’egli professerebbe anche senza questi estranei ajuti, giusta il detto del santo Dottore d’Ippona: quaero, Domine, non intelligere ut credam, sed credo ut intelligam.
A far qualche cenno in prova di quest’ultima asserzione, io ti richiamo, o Uranio, alla mente le nostre idee intorno all’infinito. „L’unità (dice Pascal, nei pensieri) aggiunta all’infinito, non l’accresce di nulla, non più che un piede ad una misura infinita; il finito s’annichila in presenza dell’infinito, e diviene un puro nulla: così pure il nostro spirito al cospetto di Dio: così la nostra giustizia davanti alla Divina.„ Quest’idea è famigliare al matematico: per addurne fra cento un esempio quando considera la parabola, come un elisse, il cui asse maggiore è divenuto infinito, egli nell’equazione della curva trascura francamente il quadrato dell’ascissa rimpetto al termine, che contiene quest’asse. Una siffatta idea, se venga a trovar sede nell’anima, oh come è atta a guardarci dal fascino delle creature, dall’incanto di tutte le cose sensibili! svanisce ogni finito, benchè grande rimpetto all’infinito: tosto che io abbia occupata la mente del pensiero dell’eternità, che cosa è più l’intera mia vita, e tutta la successione de’ tempi? mi sfuggono: io nulla vedo: conosco, che il primo uomo, che per morte entrò in quell’infinito, che ci attende al di là del sepolcro, e l’ultimo, che vi entrerà, si giudicheranno in quanto al futuro nella stessa condizione, quantunque il primo vi abbia già avuto più del secondo una dimora tanto lunga, quanto tutta la durazion delle cose. Svanisce ogni finito rimpetto all’infinito: oh Dio! come si restringe in un punto ogni grandezza umana, ogni bene terreno, ogni peso di umana sapienza! Le gare de’ principi, gli studi de’ letterati, le occupazioni che tanto affaccendano i mortali, mi sembrano paragonabili ai trastulli dell’infanzia, e immeritevoli di mia attenzione. Io sono destinato per questo infinito, come me ne convince, dopo tante altre ragioni, l’idea stessa, ch’io me ne formo sentendomene capace, e quella progressione indefinita nei successivi gradi di perfettibilità del mio essere, a cui idoneo mi trovo per progresso di cognizione in cognizione, che nella mia scienza, più che altrove, mi si rende manifesto; dunque una felicità eterna è un bene, al quale non è presunzione aspirare: una disgrazia eterna è un male sì spaventoso ed orrendo, che il solo pensiero fa fremere, e opprime l’intendimento. Nella vivacità di queste riflessioni quali stimoli ad operare, e vivere rettamente!
Svanisce il finito rimpetto all’infinito: se pertanto io mi ritrovo d’aver alcune cognizioni più di colui, che conduce sul campo l’aratro, potrei io mai insuperbirmi, o disprezzar quel mio simile, quasi fosse un automa? quando tutta la mia scienza si perde, più che una gocciola nell’oceano, rimpetto a ciò che ambedue insieme ignoriamo? Svanisce il finito rimpetto all’infinito; dunque le virtù dirette ad onorare l’Essere infinito, i vizi, che tendono ad oltraggiarlo, avranno premii e pene, che non possono essere finiti, perchè se tali fossero, sarebbero come nulli; così l’eternità, applicata a questi premii e a queste pene, non è già un dogma, che sconvolge la mia ragione, ma che è conforme a’ suoi dettati. Svanisce il finito rimpetto all’infinito: se dunque mi abbandona la mia ragione quando m’affisso ne’ misteri adorabili della Rivelazione, ella è cosa ben giusta e conveniente, distando per natura la mia mente infinitamente dalla Divina.
E quì caduto essendo il discorso sopra i misterii, se io non mi riconoscessi affatto indegno di portar le mie parole in argomenti così elevati, dove appena s’arrischiano d’aprir labbro i più consumati Teologi, vorrei dirti, o Uranio, di passaggio, che una mente avvezza alle forti astrazioni dovrebbe più dell’altre essere facile a persuadersi, che non mai in contraddizione colla ragione possono essere anche le più incomprensibili verità rivelate. Troppo le idee di tempo e di spazio, ovvero di successione e di estensione, sono a noi famigliari, perchè indivisibili da tutto ciò, che ad ogni momento cade sotto ai nostri sensi: ora è appunto il non togliere queste idee, quando alziamo la mente a certi altissimi misteri, sui quali tu già mi previeni, che fassi cagione di que’ torbidi, e di quelle inquietudini, ond’è sgombra la più sicura, ed invidiabil fede del semplice, e del fanciullo. Ma se alcuno (ed è veramente possibile) arriva a convincersi, che può darsi un modo d’esistere indipendente dalla successione, e dall’estensione, questi esser deve il Geometra, il quale calcola il tempo e lo spazio sotto espressioni indeterminate, e si forma un costume di guardar colla stessa indifferenza i brevi intervalli, ed i lunghissimi. Quegli astronomi, che colla medesima facilità tengono di mira il lentissimo moto dell’asse terrestre, e l’inconcepibile rapidità della luce, discutendo quivi un periodo di ventisei mila anni, quinci le frazioni piccolissime di minuto secondo, ben mostrano di aver sollevata la nozione del tempo, che il volgo non giunge a distaccare dalle sue particolari misure. Boscovich che dicea di poter intendere tutta la materia del mondo ridotta nello spazio di un atomo, e Leibnitz, che invece dentro alcuni atomi poneva altrettanti mondi, ben eran giunti a dominare sull’idea degli spazi. Circa ad altre maniere, colle quali, per via di allusioni e di confronti tolti nelle nostre scienze può essere favoreggiata la fede de’ sagrosanti misteri, io non credo di poter far meglio, che rimandarti, o Uranio alla lettura dei primi due Capitoli di un’appendice posta ad un’opera sulla verità della Religione Cristiana del P. Bartolomeo Ferrari, nome chiaro, e del quale la Religione, e le matematiche possono compiacersi concordemente.
Un altro modo di essere utile alla Religione consiste nel difenderla da qualche obbiezione de’ suoi nemici: or eccone una, che potrà servire a sollevarci alquanto dalla severità della precedente meditazione. Come mai, disse l’incredulo, da due soli progenitori in sì breve tempo tanto popolo ne venne da formar le nazioni? come mai furono queste sì tosto dopo il diluvio riparate da sei sole persone? e sì pochi animali salvati nell’arca hanno potuto ricoprir di nuovo la terra? e le piante e l’erbe ed i fiori, di cui le sementi furono nelle acque disperse e disfatte, come ricomparvero a vestir la collina? egli certamente spaccia, siccome gran senno, cotali inchieste, o le accompagna di quel malizioso sogghigno, che è la sua arma più poderosa, ed oltre il quale non passa per ordinario la forza de’ suoi raziocinii. Ma questa volta assai male gli sta, chè su lui lo ritorce un Geometra illustre: maxime ridiculae (dice Eulero: Intr. in anal. inf. T. I. Cap. VI. tit. 110) maxime ridiculae sunt eorum incredulorum hominum objectiones, qui negant tam brevi temporis spatio ab uno homine universam terram incolis impleri potuisse. E infatti basta un assai facile calcolo a provare (vedi Gregorio Fontana Add. XVII. all’istoria delle mat. del Bossut), che supponendo duplicarsi da ogni vent’anni la stirpe umana, Adamo verso l’anno 500 della sua vita ha potuto vedere una posterità di 1048576 persone. La moltiplicazione degli animali, se non trovasse ostacoli nella difficoltà della sussistenza, nella distruzione, che gli uni procurano agli altri, e nel servizio dell’uomo, diverrebbe cotanto grande, che ricoprirebbe tutta la superficie terrestre. Un’aringa sola (vedi luogo citato) in breve tempo riempirebbe l’oceano: anzi facendo un’ipotesi sulla fecondità di lei, che è conforme alla natura, può provarsi, che in otto anni la sua discendenza occuperebbe uno spazio maggiore di quello corrispondente a tutto il globo terraqueo. Certe specie di piante danno tanti semi, che se tutti fruttificassero, una sola di esse riempirebbe in quattro anni tutta la superficie terrestre. Queste conseguenze sembrano molto strane, ma discendono da calcoli esatti, come puoi tutte, o Uranio, verificarle presso il citato autore. Dopo tutto questo, qual porti giudizio sul peso di quell’obbiezione degli increduli?
Vengo a più serio argomento, nel quale può trarsi dalle matematiche in favor della religione un appoggio non dispregievole, secondo ne pensò anche il Leibnitz, come appare dal principio della lettera 38. del suo commercio epistolare. La Provvidenza, quell’attributo sì adorabile della Divinità, che trovar dovrebbe gratitudine in ogni cuore, benedizione sopra ogni lingua, trova invece chi talvolta ne bestemmia a motivo dei mali, ch’ella permette nel mondo. Dall’antico Manicheo sino al moderno Deista la vista di questi mali divenne per colpa dell’uomo uno scandalo fatale; ed esso presumendo di assegnarne l’origine, cadde prima nella eresia, poi nella totale miscredenza. Se Dio è infinito nella sapienza e nella bontà, perchè mai nella fabbrica dell’universo frammischiò colle cose utili, e belle le deformi, e nocive? perchè mai nascose il serpe fra i fiori? e pasce la tigre nella foresta? perchè pose il cardo, e la cicuta vicino al frumento e al cinamomo? perchè mai permette, che desolata dalle grandini, sconvolta da terremoti, ammorbata dalle pestilenze, e da tant’altri flagelli oppressa sia quella terra, ch’egli assegnò per abitazione alla sua prediletta creatura? se Dio è saggio e giusto, perchè lascia talvolta l’iniquo assiso sopra il carro dorato, e il buono stramazzato nella polvere? perchè toglie talvolta le forze del corpo a chi è tutto cuore per beneficare i suoi simili, e le concede a chi ne usa in violenze, e in assassinii? ecco le querele degli irriverenti mortali; ecco presso a poco quelle domande, onde il patriarca degl’increduli pirronisti nel dizionario istorico critico fece imbaldanzire la cieca incredulità. O uomo, che sei un punto sulla terra, la quale è pure quasi un punto nell’universo: tu la cui mente nel novero delle intelligenze create, e in mezzo a’ tuoi simili appena si scorge: la cui vita presente rispetto a tutta la serie de’ tempi, e più rispetto all’eternità si perde di vista; chi sei tu, che osi investigar le vie della sapienza infinita? egli è certissimo, che molti di quelli, che noi chiamiamo mali, sono realmente beni: che noi ne giudichiamo con idee fallaci, e menzognere, perchè le nostre basse vedute non si ergono a fini più eccelsi: tra’ quali debbonsi questi noverare, che nelle traversie della vita la Provvidenza esercita, ed affina le virtù, e fornisce un forte argomento per credere i premii, e le pene della vita futura. Il Cardinale di Polignac nel suo Antilucrezio pone in nobilissimi versi una bella similitudine di chi fa oltraggio alla Provvidenza a motivo dei mali, ch’egli crede di scorgere nel mondo, con chi giudica spregievoli, e mostruose alcune figure disegnate da un fisico sopra una tavola con arte finissima, e singolare. Quest’ultimo apparentemente ha ragione; chè infatti sono sì strane quelle forme, e così fuori d’ogni ordine conosciuto le loro parti, e i loro colori, che ognuno le direbbe produzion bizzarra del caso: eppure se tu vi poni un lucido cono nel mezzo, ed alla sua punta dirigi la tua pupilla, ecco da quel punto di vista con gran sorpresa, que’ mostri cangiati in bellissimi aspetti di esattissime proporzioni.
Ma sia pure, che diansi de’ mali nel mondo: sarà quindi ragionevole prender motivo di accusare la sapienza, l’onnipotenza, la bontà, la giustizia divina? tutt’altrimenti: secondo la dottrina luminosa, e vincitrice del Santo Dottor d’Aquino, dai mali esistenti può trarsi una prova apologetica della divina Provvidenza: ed è appunto questa dottrina, ch’io dico doversi assai chiaramente comprendere da quel Geometra, che si erudì nelle belle teoriche analitiche intorno ai massimi, e ai minimi. Per farmi strada a ben trattare l’argomento, fingiamo, che taluno di quegli uomini or or menzionati orgogliosi e censori, si faccia a visitare nell’atto del suo esercizio una macchina complicatissima costrutta da peritissimo artefice. Costui dopo molto esaminare dica all’abile meccanico: guarda, amico, quella girella va assai lenta, quel vette quasi per nulla si muove: perchè sì massiccia la mole di quel cilindro? perchè quel contrappeso, che ritarda il movimento? se tu sei così sapiente, dovevi dare un moto prestissimo al vette e alla girella, render leggiere tutte le parti, e far sì, che ciascuna di esse somministrasse il massimo effetto per lei possibile. Perdona, risponderà tosto l’artefice saggio: se io avessi data a tutte le parti tale disposizione, che ciascuna producesse per se il massimo effetto, credi tu, che massimo sarebbe risultato l’effetto totale della macchina? vai grandemente ingannato: quest’effetto totale è stato il principale mio scopo, e per renderlo massimo bisognava che fosse tarda la girella, immobile il vette, e che anche qualche moto parzialmente si eseguisce contrario a quello, ch’io voglio nell’ultimo risultamento ottenere: se a me non credi, interroga quel geometra, che sottopone a calcolo gli effetti delle macchine, ed esprime per mezzo di formole, i movimenti. Viene questo geometra, e palesemente asserisce, che il meccanico ha ragione: quindi generalmente dichiara, che avendo una formola complicata composta di tante parti, che sono ciascuna funzione di molte variabili, i valori di queste variabili che portano al massimo la funzione totale non sono ordinariamente quelli, che inducono il massimo nelle singole funzioni parziali; che anzi possono portare in queste ultime valori dal massimo ben distanti, ed anche nulli, ed anche negativi. Ciò ben inteso, facciamone l’applicazione. Egli è indubitato, che nel gran sistema dell’universo ciascuno di noi non ne ha sotto gli occhi, che piccolissime parti: se in queste parti non ci pare di scorgere tutta la perfezione, di cui le crediamo capaci: se vediamo dei mali produrre un effetto contrario a quello da noi desiderato, dobbiamo persuaderci, che questa particolare disposizione porterà poi la massima perfezione in quel gran tutto, che sta sotto gli occhi della Mente Infinita. Noi vorremmo veder tanti massimi nelle parti, e non pensiamo, che se questi fossero, non avrebbe luogo il massimo nel gran complesso: quale riflessione più idonea per sedare le nostre inquietudini? Il male non essendo che una privazione del bene, s’introduce, come s’introducono talvolta valori negativi nelle parti di quella formola totale, che si fa massima: però la sua esistenza non è ingiuriosa all’Essere Perfettissimo, nè fa bisogno del principio cattivo de’ Manichei per ispiegarne l’origine. Questa è in breve la dottrina di S. Tommaso accompagnata dalle nostre similitudini matematiche: ecco le principali parole del Filosofo angelico (Lib. III. Cont. Gent. Cap. 71.): „Bonum totius praeeminet bono partis... si malum a quibusdam partibus universi subtraheretur, multum deperiret perfectionis universi, cuius pulchritudo ex ordinata bonorum, et malorum adunatione consurgit, dum mala ex bonis deficientibus proveniunt... Non igitur per Divinam Providentiam debuit malum a rebus excludi.„
Io potrei su di altri punti cercare tra le matematiche, e la Religione un nodo di amistà e di concordia: e ben dolce mi sarebbe, e avrei speranza di non tentare affatto invano l’arringo; ma un’altro stadio a percorrer mi resta, e lo farò velocissimamente volgendo un pensiero alle nostre scienze, e insieme alle nostre relazioni colla società. E in prima sarà egli facile, che lo spirito dell’applicato Geometra si lasci svolgere da quella vertigine che vi schianta i principii morali, e sociali piantati da una religiosa educazione? sarà egli facile, che rompa la quiete delle sue meditazioni per gettarsi in quelle tenebrose ragunate, dove si van macchinando corone alla plebe, e catene ai regnanti? no: che chi ha preso diletto a spaziare nel mondo intellettuale, dove tutto è pace, soavità, ed anche tra le maraviglie del mondo fisico, dove ogni cosa sotto il più esatto ed immutabile magistero ubbidisce alle sapientissime leggi del Creatore, dovrebbe sentire orrore per quelle dottrine, che predicano la sovversione, ed amano suonare dalle bigoncie in mezzo al trambusto di un popolo, che corre alle violenze ed alle rapine: quelle, che promettono dovizie e libertà, e invece conducono l’empietà a gavazzar nel sangue cittadino. Nè già che dalle nostre scienze represso venga quel nobile affetto, che carità di patria si appella, o tolto lo stimolo alle magnanime imprese. Il frastuono d’una città presa d’assalto non giunge a staccar Archimede dalla considerazione di alcune figure geometriche: ma quella scienza, che allora il tenne immobile fin sotto il colpo mortale, era quella stessa, che avealo reso nella sua patria il nemico più formidabile de’ Romani. E sopra altri punti della morale filosofia alla società risguardanti, quali esser dovrebbero le massime del Geometra pensatore? non già per certo quelle di lui, che cercò nelle selve lo stato naturale dell’uomo. Il matematico, che ritrova la sua scienza formata dalla connessione, e dalla corrispondenza di tanti dotti ragunati, come in una sola famiglia, ad onta delle diverse età, e delle diverse regioni, in cui vissero: egli, che trova così prezioso il conversare co’ suoi simili, che per l’istruzione, che ne riceve, impara spesso in pochi momenti ciò, che fu il frutto della meditazione di alcuni secoli: egli che sente un desiderio vivissimo di espandere in altri le sue cognizioni, e talvolta si fa grata illusione col suffragio delle future generazioni; conoscerà ben chiaramente, ch’egli è per natura destinato a vivere nella società, ove più, che di piaceri sensibili, può fare acquisto di piaceri intellettuali tanto ai primi superiori, quanto lo spirito è da più della materia. E rispetto ai diritti, crederà egli di vedere l’origine nella forza, riguardando il potente qual suo oppressore, il debole come sua preda? no: ch’egli è avvezzo a stimar l’uomo per la sua parte migliore, per quella, che il fa degno di conoscere la verità, d’indagarla, e di convincerne gli altri. Perciò egli non disprezzerà il poverello per la rozza lana, che appena il copre, nè s’inchinerà al ricco per la porpora di cui fiammeggia, ma cercherà più addentro l’origine del vero merito: e dove non potrà rispettare l’attual pregio del sapere, rispetterà almeno la potenza per acquistarlo. Io so, che un ente ideale illude presentemente la mia immaginazione: ma se egli non diventa reale, ed esistente, ciò è colpa delle umane passioni, che giungono a depravarne l’indole, e a svisarne i lineamenti.
Gettiamo finalmente un rapido sguardo sopra l’uomo considerato in se stesso. Egli è ben certo, che una porzione delle interne amarezze, e de’ continui disgusti viene da quegli oziosi pensieri, che investono una mente non occupata, e fanno ch’essa si formi da se medesima il proprio tormento. Allora le piccole negligenze in altri diventano falli enormi: le azioni più indifferenti compajono di malizia ripiene: la gelosia quasi verme rode, e consuma la vita, e l’uomo è nojoso a se stesso, e insoffribile ai suoi simili. Altre passioni alzano mille torbidi che annuvolano la sorte più serena: e chi è mai sì avventurato da potersi almeno in parte sottrarre a tali molestie? Egli è colui che interchiude l’adito agli importuni pensieri: e tale può essere, chi nelle nostre scienze tiene applicato lo spirito; essendo esse più delle altre discipline molto proprie ad ottener questo scopo. Platone sorride nel vedersi trattato da’ remiganti come uno de’ loro compagni: e Newton per amor della pace, si ritira perfino dalla scientifica palestra. Ho qui poste queste sole riflessioni, perchè si è altrove indicato quel perfezionamento, che dalle scienze esatte deriva alle forze del pensiero, e del ragionamento, e a quel aggiustato sistema di vita, che è frutto del ben sentire, e dell’attento considerare.
Eccoti, o Uranio, il matematico, che nelle sue stesse scienze può trovare una voce amica della Religione, una voce amica dell’ordine sociale, una voce amica del suo proprio ben essere. E sì che finora ci siamo limitati alle sole matematiche astratte, e non abbiamo ancora aperto il gran libro della natura, dove l’apologìa della Divina Onnipotenza, e della Sapienza infinita si ritrova ad ogni tratto ne’ caratteri più luminosi. Tenteremo altra volta quest’ardua impresa; e se ci sarà dato di leggervi alla sfuggita la più piccola delle maraviglie, che contiene, finirai allora di persuaderti, o mio buon amico, che le nostre scienze non sono poi affatto mute, e infeconde nel senso, che da taluni si crede.
Il tuo aff.º amico |