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| le favole. | 13 |
pure volevo vedere la luce, non dovev’io conoscere il sole dal falso lume dello sporco sevo? —
XXIII. — il castagno e il fico.
Vedendo il castagno l’omo sopra il fico, il quale piegava in verso se i sua rami, e di quelli ispiccava i maturi frutti — i quali metteva nell’aperta bocca disfacendoli e disertandoli1 coi duri denti — crollando i lunghi rami, e con tumultuevole mormorio disse: — O fico! Quanto se’ tu men di me obbligato alla natura! Vedi, come in me ordinò serrati i mia dolci figlioli, prima vestiti di sottile camicia, sopra la quale è posta la dura e foderata pelle; e, non contentandosi di tanto beneficarmi, ch’ell’ha fatto loro la forte abitazione, e sopra quella fondò acute e folte spine, a ciò che le mani dell’omo non mi possino nuocere? — Allora il fico cominciò insieme co’ sua figlioli a ridere, e, ferme le risa, disse: — Conosci, l’omo essere di tale ingegno, che lui ti sappi colle pertiche e pietre e sterpi, trarti infra i tua rami, farti povero de’ tua frutti, e quelli caduti, pesti co’ piedi e co’ sassi, in modo che
- ↑ dilacerandoli.
