Le favole (Leonardo da Vinci, 1904)

Leonardo da Vinci

Edmondo Solmi XVI secolo Indice:Da Vinci - Frammenti letterari e filosofici.djvu favole Le favole Intestazione 23 novembre 2024 25% Da definire

Questo testo fa parte della raccolta Frammenti letterari e filosofici


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LE FAVOLE.

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I. — l’irrequietezza.

Il torrente portò tanto di terra e pietre nel suo letto, che fu costretto a mutar sito.

II. — la carta e l’inchiostro.

Vedendosi la carta tutta macchiata dalla oscura negrezza dell’inchiostro, di quello si duole; il quale mostra a essa, che per le parole, che sono sopra lei composte, essere cagione della conservazione di quella.

III. — l’acqua.

Trovandosi l’acqua nel superbo mare, suo elemento, le venne voglia di montare sopra l’aria, e, confortata dal foco elemento, elevatasi in sottile vapore, quasi parea della sottigliezza dell’aria. Montata in alto, giunse infra l’aria più sottile e fredda, dove fu ab[p. 4 modifica]bandonata dal foco; e i piccoli granicoli, sendo restretti, già s’uniscono e fannosi pesanti, ove, cadendo, la superbia si converte in fuga. E cade dal cielo; onde poi fu bevuta dalla secca terra, dove, lungo tempo incarcerata, fece penitenza del suo peccato.

IV. — la fiamma e la candela.

Le fiamme, già uno mese durato nella fornace de’ bicchieri, e veduto a sè avvicinarsi una candela, ’n un bello e lustrante candeliere, con gran desiderio si forzavano accostarsi a quella. Infra le quali una, lasciato il suo naturale corso, e tiratasi d'entro1 a uno voto stizzo, dove si pasceva, e uscita da l’opposito fori d’una piccola fessura, alla candela, che vicina l’era, si gittò, e con somma golosità e ingordigia quella divorando, quasi al fine condusse; e volendo riparare al prolungamento della sua vita, indarno tentò tornare alla fornace, donde partita s’era, perchè fu costretta morire e mancare, insieme colla candela; onde al fine, con pianti e pentimenti, in fastidioso fumo si convertì, lasciando tutte le sorelle in isplendevole e lunga vita e bellezza. [p. 5 modifica]

V. — quelli che s’umiliano, sono esaltati.

Trovandosi alquanta poca neve appiccata alla sommità d’un sasso, il quale era collocato sopra la strema altezza d’una altissima montagna, e raccolto in sè l’imaginazione, cominciò con quella a considerare, e infra sè dire:

— Or non son io da essere giudicata altera e superba, avere me, picciola dramma di neve, posto in sì alto loco, e sopportare che tanta quantità di neve, quanto di qui per me essere veduta po’, stia più bassa di me? Certo la mia poca quantità non merta quest’altezza, chè bene posso, per testimonianza della mia piccola figura, conoscere quello che ’l sole fece ieri alle mie compagne, le quali in poche ore dal sole furono disfatte; e questo intervenne per essersi poste più alto, che a loro non si richiedea. Io voglio fuggire l’ira del sole, e abbassarmi, e trovare loco conveniente alla mia parva quantità. — E gittatasi in basso, e cominciata a discendere, rotando dall’alte spiagge su per l’altra neve, quanto più cercò loco basso, più crebbe sua quantità, in modo che, terminato il suo corso, sopra [p. 6 modifica] uno colle si trovò di non quasi minor grandezza, che ’l colle che essa sostenea; e fu l'ultima che in quella state dal sole distatta fusse. Detta per quelli, che s’aumiliano son esaltati.

VI. — sul medesimo soggetto.

La palla della neve, quanto più rotolando discese dalle montagne della neve, tanto più multiplicò la sua magnitudine.

VII. — la pietra.

Una pietra, novamente per l’acqua scoperta, di bella grandezza, si stava sopra un certo loco rilevato, dove terminava un dilettevole boschetto, sopra una sassosa strada, in compagnia d’erbe, di vari fiori di diversi colori ornati; e vedea la gran somma delle pietre, che, nella a sè sottoposta strada, collocate erano. Le venne desiderio di là giù lasciarsi cadere, dicendo con seco:

— Che fo io qui con queste erbe? io voglio con queste mie sorelle in compagnia abitare. — E, giù lasciatasi cadere, infra le desiderate compagne finì suo volubile corso. E stata alquanto, cominciò a essere dalle rote de’ carri, dai piò de’ ferrati cavalli e de’ viandanti a essere in continuo travaglio; chi [p. 7 modifica] la volta, quale la pestava, alcuna volta si levava alcuno pezzo, quando stava coperta da fango o sterco di qualche animale, e invano riguardava il loco donde partita s’era, in nel loco della soletaria e tranquilla pace. Così accade a quelli, che dalla vita soletaria contemplativa vogliono venir abitare nella città, infra i popoli pieni d’infiniti mali.

VIII. — il rasoio.

Uscendo un giorno il rasoio di quel manico, col quale si fa guaina a se medesimo, e postosi al sole, vide il sole specchiarsi nel suo corpo; della qual cosa prese somma gloria, e rivolto col pensiero indirieto, cominciò con seco medesimo a dire:

— Or tornerò io più a quella bottega, della quale novamente uscito sono? certo no; non piaccia alli Dei, che sì splendida bellezza caggia in tanta viltà d’animo! Che pazzia sarebbe quella, la qual mi conducesse a radere le insaponate barbe de rustici villani e fare meccaniche operazioni! È questo corpo da simili esercizi? Certo no. Io mi voglio nascondere in qualche occulto loco, e lì con tranquillo riposo passare mia vita. — E così, nascosto per alquanti mesi, un giorno ritornato all’aria, e uscito fori [p. 8 modifica] della sua guaina, vide se essere tatto a similitudine d’una rugginente sega, e la sua superfìcie non rispecchiare piti lo splendente sole. Con vano pentimento indarno pianse lo irreparabile danno, con seco dicendo: — Oli! quanto meglio era esercitare col bai biere il mio perduto taglio di tanta sottilità ! Dov’è la lustrante superfìcie? certo la fastidiosa e brutta ruggine l’ha consumata ! — Questo medesimo accade nelli ingegni, che in scambio dello esercizio si danno all’ozio; i quali, a similitudine del sopradetto rasoio, perdono la tagliente sua sottilità, e la ruggine dell’ignoranza guasta la sua forma.

IX. —il giglio.

Il giglio si pose sopra la ripa di Tesino,2 e la corrente tirò la ripa insieme col giglio.

X. — il noce.

Il noce, mostrando sopra una strada ai viandanti la ricchezza de’ sua frutti, ogni omo lo lapidava. [p. 9 modifica]

XI. — il fico.

Il fìco stando sanza frutti, nessuno lo riguardava; volendo, col fare essi frutti, essere laudato da li omini, fu da quelli piegato e rotto.

XII. — la pianta e il palo.

La piante si dole del palo secco e vecchio, che se l’era posto a lato, e de’ pali secchi che la circondano: l’un lo mantiene diutto, l’altro lo guarda dalla triste conipagnia.

XIII. — il cedro e le altre piante.

Il cedro, insuperbito della sua bellezza, •dubita delle piante, che li son d’intorno, e fattolesi torre dinanzi, il vento poi, non essendo interrotto, lo gittò per terra diradicato.

XIV. — la vitalba.

La vitalba, non istando contenta nella sua siepe, cominciò a passare co’ sua rami la comune strada, e appiccarsi all’opposita siepe; onde da’ viandanti poi fu rotta. [p. 10 modifica]

XV. — la cattiva compagnia
trascina i buoni nella propria rovina.

La vite, invecchiata sopra l’albero vecchio, cade insieme colla mina d’esso albero; e fu, per la trista compagnia, a mancare insieme con quella.

XVI. — sul medesimo soggetto.

Il salice, che, per li sua lunghi germinamenti, voi crescere da superare ciascuna altra pianta, per avere fatto compagnia colla vite, che ogni anno si pota, fu ancora lui sempre storpiato.

XVII. — il cedro.

Avendo il cedro desiderio di fare uno bello e grande frutto in nella sommità di se, lo mise a seguizione3 con tutte le forze del suo omore: il quale frutto cresciuto, fu cagione di fare declinare la elevata e diritta cima.

XVIII. — il persico.

Il persico, avendo invidia alla gran quantità de’ frutti visti fare ai noce suo vicino, [p. 11 modifica] diliberato fare il simile, si caricò de’ sua in modo tale, che ’l peso di detti frutti lo tirò diradicato e rotto alla piana terra.

XIX. — l'olmo e il fico.

Stando il fico vicino all’olmo, e riguardando i sua rami essere sanza frutti, e avere ardimento di tenere il sole a’ sua acerbi fichi, con rampogne gli disse: - 0 olmo, non hai tu vergogna a starmi dinanzi? Ma aspetta che i mia figlioli sieno in matura età, e vedrai dove ti troverai. I quali figlioli poi maturati, capitandovi una squadra di soldati, fu da quelli, per torre i sua fichi, tutto lacerato e diramato e rotto. Il quale, stando poi così storpiato delle sue membra, l’olmo lo dimandò dicendo: - O fico, quanto era il meglio a stare sanza figlioli, che per quelli venire in sì miserabile stato!

XX. — le piante e il pero.

Vedendo il lauro e mirto tagliare il pero, con alta voce gridarono: - O pero! ove vai tu? ov’è la superbia, che avevi, quando avevi i tua maturi frutti? Ora non ci farai tu ombra colle tue folte chiome! Allora il pero rispose: -Io ne vo coll’agricola,. che mi taglia, e mi porterà alla bottega [p. 12 modifica]. d’ottimo scultore, il quale mi farà con su’ irte pigliare la forma di Giove Iddio, e sai o dedicato nel tempio, e dagli omini adora o invece di Giove; e tu ti metti in punto a rimanere ispesso storpiata e pelata de tua rami, i quali mi fieno da li omini, per onoranni, posti d’intorno.

XXI. — la rete.

La rete, che soleva pigliare li pesci, fu presa e portata via dal furor de’ pesci.

XXII. — nasce rovina dal seguire il falso splendore.

Non si contentando il vano e vagabondo parpaglione di potere comodamente volare per l’aria, vinto dalla dilettevole fiamma della candela, diliberò volare in quella, e 1 suo giocondo movimento, fu cagione di subita tristizia. Imperocchè ’n detto lume si consumarono le sottili ali, e ’l parpaglione misero, caduto tutto bruciato a’ pie del candeliere, dopo molto pianto e pentimento, si rasciugò le lagrime dai bagnati occhi, e levato il viso in alto, disse: - 0 falsa luce . quanti, come me, debbi tu avere ne’passat. temei miserabilmente ingannati: Oh. s ì [p. 13 modifica] pure volevo vedere la luce, non dovev’io conoscere il sole dal falso lume dello sporco sevo?—

XXIII. — il castagno e il fico.

Vedendo il castagno l’omo sopra il fico, il quale piegava in verso se i sua rami, e di quelli ispiccava i maturi frutti — i quali metteva nell’aperta bocca disfacendoli e disertandoli4 coi duri denti — crollando i lunghi rami, e con tumultuevole mormorio disse: — 0 fico! Quanto se’ tu men di me obbligato alla natura! Vedi, come in me ordinò serrati i mia dolci figlioli, prima vestiti di sottile camicia, sopra la quale è posta la dura e foderata pelle; e, non contentandosi di tanto beneficarmi, ch’eli’ ha fatto loro la loite abitazione, e sopra quella fondò acute e folte spine, a ciò che le mani dell’omo non mi possino nuocere? — Allora il fico cominciò insieme co’ sua figlioli a ridere, e,, ferme le lisa, disse: — Conosci, l’omo esseie di tale ingegno, che lui ti sappi colle pertiche e pietre e sterpi, trarti infra i tua rami, farti povero de’ tua frutti, e quelli caduti, pesti co’ piedi e co’ sassi, in modo che [p. 14 modifica]. frutti tua escino, stracciati e storpiati, fora dell’armata casa; e io sono con diligenza tocco dalle mani, e non, come te, da bastoni e da sassi.—

XXIV. — il rovistico e il merlo.

Il rovistrico,5 sendo stimolato nelli sua sottili rami, ripieni di novelli frutti, dai pungenti artigli e becco delle importune merle, si doleva con pietoso rammarico inverso essa merla, pregando quella, che, poichè lei li toglieva i sua diletti frutti, il meno non lo privassi de le foglie, le quali lo difendevano dai cocenti raggi del sole, e che colV acute unghie non scorticasse e disvestisse della sua tenera pelle. A la quale la merla, con villane rampogne, rispose: — Oh! taci salvatico sterpo! Non sai, che la natura t’ha fatti produrre questi frutti per mio notrimento? Non vedi, che se’ al mondo pei servirmi di tale cibo? Non sai, villano, che -tu sarai, nella prossima invernata notrimento e cibo del foco? — Le quali parole ascoltate dall’albero pazientemente, non sanza lacrime, infra poco tempo, - il merlo [p. 15 modifica] preso dalla ragna6 e còlti de’ rami per fare gabbia, per incarcerare esso merlo, - toccò, infra l’altri rami, al sottile rovistrice a fare le vimini de la gabbia; le quali vedendo essere causa della persa libertà del merlo, rallegratosi, mosse tali parole: - O merlo!, i’ son qui non ancora consumato, come dicevi, dal foco; prima vederò te prigione, che tu me bruciato!

XXV. — la noce e il campanile.

Trovandosi la noce essere dalla cornacchia portata sopra un alto campanile, e per una fessura, dove cadde, fu liberata dal mortale suo becco; pregò esso muro, per quella grazia, che Dio li aveva dato dell’essere tanto eminente e magno e ricco di sì belle campane e di tanto onorevole suono, che la dovessi soccorrere; perchè, poichè la non era potuta cadere sotto i verdi rami del suo vecchio padre, e essere nella grassa terra ricoperta delle sue cadenti foglie, che non la volessi lui abbandonare: imperò ch’ella trovandosi nel fiero becco della fiera cornacchia, ch’ella si votò, che, scampando da essa, voleva finire la vita sua ’n un picciolo [p. 16 modifica]buco. - Alle quali parole, il muro, mosso a compassione, fu costretto ricettarla nel loco, ov’era caduta. E in fra poco tempo la noce cominciò aprirsi, e mettere le radici infra le fessure delle pietre, e que e a ai gare, e gittare i rami fori della sua caverna; e quegli, in breve, levati sopra lo edilizio, e ingrossatele ritorte radici, comincio aprire i muri, e cacciare le antiche pietre de’ loro vecchi lochi. Allora il muro tardi e indarno pianse la cagione del suo danno,, e in brieve aperto, rovino gran parte delle sue membra.

XXVI. — il salice e la zucca.

Il misero salice, trovandosi non potere fruire il piacere di vedere i sua sottili rami fare over condurre alla desiderata grandezza e drizzarsi al cielo, per cagione delia vite e di qualunque pianta li era vicina, sempre egli era storpiato e diramato e guasto: e raccolti in se tutti li spinti, e con quelli apre e spalanca le porte alla imaginazione; e stando in continua cogitazione, e ricercando con quella l’universo delle mante, con quale di quelle esso co legare si potessi, che non avessi bisogno deil aiuto de’ sua legami; e stando alquanto in questa [p. 17 modifica] notritiva imaginazione, con subito assalimelo li corse nel pensiero la zucca; e crollato tutti i rami per grande allegrezza, parendoli avere trovato compagnia al suo disiato proposito — imperò che quella è più atta a legare altri, che essere legata. — E fatta tal diliberazione, rizzò i sua rami inverso il cielo, attendea aspettare qualche amichevole uccello, che li fusse a tal disiderio mezzano. In fra’ quali, veduta a se vicina la gazza, disse inver di quella: 0 gentile uccello, io ti priego, per quello soccorso, che a questi giorni, da mattina, ne’ mia rami trovasti, quando V affamato falcone, crudele e rapace, te voleva divorare; e per quelli riposi, che sopra me ispesso hai usati, quando l’ali tue a te riposo chiedeano; e per quelli piaceri, che, infra detti mia lami, scherzando colle tue compagne ne tua amori, già hai usato: io ti priego,. che tu truovi la zucca e impetri da quella alquante delle sue semenze, e di’ a quelle che, nate ch’elle fieno, ch’io le tratterò non alti ementi, che se del mio corpo generate l’avessi; e similmente usa tutte quelle parole, che di simile intenzione persuasiva sieno, benchè a te, maestra de’ linguaggi, insegnare non bisogna. E se questo farai, io [p. 18 modifica] sono contenta di ricevere il tuo nido sopra il nascimento de’ mia rami, insieme colla tua famiglia, sanza pagamento d’alcun fitto. Allora la gazza, fatti e fermi alquanti capitoli7 di novo col salice, e massime che biscie o faine sopra sè mai non accettassi; alzata la coda e bassato la testa, e gittatasi dal ramo, rendè il suo peso all’ali. E quelle battendo sopra la fuggitiva aria, ora qua, ora in là curiosamente col timon della coda dirizzandosi, pervenne a una zucca, e con bel saluto, e alquante bone parole, impetrò le dimandate semenze. E condottele al salice, fu con lieta cera ricevuta; e raspato alquanto co’ piè il terreno vicino al salice, col becco, in cerchio a esso, essi grani piantò. Li quali, in brieve tempo, crescendo, cominciò, collo accrescimento e aprimento de’ sua rami, a occupare tutti i rami del salice, e colle sue gran foglie a torle la bellezza del sole e del cielo. E, non bastando tanto male seguendo8 le zucche minciò, per disconcio peso, a tirare le cime de’ teneri rami inver la terra, con istrane torture e disagio di quelli. Allora scotendosi e indarno crollandosi, per fare da sè [p. 19 modifica] esse zucche cadere, e indarno vaneggiando alquanti giorni in simile inganno, perchè la bona e forte collegazione9 tal pensieri negava, vedendo passare il vento, a quello raccomandandosi, e quello soffiò forte. Allora s’aperse il vecchio e voto gambo del salice in due parti, insino alle sue radici, e, caduto in due parti, indarno pianse se medesimo, e conobbe, che era nato per non aver mai bene.

XXVII. — l’aquila.

Volendo l’aquila schernire il gufo, rimase coll’ali impaniato, e fu dall’omo presa e morta.

XXVIII. — il ragno.

Il ragno, volendo pigliare la mosca con sue false reti, fu sopra quelle dal calabrone crudelmente morto.

XXIX. — il granchio.

Il granchio, stando sotto il sasso per pigliar i pesci, che sotto a quello entravano, venne la piena con rovinoso precipitamento di sassi, e, col loro rotolare, si fracellò tal granchio

XXX. — l’asino e il ghiaccio.

Addormentatosi l’asino sopra il diaccio d’un profondo lago, il suo calore dissolvè esso diaccio, e l’asino sott’acqua, a mal suo danno, si destò, e subito annegò.

XXXI. — la formica e il chicco di grano.

La formica, trovato un grano di miglio, il grano, sentendosi preso da quella, gridò: — Se mi fai tanto piacere di lasciarmi fruire il mio desiderio del nascere, io ti renderò cento me medesimi. — E così, fu fatto.

XXXII. — l’ostrica, il ratto e la gatta.

Sendo l’ostrica, insieme colli altri pesci in casa del pescatore scaricata vicino al mare, pregò il ratto, che al mare la conduca; e ’l ratto, fatto disegno di mangiarla, la fa aprire; e mordendola, questa li serra la testa e sì lo ferma: viene la gatta e l’uccide.

XXXIII. — il falcone e l’anitra.

Il falcone, non potendo sopportare con pazienzia il nascondere che fa l’anitra, fuggendosele dinanzi e entrando sotto acqua: volle, come quella, sott’acqua seguitale, e, [p. 21 modifica] bagnatosi le penne, rimase in essa acqua: e l’anitra levatasi in aria, scherma il falcone, che annegava.

XXXIV. l’ostrica e il granchio.10

Ostiica. Questa, quando la luna è piena, s’apre tutta, e, quando il granchio la vede’ dentro le getta qualche sasso o festuca: e questa non si può risserrare, ond’è cibo d esso granchio. Così fa chi apre la bocca a dire il suo segreto, che si fa preda dello indiscreto auditore.

XXXV. i tordi e la civetta.

I tordi si rallegrarono forte, vedendo che l’omo prese la civetta e le tolse la libertà quella legando con forti legami ai sua piedi! La qual civetta fu poi, mediante il vischio, causa non di far perdere la libertà ai tordi,’ ma la loro propria vita. Detta per quelle terre, che si rallegran di vedere perdere la libertà ai loro maggiori, mediante i quali poi perdano il soccorso e rimangono legati in potenza del loio nemico, lasciando la libertà e spesse volte la vita. [p. 22 modifica].

XXXVI. — la scimmia e l’uccelletto.

Trovando la scimmia uno nido di piccioli uccelli, tutta allegra appressatasi a quelli, i quali essendo già da volare, ne potè solo pigliare il minore. Essendo piena d’allegrezza, con esso in mano se n’andò al suo ricetto; e, cominciato a considerare questo uccelletto, lo cominciò a baciare; e, per lo isviscerato amore, tanto lo baciò e rivolse e strinse, di’ ella gli tolse la vita. E detta per quelli, che, per non gastigare i figlioli, capitano male.

XXXVII. — il cane e la pulce.

Dormendo il cane sopra la pelle d’un castrone, una delle sue pulci, sentendo l’odore della unta lana, giudicò quello dovessi essere loco di miglior vita e più sicura da’ denti e unghia del cane, che pascersi del cane; e sanza altri pensieri, abbandonò il cane. E, entrata infra la folta lana, cominciò con somma fatica a volere trapassare alle radici de’ peli: la quale impresa, dopo molto sudore, trovò esser vana, perchè tali peli erano tanto spessi, che quasi si toccavano, e non v’era spazio, dove la pulce potesse saggiare tal pelle. Onde, dopo lungo [p. 23 modifica] travaglio e fatica, cominciò a volere ritornare al suo cane; il quale essendo già partito, fu costretta, dopo lungo pentimento, amari pianti, a morirsi di fame.

XXXVIII. — il topo, la donnola e il gatto.

Stando il topo assediato in una piccola sua abitazione dalla donnola, la quale con continua vigilanzia attendea alla sua disfazione,11 e, per uno piccolo spiraculo, riguardava il suo gran periculo. — Infrattanto venne la gatta, e subito prese essa donnola, e immediate l’ebbe divorata. Allora il ratto, fatto sagrificio a Giove d’alquante sue nocciole, ringraziò sommamente la sua deità; e uscito fori della sua buca a possedere la già persa libertà, de la quale subito, insieme colla vita, fu, dalle feroci unghia e denti della gatta, privato.

XXXIX. — il ragno e il grappolo d’uva.

Il ragno, stando infra l’uve, pigliava le mosche, che in su tali uve si pascevano: venne la vendemmia e fu pestato, il ragno insieme coll’uve. [p. 24 modifica]

XL. — sul medesimo soggetto.

Trovato il ragno uno grappolo d’uva, il quale per la sua dolcezza era molto visitato da ape e diverse qualità di mosche, li parve avere trovato loco molto comodo al suo inganno. E calatosi giù per lo suo sottile filo, e entrato nella nova abitazione, li ogni giorno, facendosi alli spiraeuli fatti dalli intervalli de’ grani dell’uva, assaltava, come ladrone, i miseri animali, che da lui non si guardavano. E passati alquanti giorni, il vendemmiatore, colta essa uva e messa con P altre, insieme con quelle fu pigiato. E cosi l’uva fu laccio e inganno dello ingannatore ragno, come delle ingannate mosche.

XLI. — traccia.

Favola della lingua morsa dai denti.

XLII. — il villano e la vite.

Vedendo il villano la utilità, che resultava dalla vite, le dette molti sostentagli da sostenerla in alto; e, preso il frutto, levo le pertiche, e quella lasciò cadere, facendo foco de’ sua sostcntaculi. [p. 25 modifica]

XLIII. — leggenda del vino e di maometto.12

Trovandosi il vino, il divino licore dell’ uva, in una aurea e ricca tazza, sopra la tavola di Maumetto, e montato in gloria di tanto onore, subito fu assaltato da una contraria cogitazione, dicendo a se medesimo: —Che fo io? di che mi rallegro io? Non m’avvedo essere vicino alla mia morte e lasciare l’aurea abitazione della tazza, e entrare nelle brutte e fetide caverne del corpo umano, e lì trasmutarmi di odorifero e suave licore in brutta e trista orina? E non bastando tanto male, ch’io ancora debba sì lungamente giacere ne’ brutti ricettacoli coll’altra fetida e corrotta materia uscita dalle umane interiora? — Gridò inverso il cielo, chiedendo vendetta di tanto danno, e che si ponesse ormai fine a tanto dispregio; che, poichè quello paese producea le più belle e migliori uve di tutto l’altro mondo, che il meno elle non fussino in vino condotte. Allora Giove fece che il vino beuto da Maumetto elevò l’anima sua inverso il celebro,13 che lo lece matto, e partorì tanti [p. 26 modifica] errori, che, tornato in sè, fece legge che nessuno asiatico beesse vino. E fu lasciato poi libere le viti co’ sua frutti.

(in margine)

Già il vino, entrato nello stomaco, comincia a bollire e sgonfiare; già V anima di quello comincia abbandonare il corpo; già si volta inverso il cielo, trova il celebro, cagio ne della divisione dal suo corpo; già lo comincia a contaminare e farlo furiare a modo di matto; già fa irriparabili errori, ammazzando i sua amici.

XLIV. — traccia.

Il vino, consumato da esso ubriaco, esso vino col bevitore si vendica.

XLV. — le fiamme e la caldaia.

(Frammento.)

Un poco di foco, che, in un piccolo carbone, in fra la tiepida cenere rimaso era, del poco omore, che in esso restava, carestosamente e poveramente se medesimo notrfa. Quando, la ministra della cucina^ per usare con quello l’ordinario suo cibario offizio, quivi apparve, e, poste le legne nel focolare — e, col solfanello già resuscitata d’esso, già quasi per morto, una piccola [p. 27 modifica] fiammella e, infra le ordinate legne quella appresa e, posta di sopra la caldaia — sanz’ altro sospetto, di lì sicuramente si parte..

Allora, rallegratosi il foco delle sopra se poste secche legne, comincia a elevarsi: cacciando V aria delli intervalli d’esse legne, in fra quelli con ischerzevole e giocoso transito, se stesso tesseva.

Cominciato a spirare fori dell’intervalli delle legne, di quelli a sè stesso dilettevoli finestre fatto avea; e, cacciate fori di rilucenti e rutilanti fiammelle, subito discaccia le oscure tenebre della serrata cucina; e con gaudio, le fiamme già cresciute, scherzavano coll’aria d’esse circundatrice e con dolce mormorio cantando, creava soave sonito....

Rallegrandosi il foco delle secche legne, che nel focolare trovato avea, e in quelle appresosi, con quelle comincia a scherzare tessendole in sue piccole fiammelle, e ora qua ora là, per li intervalli, che in fra le legne si trova, traeva.

E, scorrendo in fra quelle con festevole,, giocoso transito, cominciò a spirare, e fra li intervalli delle superiori legne apparta^ facendo di quelli a sè dilettevoli finestra ora qua, ora là. [p. 28 modifica] Vedutosi già fortemente essere sopra delle legne cresciuto e fatto assai grande, cominciò a levare il mansueto e tranquillo animo in gonfiata e insopportabile supeibia, facendo quasi a se credere tirare tutto il superiore elemento14 sopra le poche legne. E cominciato a sbuffare, e, empiendo di scoppi e di scintillanti sfavillamenti tutto il circostante focolare, già le fiamme, fatte grosse, unitamente si drizzavano inverso l’aria.... quando le fiamme più altere, peicosser nel fondo della superioie caldaia.

XLVI. — lo specchio e la regina.

(Frammento.)

Lo specchio si gloria forte tenendo dentro a se specchiata la regina, e partita quella lo specchio rimase in le....

Note

  1. da entro.
  2. Ticino.
  3. compimento.
  4. dilacerandoli.
  5. rovistico: pianta, ligustrum vulgare.
  6. rete.
  7. patti.
  8. venute in seguito, nate e cresciute.
  9. l’avviticchiarsi degli steli della zucca al salice.
  10. Si veda: Qui incomincia el Tesoro di Brunetto Latino di Firense, e parla del nascimento e della natura di tutte le cose. Treviso, 1474. Lib. IV, cap. 4. (Ed. di Venezia, 1841. Vol. I, pag. 202), dalla quale opera Leonardo attinge la materia di questa favola.
  11. distruzione, morte.
  12. La leggenda qui narrata da Leonardo non ha nessun fondamento storico, e si deve far risalire probabilmente al Tractato de U piu maravigliose cosse e piu notabile che si trovano in le parte del mondo, redute e col lede sotto brevità in el presente compendio dal strenuissimo cavalieri speron doro Johanne de Mandavilla. Milano, 1480. Folio g, 3 v°, opera che il Vinci stesso ricorda in una nota del Codice Atlantico: folio 207 r°. Per analoghe leggende si veda Prideaux, Life of Mahomet. Pag. 82 e seg.; A. D’Ancona, La leggenda di Maometto in Occidente. Giorn. Stor. d. Letteratura Italiana. Torino, 1897. Vol. XIII, pag. 238.
  13. cerebro, cervello.
  14. l’elemento del foco.