Le confessioni di una figlia del Secolo (1906)/Proemio
Questo testo è completo. |
◄ | Prefazione alla terza edizione | A Donna Paola | ► |
PROEMIO
alle lettrici
«Montaigne eut dit: Que sais-je? |
«Et Rabelais: Peut-étre!
Queste pagine io le scrivo per voi, donne gentili, che leggerete il singolare libro di dolore. Voi tutte amate, di un dolce amore fragrante e vivo come la corolla di una rosa maggese, la vostra amica. Deluse, forse, di molti affetti, anco più sacri, voi avete serbato in fondo al cuore la perenne favilla di questo, che è meno travolgente della passione e meno naturato della fraternità, e che la poesia e la realtà vollero dipingere e riconoscere il soave fra tutti, e chiamare con l’armonioso nome di amicizia.
Io le scrivo per voi queste pagine proemiali, gentili donne, e voi le leggerete forse piangendo, molto pensando, certo, — com’io, fra le lacrime e le evocazioni, le scrivo. In esse io verso, dalla mia pallida tavolozza di scrittrice, le pallide tinte della mestizia e del lutto: tinte di viola e di cineraria, — i fiori del ricordevole dolore. Voi, che amate e che possedete tutta la profonda comprensività dell’amore, accoglietene la rettitudine dell’intenzione ed il significato ultimo, il quale è tutto nel desiderio di far cosa pietosa verso una povera morta, che volle affidare al mio sentimento ed alla mia cura il tesoro più prezioso che ella possedesse.
Colei, che non è più, sorriderà benigna a me, che scrivo, ed a voi che leggerete..., e quel sorriso ci porterà fortuna, — come portano fortuna le gemme rare, incastonate in un cerchio d’oro. Lo spirito di lei è cotale gemma, e il cerchio d’oro è l’infinito etere, che lo ricinge, come in una impareggiabile aureola di beatitudine.⁂
Le braccia mi ricaddero sul grembo, ed io rimasi un lungo momento incapace di pensiero, non appena ebbi letto le poche parole del telegramma:
— Io muoio, Vieni. Viviana — diceva il laconico appello, che mi piombava sull’anima come un fragore di folgore.
Ma, poi che ebbi vinto il primo turbamento, misi il cappello, lanciai un avviso all’usciere, e mi precipitai fuor della stanzetta, ove ogni giorno, con non lieve pena, combatto la lotta per la vita.
La stagione era propizia ad una, sia pure improvvisa diserzione. Sulla città, sugli affari, imperava la canicola di agosto; ogni cosa, pensiero ed azione, ristagnava in un grande assopimento, come, entro il cerchio delle rive basse, dorme, silenziosa e greve, l’acqua delle paludi maremmane.
Io poteva, dunque, disertare per un giorno, per due – finchè il mistero delle poche parole paurose mi si fosse svelato.
Rapida nei moti, ma pur sgomenta nelle idee, in un’ora io aveva preso ogni disposizione, giungendo in un volo alla stazione, in tempo ancora per prendere il diretto del mattino.
L’azione violenta mi aveva impedito, sino a quel momento, di adunare i pensieri fuorviati dalla subitaneità del caso; ma, non appena caduta nell’inazione del viaggio, mentre, dinanzi alla sguardo distratto, la bella ed assolata campagna toscana svolgeva la ruota placida del suo incantesimo, la mia mente riprese la limpidità e la scorrevolezza abituali.
E, subito, più grande ancora del dolore, una immensa stupefazione mi vinse. E come?! Viviana moriva? - Viviana, che io aveva veduta pochi mesi prima in buona salute, fine e pallida e nervosa sì, ma per ciò stesso, forse, indistruttibile! Che cosa era accaduto?... Un malore improvviso?… Una malattia improvvisamente aggravatasi?... Ma, in questo caso, ne sarei stata informata fin dall’inizio, nell’altro l’annunzio non mi sarebbe venuto da lei, ed in termini quasi perentorii:
― Io muoio. Vieni.
L’appello vibrante, e pure sereno, sembrava partirsi da una lucidità, non da uno smarrimento.
Entro le poche parole si sentiva vibrare una intelligenza, a cui i dolori della malattia e le ansie della morte non avevano tolto alcune delle sue forti prerogative di vita. - Io muoio annunziava l’appello, come affermando: io so che nulla mi può salvare. Vieni comandava l’appello, come imponendo: tu non devi frapporre indugio. Affermazione e comando, che muovevano da una consapevolezza a cui niuna illusione fa velo, nulla speranza dà abbaglio, da una consapevolezza, che consegue da un fatto ponderato e voluto.
Ma io conoscevo Viviana da molti anni, e, se bene costrette dalla lontananza ad appagarci di non troppo frequenti visite e di lunghe corrispondenze, io credeva di possedere a pieno l’anima sua. Sapeva quanta bontà, un po’ bizzarra forse, ma vera, quanto sentito amore di vita, quanta inesauribile esuberanza di sentimento fossero in lei, onde l’idea, che a quella catastrofe ella avesse imposto, anziché subito i destini del caso, mi pareva assurda e ripugnante come una calunnia.
No, no, Viviana non si era uccisa: ella aborriva troppo dalla volgarità, ella aveva troppo grande orrore del frastuono pettegolo, che si leva attorno ad un suicidio, per cadere nel macabro grottesco di un fatto di cronaca. Ella era malata, — malata si — ma, forse, non morente. Le sofferenze dovevano averla impaurita e, forse, ella si era lasciata andare a quella lieve tendenza all’amplificazione sensitiva, che mi era parso notare in lei.
No, no, — non ci si uccide a trentanove anni, ancora giovane, ancora piacentissima, con tanto fastoso tesoro di vita scorrente entro le vene. Non ci si uccide, quando nulla manca alla vita: e pace famigliare, e benessere finanziario, e buoni amici, e buona salute, un bell’appartamento in città ed una villetta sul mare, piccina, ma incantevole.
No, no, — Viviana era una donna troppo fine, troppo orgogliosa, ed anche — se debbo dirlo — troppo giudiziosa, quasi calcolatrice, per lasciarsi andare alla deriva, come un barchetto senza piloto. Malata sì, lo era, certo. Ma ella guarirebbe e tornerebbe a ridere di quel suo riso, mordente e squillante, come un tintinnabulo saturnale.
Il treno correva, per l’estremo lembo dell’Umbria, ed io, quasi, sorrideva meco stessa dei miei precipitati terrori. Guardai fuori dal finestrino: sotto la stretta del sole di agosto, la campagna pareva ansimare: un fiato caldo si levava dalla terra e, nel fiato, rapidissimo il diretto correva verso Roma, l’eterna.
Rapidissimo correva il treno — non già fulmineo, come il mio pensiero ed il mio desiderio. Perchè, in onta ad ogni ragionamento, un’occulta inquietudine mi opprimeva il cuore.
In verità, che ne sapeva io?... Io conosceva Viviana da tanti anni: eravamo state in convento insieme ed il caso ci aveva unite nella stessa cameretta: lei grande, mammina — io piccola, bimba. Così era nata la nostra prima intimità, alimentata da lunghe chiacchiere — fra lei che amava parlare, ed io che amava ascoltare — e resa più affettuosa da quell’ombra di mistero ansioso, che avvolge le puerizie femminili, costrette entro i limiti di un chiostro.
Ma poi, uscita Viviana di là assai prima di me, ci eravamo perdute di vista. Malgrado la nostra non piccola disparità di anni, io ero già maritata quando, di passaggio per un paesello della bassa Lombardia, la rividi improvvisamente, ritta in mezzo allo stradone polveroso, male in arnese e dinoccolata, come chi ha perduto ogni energia di speranza. Un grido, un fermare di carrozza, un abbracciarsi, un domandarsi affannoso, ed il tempo di sapere che ella era ancora zitella, in pericolo di rimanere tale, sino alla consumazione dei secoli. Poi avevo ripreso la mia via, pensando che la vita è così: senza tregua lacerante.
Alcuni mesi erano passati ancora, quando ella mi annunziò il suo matrimonio — finché un giorno la vidi arrivare alla mia casa, con lo sposo, in visita di viaggio di nozze. Finalmente eravamo entrambe maritate, entrambe donne, sebbene avviate su vie diverse: Viviana, la signora che ozia senza essere doviziosa — io, la lavoratrice che si accanisce senza essere miserabile. Ci eravamo ritrovate con grande gioia e, con grande tenerezza, avevamo riallacciato i legami di amicizia — benché, costrette dalle esigenze famigliari, non ci fosse concesso di abitare la medesima città. L’attiva corrispondenza, e non infrequenti visite, avevano supplito. Ma quante inevitabili lacune nella intimità della nostra relazione! Quante incognite, fra una lettera e l’altra, quante parole, quanti gridi, quanti singhiozzi che restavano inesplicabili ed inesplicati, per difetto di osservazione diretta!
Questo era il tormento massimo, Tincognita più torturante del mio viaggio. Che cosa poteva saperne io, di veramente profondo, della vita di Viviana?
La vita di una donna è sempre misteriosa — tanto è essa materiata, più di imponderabili sogni, che non di tangibili realtà. La vita di una donna tiene troppo direttamente alla sua anima, perchè, fuori dell’involucro materiale, che questa cinge come baluardo geloso, se ne possa travedere tutte le complesse manifestazioni. La vita di una donna non è fatta di avvenimenti esteriori, sì bene di episodî interiori: in essa non sono attività rumorose, non sono che passività silenziose.
Chi, dunque, può vantarsi di conoscere la vita di una donna, se non ha potuto — come il lavoratore, che tenta la miniera oscura armato della sua lampada — scendere per i meandri tortuosi di quell’abisso ed illuminarne le pareti, piene di preziosità e d’insidie?
Io, in verità, non poteva vantarmi di tanto. Per quanta fiducia e per quanto affetto presedano all’amicizia di una donna, il suo abbandono non è mai completo: ella ha sempre un terreno ricinto, in cui non vuole che altrui entri e frughi; una piega, ove nessun occhio può scendere, neppur quello di Dio. La donna ha il pudore della propria anima, a mille doppi più acuto del pudore del corpo, perchè in quello ella sa di avvolgere tesori ben più suscettibili e squisiti, che non sieno le membra.
Un giorno la passione, o la legge, le strapperanno dal corpo l’ultimo velo ed ella, trionfatrice o vittima, offrirà, o subirà, il bacio, che cancella il rossore della pudicizia violata. Ma non mai, non mai, passione, o legge, avrà potere di strappare l’ultimo velo, di cui l’anima di una donna si ammanta, come entro uno schermo inviolabile: nessuna dedizione, nessuna tirannia, la obbligheranno a disfarsi di questa, che ella considera come l’unica, l’inalienabile sua ricchezza.
⁂
Tutto questo, ed altre cose ancora, io pensava mentre il treno correva, conducendomi verso il mistero. Nè, dal sottile ragionare, io traeva ragione di conforto. Viviana moriva. Ma perchè? Ma come? Ma da chi?
Giunsi finalmente. E di nuovo le idee si sbandarono nell’attività febbrile dell’arrivo. Balzai in una carrozza e, poco dopo, io premeva il campanello della casa di Viviana.
La domestica mi aprì.
— La signora?...
— L’aspetta....
Un grande silenzio, una grande oscurità, un’aura pregna di morte. Il cuore cessò di pulsare. Sentii che tutto stava per finire.
Ma sulla soglia della camera immota, già come una tomba - io mi arrestai agghiacciata d’orrore.
Viviana posava distesa in uno dei letti gemelli, di cui l’altro era sparito. Sotto la coltre leggera, quello, che era stato uno dei più perfetti corpi di donna, si disegnava a mala pena, così la magrezza l’aveva ridotto quasi ischeletrito. Il viso di cera, e profondamente incavato, si affondava fra i capelli disciolti, d’improvviso incanutiti. Le mani scarne stringevano convulse un fazzoletto ed alcune tuberose. L’aria della stanza pareva di piombo: satura di profumi acuti. In fondo al letto, sui piedi della morente, un grande fascio disciolto di fiori: profumi e fiori, che acuivano la tragedia del quadro e dell’ora solenne.
Ah! Viviana moriva, moriva, moriva!... nessun presentimento, il più angoscioso, era stato ingannevole: Viviana moriva. Ella, anzi, era forse già morta.
Mossi, tremando, alcuni passi. Ella aprì gli occhi, quei già belli e luminosi occhi che l’ombra della morte invadeva ormai, e mormorò:
— Bene.
Io mi gettai su lei, ed una domanda, una sola, mi usci dalle labbra e dall’anima:
— Ma come?!.. Ma come?!..
Parve che la mia interrogazione le ridasse forza, se non vita. Ed ancora un guizzo dell’antica Viviana sembrò rivivere, nella morente forma. Un tenue riso di scherno animò il pallore cavo delle gote, ed ella ebbe ancora un singhiozzo d’ironia, nell’arsura delle fauci.
— Così. Perchè io l’aveva detto.
Gelai di raccapriccio... E d’un tratto, ricordai gli atteggiamenti e le parole di Viviana, quando il suo più intenso pallore, o il cerchio fondo degli occhi, svelavano l’acutezza della crisi. Diceva allora — a volte mi scriveva, dopo lunghi silenzi, inesplicabili: — Un giorno sarà — Né altro diceva, o scriveva, perchè Viviana aveva, a volte, la frase aguzza come una lama e breve come il lampo.
Ora, alle parole che rivelavano il temuto mistero, io mi sentii rabbrividire di raccapriccio. Né altro seppi fare, che stringerla febbrilmente fra le braccia e confusamente esclamare tutto il mio dolore e lo strazio ineffabile di vederla finire così.
Ma Viviana levò la scarna mano, in segno di pace.
— Oh!... non temere — mormorò, ed ancora nelle parole vibrò un lontano suono di sarcasmo — ho fatto le cose bene.... ho persino un medico, che mi cura.... e che, naturalmente, non capisce...
— Ma tuo marito, Viviana.... tuo marito!... Allargò gli occhi, in un supremo spasimo di ribrezzo. — È lontano.... in Francia.... per affari.... Da un mese manca.... né tornerà tanto presto.... Avrò finito prima....
Chiuse gli occhi, stanca, ed io non parlai più. Che cosa dire, d’altronde? Che cosa fare? Le parole erano inutili, come inutili erano gli aiuti. Ormai il fatto era compiuto: la Morte già si era stesa sul corpo di Viviana. Nessuna forza, di ragionamento o di azione, sarebbe riuscita a strapparla da quell’amplesso, a cui era stata, con tanto sottile opera, chiamata. Null’altra cosa mi era concessa, oltre il pianto: e tutte le mie lacrime caddero sulle mani esangui, che si erano tese verso di me.
Dopo un grave silenzio — in cui soltanto le corolle, disciolte sui piedi della morente, vissero la loro vita di profumo e d’amore — Viviana riaprì gli occhi.
— È stato così.... — mormorò — Un lungo veleno, che mi ha distrutta.... Ma nessuno sa.... nessuno sospetta.... Tu sola... ed è tardi, ormai... E finita.... Una pungente ansia di sapere mi attanagliava il cuore. Avrei voluto interrogarla, pregarla che mi svelasse il perchè.. quell’immenso ed ignoto perchè, che l’uccideva. Ma come farlo senza turbare la solennità di quell’agonia con la evocazione del fato, che aveva occasionato la tragedia?... Tacqui, dunque. Ed ella parlò, fiocamente.
— Io ti aspettavo.... Avevo fatto tutti i miei calcoli... Sapevo che tu saresti arrivata, tardi per salvarmi, in tempo per darmi l’ultimo saluto.... e rendermi l’ultimo servigio.... Prendi questa chiave...
La trasse a fatica di sotto il guanciale, e me la porse.
— Apri quel cassetto.... là.... dello scrittoio.... Bene.... Ve un grosso piego.... Portalo qua....
Eseguii sollecita. Ella prese il piego chiuso e suggellato.
— Sono alcune lettere.... le ho scritte prima che il male mi vietasse di reggermi in piedi.... Son documenti, che affido alla tua amicizia.... Fa che i destinatari li ricevano dalle tue mani... Non risposi. L’angoscia mi soffocava. Accennai di sì col capo, piangendo.
— C’è una lettera anche per te, Paola mia... Tu mi hai voluto molto bene... Ma me ne vorrai, ancora, dopo averla letta?...
E poiché io singhiozzava più forte.
— Chi sa!... — mormorò, mentre alcune lacrime scendevano dagli occhi spenti, e si perdevano fra le cavità delle gote.
Io le afferrai le mani e non le risposi, se non baciandogliele con tutta la più straziata tenerezza. Non amarla più!... Non amarla più, ora che la vedevo morire, e così? Non era forse, quella morte, una rivelazione?... Non mi diceva essa che quella donna, che avevo creduto fino a quel giorno, se non felice, almeno serena e forte, era invece un’altra delle tante, ed occulte, vittime della vita?
— Oh mia Viviana! — balbettai tremando — Ancor più ti amerò.... Non hai tu sofferto? Non hai tu lottato?... Tu muori e paghi la partita perduta, povera vinta!... Come vuoi, dunque, ch’io non ti ami di più, per la tua stessa sventura? Crollò il capo, sconfortata.
— E vero.... ho sofferto tanto... Leggerai quelle lettere.... te lo permetto.... anzi, lo voglio... Stupirai.... Ma di quale utilità saranno stati i miei dolori?... A me, essi fruttano la morte... agli altri neppure un rimorso....
Il silenzio ricadde profondo. Viviana richiuse gli occhi, esausta. Sui suoi piedi il fascio dei fiori spandeva, con tanto acuta copia, il suo profumo, ch’io tacitamente mi levai per toglierli. L’atmosfera era asfissiante.
Ma al leggero tocco delle mani, Viviana spalancò gli occhi e si agitò tutta.
— No... no... lascia... non levarmi i fiori... Io voglio morire così... fra poco li metterai sul mio petto... sulla faccia... sul capo. Così voglio morire....
Ricadde in un lungo assopimento. Io non osava far moto, schiacciata dal dolore, stordita da quell’aria pesante e pregna di essenze. Un torpore di morte invadeva le mie membra ed il mio cervello, dandomi la sensazione che su me pure la morte scendesse a conquidermi... Più tardi la voce di Viviana mi riscosse. Diceva:
— Ho fatto un sogno strano.... Mi pareva che tante creature... tante donne piangessero.... Volevano dei fiori.... non potevano averne.... E un’altra cosa ho pensato... Non consegnare quelle lettere — Tanto!... A che prò?....
Si strinse nelle magre spalle, e piego le labbra in un ghigno amaro.
— Chi muore giace.... Perchè turbare la pace di chi vive?... Tienile tu... quelle lettere... Bruciale... Fanne ciò che vuoi....
Singhiozzò un riso stridulo, che mi gelò di rinnovato sgomento.
— Pubblicale, se vuoi... Tu puoi farlo... Sei scrittrice....
Protestai, quasi violenta, in una ripugnanza di tutto il mio essere. No, no... non mai una simile follia!
— E perchè no? — rise ancora la bocca livida. — Qualcuno potrà trarne profitto.... Sì, pubblicale.... nulla dev’essere inutile, quaggiù.... nemmeno i dolori e gli errori di una vita.... nemmeno il sacrificio di una morte....
— Ma tu.... — gemei — ma il segreto dell’anima tua....
Tacque un istante, poi levò le braccia scarne, in un gran gesto di stanchezza.
— A che prò?...
Furono le ultime sue parole. Un improvviso tremore invase le sue membra: si agitò, convulsa; il volto si coprì di chiazze rosse; i denti stridettero, sotto la stretta delle mascelle contratte.
Spaventata, corsi alla finestra e la spalancai in un impeto. Un rosso fascio di sole, già prossimo al tramonto, si diffuse, obliquo, nella stanza di morte. Un raggio vivo lambì la coltre e diè nuova vita alle tinte gaie dei fiori. La morente lo sentì, forse. Aprì ancora gli occhi e sorrise, rapita, verso l’infinito cielo. Accennò ai fiori.... e, come li ebbe, se ne coprì con ardore il viso ... né più si mosse.
«donna Paola»