La lanterna di Diogene/XVI
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XVI.
A Comacchio.
Io meditavo il mattino seguente su questo fatto deplorevole della penetrazione di Venere per tutta la materia, quando mi scosse la voce amica del signor Armuzzi:
— «Tityre, tu patulae recubans sub tegmine fagi», sei mai stato a Comacchio?
— Il paese delle anguille?, dove non si mangia che anguilla: minestra anguilla, lesso anguilla, frutta anguilla, dove l’aria e l’acqua hanno odore di anguilla? No, non ci sono mai stato.
— È un paese interessante e fra i più caratteristici. È così poco conosciuto che lei potrà vantarsi di aver visto Comacchio come d’essere andato al Polo Nord. Io ho la specialità di condurre le persone intelligenti a vedere Comacchio. Domani mi ci devo recare.... se crede....
Ringraziai di quell’«intelligente» e: — Perchè no? Ma e il mezzo per andare a Comacchio?
— Ce ne sono tanti: per mare, per valle, per diligenza: il più consigliabile sarebbe per pallone; ma noi andremo in bicicletta.
Fu così decisa la spedizione per Comacchio. Il dì seguente mi sarei trovato alle tre a Ravenna.
Il signor Armuzzi è un professore di ragioneria, che sa anche di latino e gode di molta autorità nella nativa Ravenna. A queste pregevoli doti aggiunge quella dì lasciare a casa ogni bagaglio professorale quando viaggia per isvago. I professori che riescono a far questo sono così rari che io ricordo ad esempio il detto signor Armuzzi. Oltrepassa di poco i novanta chili di peso e i quaranta anni di età: ma non ne ha impedimento per essere un eccellente pedalatore. C’era con lui ad attendermi alla stazione di Ravenna suo fratello. Questi è assai giovane e smilzo. Si ripromette di ingrassare quando sarà avvocato.
*
Ci mettemmo in via. Da Ravenna a Sant’Alberto (km. 15) la strada corre attraverso le melanconiche bonifiche ravennati. Queste bonifiche datano dal tempo di Gregorio XVI, e avvengono per effetto di colmate del Lamone. Prima di allora tutta quella gran landa era valle; cioè lagune e paludi, infeudate a chiese e conventi.
Sant’Alberto, un budello lunghissimo di case, limitato dall’argine del Po-Reno o Po di Primàro, è il centro di questi lavori di bonifica.
E come per legge fisica le grandi estensioni di acque prendono sapore di sale, così le grandi masse umane oggi prendono il sapore socialista. Il socialismo di quella regione si trova in istato torbido, come le acque del Lamone. Ma io credo che queste si purificheranno prima di quello.
Molte schiere di questi lavoratori passavano per la nostra via: via sempre più deserta, fra terreno sempre più selvaggio e palustre, nudo di abitazioni. Schiere di lavoratori scalzi: pupille torve che inseguono le biciclette.
Se non v’è una minaccia, certo v’è un rimprovero in quelle pupille e sempre dice:
— «Voi siete agili! voi vi divertite a correre! noi siamo legati al terreno melmoso che, pala a pala, smoviamo, per creare a voi il gran canale: noi, fra la malaria!»
La selvaggia landa si rispecchia nei selvaggi volti, e se non danno spontaneamente il passo, io credo cosa prudente andar nel mezzo del polverone e lasciar loro la battuta. Questi socialisti non sono ancora abbastanza evoluti, ed io desidero di rivedere i miei a Bellaria. Oltre ai socialisti, vi sono i repubblicani e gli anarchici.
Della loro triplice fede quei lavoratori portano gli emblemi in un fazzoletto grande, attorno al collo.
I socialisti lo portano a grandi scacchi rossi e neri, i repubblicani rosso, gli anarchici interamente nero.
Molte volte, specie la domenica sera, quei colori sembrano poco armonici, e allora con dei salassi di sangue si tingono tutti quei fazzoletti di rosso.
— Caro Armuzzi, quanto manca ad arrivare al bosco?
— Poco: appena passato il Po.
Nel bosco ero sicuro di non incontrare nessuno, tranne l’anofèle clavigero.
Passato il Po, si entra in un altro clima etnico.
Ecco un’altra prova che io non ho nessuna attitudine a fare il vero profeta. Io ce l’ho coi falsi profeti. Ma ho torto! Fra questa gente ci vuole appunto un mezzo profeta, uno che abbia delle affinità per viverci in mezzo. Io preferivo a questi miei fratelli in Cristo l’anofèle clavigero. Orribile cosa, ma vera! Siamo almeno sinceri, giacchè non abbiamo altra attitudine che a fare il filosofo!
Ma oramai la campagna era deserta: eravamo alle Mandriole.
Mandriole — nome cinto di gloria — non è borgo, ma frazione di poche case disperse nella landa.
Distante non più di un chilometro dall’argine del Po, sorge una grande fattoria: ultima nella landa.
— Quella, — mi disse il signor Armuzzi, — è la fattoria dove morì Annita Garibaldi; ah, ecco! ecco il monumento della povera Annita.
Benchè l’ora fosse tarda, scendemmo di sella e, posate a terra le biciclette, percorremmo il sentieruolo che conduce al monumento di Annita.
Per la via che tu, o uomo, percorri, se incontri segno di pietà o di valore; sia imagine, sia lampada, sia croce, sia tomba, scopriti e prega!
Freme dalla storia e dalla memoria delle gloriose opere un brivido come di vento che passa continuo, e i vivi ne sentono il gelo e la fiamma dentro dal cuore.
Oh, guai se i morti non dessero forza ai vivi!
Nella landa sorge una colonna mozza; alcuni fiori gentili sono coltivati d’attorno: difende il tutto una cancellata: le parole incise sono sobrie, per rispetto dei vivi e dei morti.
Ci accostammo riverenti.
Il sole declinava nella landa. Odorava forte il gran fiore della ninfea.
Allora una visione di gloria balenò nella mente:
Garibaldi giovane e biondo fuggente (o nobile belva inseguita) con la sua donna che muore! Egli popolava tutta la landa!
Così e non altrimenti il verso di Dante, che descrive Bonconte, popola il deserto Appennino della sua eroica persona:
Fuggendo a piedi e sanguinando il piano.
*
Giungemmo a te, Po di Primaro: le verdi acque, chiuse negli alti argini, si movevano a pena verso il vicino mare! Le acque mormoravano i versi:
Siede la terra, dove nata fui, |
Passò un brivido di epopea: io sentii i fatti della storia unirsi nel vano del tempo, e reclinai il capo. Non ponte. Il Po si passa su di una chiatta. Il passatore moveva verso di noi dalla riva opposta con due viandanti in su la chiatta. Costoro riconobbero l’Armuzzi e si salutarono.
— E avete intenzione di andare a Comacchio? — chiesero allorchè ebbero posto il piede a terra dalla nostra riva. — A quest’ora? in bicicletta? in bicicletta e con quella strada? — È roba da matti (questo non dissero, ma lo capimmo benissimo).
Il professore Armuzzi accolse queste dichiarazioni con un sorriso di beffa e di superiorità, che era degno non di un professore di ragioneria, ma di un generale. Se il generale ha paura, che cosa faranno i soldati? Però, siccome la prudenza spesso si accompagna con la più grande audacia, anzi l’audacia spesso non è che un calcolo fulmineo — una specie di combinazione chimica in cui gli innocui elementi della prudenza danno quel terribile esplodente che si chiama «audacia» — così il professore Armuzzi domandò:
— Dunque, proprio in bicicletta non si può andare?
— Impossibile: c’è il sabbione alto mezzo metro.
— Ma ci sarà pure la battuta!
— Sì, ma cambia sempre che non ci si può contar sopra.
L’Armuzzi guardò il sole, l’orologio, l’esercito, rappresentato da me e dal fratello, gli impedimenta, rappresentati in questo caso dalle biciclette, e ordinò l’avanzata verso il bosco.
— Ehi! professore, — disse quel ravennate all’Armuzzi, — che beva prima un bicchier di vino, lo vendono là (indicava un casamento basso e tetro dietro l’argine del Po), perchè nel bosco non si trova niente, e l’acqua è meglio non assaggiarla.
Il savio consiglio fu accolto: ma prima di narrare quale mirabile cosa avvenne mentre dividevamo in tre l’acerbo vino, voglio dire che cosa è il bosco.
*
È chiamato bosco, ma non è bosco se non dove alle libere piante piacque di aggrupparsi in macchie dense e selvose. Esso è formato dal lido sabbioso, o cordone litoraneo, che — restringendosi alquanto di mano in mano che si procede verso il Po di Bevano — separa il mare dalle valli o lagune di Comacchio.
Il bosco è presso che deserto di popolazione. Esso — al tempo presente — non contiene malfattori, se non uno solo, cioè l’anofèle clavigero, il zanzarone della malaria — la cui terribile rinomanza, come del resto avviene per tutti i malfattori che vivono e battono la campagna, è esagerata. D’altra parte il feroce zanzarone non saprebbe in tutto il bosco chi assaltare, perchè in tutta la prima parte di quella landa non si incontra che una di quelle solite antiche torri quadrate, erette dai Papi sul litorale a guardia del mare: oggidì servono pei finanzieri: la torre di Bellocchio, la Tor ad Blocc!
Il territorio del bosco, dopo la detta torre, si fa più culto. Esso è diviso in poche fattorie a coltura estensiva, o boarie — come quivi dicono — giacchè non vi dimorano coloni ma un boaro che al tempo dei lavori chiama le opere per i vitigni: il vino di Bosco. Iddio accanto all’anguilla ha messo il vino di bosco! I comacchiesi serbano alle loro amatissime anguille una tomba di questo forte e sapido vino nei loro stomachi, senza di che non sarebbe digeribile la grassa anguilla. È una pepsina, quel vino, dell’indigesto cibo, e perciò credo che Dante sia stato troppo severo contro papa Martino IV, il quale aveva capito da igienista e gastronomo insieme che le anguille vanno affogate nel vino:
è purga per digiuno |
Noi ne facemmo straordinario assaggio forzuto, come dirò poi.
*
La mirabile voce!
Mentre — dunque — la nostra spedizione si dissetava prima di intraprendere l’ardua attraversata del bosco, mentre le acque verdi del Po si tingevano dei rossi bagliori del vespero, mentre l’anofèle clavigero si preparava ai terribili assalti vespertini, dalle stanze superiori di quel casamento si sprigionò una voce di donna. Quella voce, sorta da prima senza che noi l’avvertissimo, dilagò ed animò tutta quella gran solitudine.
Era quella una voce di donna, ma non nenia dolorosa quale il vespero e le basse tristi terre avrebbero domandato: ma voce squillante e in pari tempo dolcissima, volubile d’uno in altro canto, con una passione che parca dare a sè beatitudine. Il silenzio della campagna pareva divenuto maggiore.
Dicevano i miei due compagni:
— Brava! fuori la cantatrice! — e pigliando ardimento: — Bella devi essere come bella è la voce — e avendo dalla ostessa preso notizia, cioè essere la cantatrice la maestra comunale: — Brava la maestrina! — seguitavano. — La figlia di....? Allora bella, bella e giovane. Fuori la maestrina, la vogliamo vedere! oramai l’incognito è svelato. Ti conosciamo, maestrina!
Vane parole: nè si affacciò alla finestra, nè cessò per femminile riguardo il bellissimo canto; pareva appena sostare alquanto, indi ripigliava con quell’ebbrezza crescente con cui talora nei boschi i rosignoli tutta la notte confortano le ascoltanti tenebre. Anche quella voce parve a me conforto di tenebre: questo antico Po, testimone di tanta storia, presso il quale eravamo, e fluente a pena; quella tomba eroica di Annita; quelle feroci anime di lavoratori di Romagna; quelle selvagge terre parevano alla gentilissima voce domandare alcuna interpretazione. Gli squilli della voce gentile cadevano su quella ferocia cupa di aspre torre e di aspri cuori, come colpi di martello che raffina la dura lamina e la tempera all’opera buona: la lietezza di quella voce pareva accennare alla luce ridente dell’alba del domani, non al sanguigno tramonto e all’imminente notte.
— Dunque andiamo, amicone! — e la mano del compagno, generale in capo, si posò sulla mia spalla. — Già, alla finestra la non si vuole affacciare.
«Come è eloquente la donna quando tace e quando canta! E anche qui, Venere! Essa pervade la materia. Però anche noi non facciamo altro che andarla sempre a cercare!»
A questo punto delle mie considerazioni vidi il generale in capo cader di sella: il fratello cadde per secondo, terzo caddi io: dissi di no a me stesso, ma caddi medesimamente. Queste furono le tre prime cadute, le altre non si contano; cadute innocue sul sabbione, che potevano tutt’al più provare la resistenza delle macchine.
La ruota affondava dentro il sabbione, e per quanto si cercasse un poco di battuta dove le graminacee e le erbe rafforzavano la cotica del terreno, pur dopo pochi metri conveniva scendere ancora.
Questo impedimento al cammino per così lunga e deserta via, le cadenti tenebre (il sole oramai piombava lento e roggio su la lama livida della laguna), avrebbero gettato una gran tristezza in un viatore solingo: ma in compagnia come eravamo quella stessa difficoltà fornì materia di allegre risa; il condimento mirabile che Dio concesse all’uomo per compenso del pianto! Ricordo, anzi, come a lungo sostassimo attorno ad una densa macchia, e, circondatala, la bersagliavamo di grosse pietre; e ad ogni pietra era un nuvolo di passeri che fuggiva con rombo cupo di ali. Quante migliaia ne albergavano le nere fronde? E anche le fronde, vigorose e rubeste, cedendo a stento alla forza delle pietre, avevano un frusciar cupo di rimbrotto:
«Perchè, uomini, turbate questa pace? Non vi basta asservirci dapertutto; e per tutto i campi coltivati, e per tutto le siepi tagliate, o parrucchieri della natura?»
La campagna, lasciata libera a sè, ha una fisonomia ed un linguaggio che le terre domate dalla coltivazione non hanno di certo.
Ed è singolare la forza che la natura conserva di riprendere — quando può — il suo dominio e lo stato primiero: di riacquistare — ove cessi il peso della civiltà — le energie e le impronte che l’uomo per suo vantaggio le tolse.
Chi passando per quelle arene avrebbe pensato di battere una delle più antiche e storiche vie dell’Italia? Perchè così è veramente: su quel lido selvaggio fu già in antico gettato uno dei primi cavi della civiltà: cioè una strada: e su quelle sabbie che la docile ruota della bicicletta non riusciva più a varcare, passarono le ultime legioni di Roma, lampeggiò l’oro delle ultime aquile imperiali, scese il torrente barbarico. Che via? qual nome di via?
Bello e gran nome: e perchè Galla Placidia la ebbe restaurata, le fu dato il nome di «Via Regina», e al tempo breve che Ravenna fu capitale dell’Impero, e durante il regno dei Goti, e per tutto il tempo dell’Esarcato bizantino e del primo Evo Medio fu frequentatissima, come lo provano i tre monasteri che lungo essa ricorrono: di Pomposa, Brondolo, e Fogolana.
Senza aver notizia di questa via sembra assurdo che in così remota parte fosse edificata la ammirabile abbadia della Pomposa.
Questa via, dunque, litoranea congiungeva le terre dei Veneti, Altino, Aquileia, con Roma, onde fu detta via Romea, e questa scritta ancora pur si legge sugli abituri presso Pomposa.
*
Il tramonto, indi il crepuscolo, si protrassero in quel giorno, con cortesia del sole, oltre il consueto.
— E d’altronde, — dicea l’Armuzzi, — se avessimo battuto questi chilometri di bosco di pieno giorno, avremmo rischiato un’insolazione.
Ad un certo punto le fratte si fecero più rade, il terreno più sodo, le cadute dalla bicicletta meno frequenti: le ruote trovarono la via, liscia, agevole; affrettarono il moto, e con lieta voce salutammo:
— Magnavacca!
Quando una voce ignota ci avverte:
— Volete cadere nel canale?
Era il passatore. Ci fermammo a tempo presso l’argine del canale di Magnavacca, che appena si intravedea livido tra le tenebre salienti.
Magnavacca è uno dei tanti piccoli porti dell’Adriatico, rifugio alle tartane ed ai bragozzi: sono poche case deserte, e in cospetto del mare sorge uno dei soliti goffi monumenti di Garibaldi, in memoria del suo approdo del quarantanove.
Traversammo, anche qui su chiatta, il canale.
Al di là del canale si apriva la via di Comacchio: un gran nastro che biancicava ancora, snodandosi nella tenebra purpurea: purpurea, perchè la via corre fra le acque della valle o laguna, e queste erano imbevute così di sole che pareano come colorate di sangue; e in mezzo a quel rosso tragico delle acque immote, spiccava la linea nera, fastigiata nelle sue torri, della città di Comacchio. Un castello tragico! Una scena da innamorare uno scenografo! Il Dorè avrebbe invidiato quel paesaggio pe’ suoi fantastici disegni! L’Ariosto l’avrebbe popolato di maghi e di fate.
Era semplicemente la patria delle anguille.
I cinque chilometri che dividono Magnavacca da Comacchio furono percorsi con una velocità tale che il dirlo offenderebbe la mia modestia e quella ben più delicata dei miei compagni. Diamone tutto il merito all’ottima strada, raramente percorsa dai carriaggi.
*
Entrando in Comacchio in quell’ora vespertina ci parve di addentrarci fra le ruine di un castello disabitato; ma ecco apparire qualche lumino per la via, lontano, alle finestre; ecco un suono cupo di voci in un dialetto incomprensibile; e infine ecco uno sbatacchiamento sonoro di zoccoli come un coro di rane che si leva dal pantano quando vi si proietta la luna.
— Ma dunque Comacchio è abitata?
— Altro che abitata! Sono tutti raccolti qui, su questa lingua di terra! — Così il duca nostro.
— Sente nell’aria odor di anguille? — mi domandò l’avvocato malignamente.
— Non mi pare, — risposi, — però avverto una vibrazione di afrore speciale nell’atmosfera; ma che ciò sia dovuto alle anguille, non saprei giudicare.
— Veda, — disse allora l’Armuzzi accortamente, — con quest’aria si potrebbe fare un’eccellente specialità farmaceutica da consigliare ai coniugi desiderosi di prole.
— E.... influisce questa atmosfera sulla demografia comacchiese?
— Enormemente!
— Eppure non vedo sciami di bimbi!
— Questo me lo dirà domani di giorno: poi converrebbe addentrarsi nelle vie minori che incrociano, come lische di pesce, questa maggiore, e penetrare in quegli antri degni di Polifemo o, meglio, di Caco, che non appaiono al di fuori, se non per la scritta: «Segue la numerazione»!
— Ma questa via non ha fine?
— Oh, prosegue ancora. Intanto eccoci arrivati all’albergo. Era ora!
L’albergo principale di Comacchio è in un grande casamento settecentistico.
Prima nostra cura fu quella di ispezionare le stanze assegnateci. Oh, calunniata Comacchio!
I letti erano nuovi ed a molle, le stanze così vaste che lasciavano a pena scorgere a lume di candela i confini delle loro modanature barocche. I catini erano grandi e l’acqua per lavarsi contenuta in una capace orciola: ciò va segnalato! In molti alberghi italiani, e non d’ultimo ordine, gli utensili per lavarsi sembrano essere stati acquistati con riguardo dagli abitanti di Lilliput.
Domandare un supplemento di acqua è un animare di inimicizia e di spregio la coscienza del cameriere. Nè dimenticherò l’osservazione di un cameriere:
— Se lei si lava tanto, vuol dire che è molto sporco: io, che ho la pelle pulita, consumo pochissima acqua!
Cenando, fu ventilato il progetto di visitare Pomposa: la famosa abbazia.
— Quanto tempo ci vuole, dunque, per andare a Pomposa?
Questa domanda fu rivolta al cameriere, il quale, nella sua qualità di comacchiese e di autentico garibaldino — come egli si dichiarò — offriva garanzia di onesta sincerità.
— Per terra, — rispose, — lungo il cordone sabbioso, il viaggio non è consigliabile. Dunque per laguna: tre ore andare e tre ore venire, con due uomini in b a t t a n a.
Fatto il computo del tempo, risultò che non sarebbe stata possibile la gita a Pomposa se non perdendo tutta la giornata con grande strapazzo e disordine.
Discutevamo di questo al caffè, dove ci eravamo recati dopo la cena, quando un piccolo signore che spiccava, sia perchè era il solo avventore, sia per il cranio che aveva rasato a macchina, sia per alcuni brillanti alle dita, interloquì dal suo tavolino dicendo:
— Se vogliono andare a Pomposa, penso io!
Il signore parlava con cortesia imperiosa, lasciando cadere le parole tra un buffo e l’altro del sigaro.
Doveva essere uno dei maggiorenti della città.
Egli assicurò in modo da rimuovere ogni dubbio, che due ore sarebbero state più che sufficienti.
— Del resto, penso io a tutto! — concluse.
Il gesto di questo signore era energico e non ammetteva repliche.
Mandò a chiamare un popolano che doveva essere alla sua dipendenza, il quale si presentò col berretto in mano e con un rispetto che nel territorio di Ravenna sarebbe stato un anacronismo.
Il dialetto di Comacchio è press’a poco quello di Ferrara, ma con certe inflessioni cupe e lente che lo rendono strano e difficile; inoltre il signore dai brillanti seguitava a parlare a gesti violenti più che a parole; ma dai gesti dell’altro, benchè umili e rimessi, si capiva che non v’era molto accordo, nè per il tempo, nè per il modo, e neanche per il prezzo. Ma il signore recise il discorso ordinando il tempo, il modo, il prezzo; al quale ordine l’uomo dagli zoccoli s’inchinò con un atto tale da ricordarmi quello dei bravi al dito alzato di Don Rodrigo nei «Promessi Sposi», secondo le classiche vignette del Gonin: inchino di umile rassegnazione e di commiato insieme. Allora l’imperioso signore si rivolse con spianata fronte a noi:
— Tutto combinato: domattina alle sei sono io da loro all’albergo: in due ore sono a Pomposa, alle dieci, sono qui per la colazione: prezzo lire tre!
Noi protestammo per la modestia del prezzo.
Il signore piegò il braccio e levò la palma violentemente respingendo ogni nostra protesta come si fosse trattato di ribattere un oggetto scagliato.
Lo ringraziammo allora dell’essersi improvvisato nostro procuratore: gesto analogo.
Infine chiamiamo il cameriere, il quale dal banco disse:
— Tutto pagato, signori.
Ci guardammo in viso, indi guardammo il nostro ospite improvvisato.
— Ma signore! — cominciò a dire il signor Armuzzi in tuono in cui la sorpresa si fondeva con un sentimento di noia per la soverchia dimestichezza.
Ma l’uomo dai diamanti rispose con un gesto così imperioso da far capire che egli non ammetteva nessuna protesta contro il suo modo di operare.
— Respingete quel denaro! — ordinò al cameriere vedendo Armuzzi levare il borsellino.
Che fare? Cedere, e d’altronde è così raro ricevere ordini di non pagare!
*
Ritornando all’albergo, l’Armuzzi ci spiegava come queste forme di ospitalità siano frequenti in Comacchio, e ricordava il fatto occorsogli l’anno prima.
Aveva scritto ad un commerciante di qui, certo signor Felletti Tami, perchè provvedesse l’alloggio per dieci persone: era con una compagnia di gentildonne ravennati che vollero far gita a Comacchio, e giungevano per barca da Sant’Alberto.
Quello che fece il dabben uomo per togliersi d’impegno non è a credere! Venne poi in fin di tavola arrecando un gran cesto di bottiglie di finissimi vini e si assise non richiesto alla mensa. Ma le dame gli fecero scontare con garbatissime beffe l’onore di banchettare accanto alla loro stemmata bellezza; e la più giovane e maliziosa, in sul finire delle mense, stimolò il valente uomo a spiegarsi chiaro su la natura delle anguille, le quali nascono maschi e quindi diventano femmine; e se da femmine sia possibile diventare maschi.
*
Eravamo giunti all’albergo e già avviati alle nostre stanze, quando vedemmo all’Armuzzi sbarrata la via della scala, indi scomparire sotto l’amplesso di un poderoso, altissimo uomo semi-canuto, in maniche di camicia.
Non vi feci caso e salii alla mia camera: ma poco dopo bussò l'Armuzzi, ridendo
— Quello è il signor Felletti in persona: domani siamo tutti e tre invitati a colazione da lui, qui all’albergo.
— E lei ha accettato.
— Per forza!
*
Lo sbatacchiamento degli zoccoli giù nella via ci destò al primo mattino: pareva d’essere in una calle di Venezia. Aperta una delle cinque enormi finestre, ebbi il saluto di uno stravagante campanile, mozzo e quadro, sorgente davanti a me su di una seicentistica enorme base marmorea, fatta ad anfora rovesciata.
Il campanile spiccava nella delicata purità del cielo, e l’aria sgombra da nebule — aveva piovigginato la notte — rivelava i lontani confini della laguna azzurrina, al di sopra dei tetti. Una gran debolezza e pace era nelle cose.
Al caffè della vigilia trovai già i miei compagni con l’imperioso signore dal brillante.
Egli era in grande sparato ed abito nero: credetti che tanto onore fosse per noi, e guardai, turbato, il mio vestito. Per fortuna il signore non si era abbigliato così per noi, bensì tutta notte era stato desto essendosi celebrata la cerimonia nuziale di un suo parente.
— Sarebbe desiderabile, andando a Pomposa, avere una carta, — dissi, e non l’avessi mai detto! Il signore, quando fu penetrato dell’idea della carta geografica, voleva ad ogni costo fare aprire le scuole, dove ci dovevano essere delle carte murali. A stento lo trattenemmo, non però al punto che non mandasse un messo a casa del maestro di scuola.
Il messo tornò avvilito, riferendo che le finestre erano chiuse e che il maestro dormiva. Il signore ordinò di svegliare.
Gli facemmo pazientemente osservare che il maestro non poteva a meno di non aver moglie, la moglie non poteva a meno di esser giovane, e così di supposizione in supposizione, giungemmo a persuaderlo che per essere cortese a noi, sarebbe stato scortese altrui. Si persuase.
Allora ci avviammo alla proda (come ad una fondamenta di Venezia) dove era preparato il battello.
Battello, cioè b a t t a n a, a fondo piatto e breve sponda: una stuoia era stesa sul fondo e vi ci sdraiammo più che sedemmo.
La b a t t a n a, è, pel comacchiese, ciò che il cavallo è per l’arabo: questa popolazione, nobilmente oziosa, ama la sua b a t t a n a, istrumento di libertà; su di essa si spinge per la valle a fiocinare nel riflesso abbacinante delle acque, con lo stesso amore con cui il cacciatore di frodo ama la selva.
Nobilmente oziosa?
Eh! quando uno si contenta di un paio di zoccoli di legno, di una fetta di zucca barucca, di un’anguilla, ha tutto il diritto di vivere nella contemplazione del sole.
L’ozio del comacchiese — e si noti che si tratta di forte e aitante popolazione — proviene specialmente da cause ataviche.
Chiusi entro quelle lagune, abituati a non ritrarre la vita se non dalla pesca, disdegnano e repugnano dagli altri lavori: quello agricolo specialmente.
Lo stesso prosciugamento delle valli meno pescose, che a giudizio degli intendenti sarebbe la redenzione di Comacchio, è avversato dal popolo e dal f i o c i n i n o in ispecie.
Chi è il fiocinino?
Il fiocinino è il pescatore di frodo: formano delle corporazioni di mutuo soccorso e sommano a qualche centinaio.
Come è noto, quelle famosissime valli sono proprietà del Comune, il quale, o le affitta a compagnie di pesca per un annuo cànone o le amministra per suo conto. Divieto dunque di pesca ai privati! Se non che il fiocinino avendo diritto di vivere («ius vivendi et manducandi»), il Comune assegna al popolo certi specchi d’acqua o c a m p i — come quivi li chiamano — ove è lecito pescare.
Ma sono per l’appunto i luoghi dove il pesce manca o è in quantità assai scarsa, e allora il fiocinino va a pescare nella valle pescosa: fra il diritto della altrui proprietà e il diritto del vivere esistono in Comacchio antichi e taciti accordi. Il delitto di furto per la pesca di frodo non è infamante, la condanna del pretore non oltrepassa la settimana di carcere: in questo tempo poi che il fiocinino rimane in carcere, gli altri fiocinini soccorrono la famiglia di lui, che, scontata la pena, torna al suo libero lavoro.
Contro i fiocinini, a difesa della proprietà, esistono i guardiani delle valli: personaggi interessanti come i fiocinini.
Mi fu assicurato che il numero di costoro supera i quattrocento. Pagati a lire due il giorno, con diritto di cibarsi delle anguille (e se non lo avessero se lo prenderebbero questo diritto: «quis custodiet custodem?») pensi ognuno che cosa costa l’amministrazione delle valli, senza contare il personale di ufficio, tecnico e direttivo!
I sorveglianti delle valli sono distribuiti in casette bianche, lungo i cordoni sabbiosi, arsi e solinghi delle valli. Eremi di trappisti! Ogni custodia è di tre guardie e un caporale: un berretto turchiniccio li distingue.
Che cosa fanno tutto il giorno?
Vorrei poter riferire la parola colorita e caustica del barcaiuolo che ne guidava a Pomposa.
Una lieve bava di vento aveva permesso d’issare una piccola vela di tarchio: e il barcaiuolo ritto a poppa, — bello e placido uomo — deposto il moto uniforme e lento del p a r a d e l l o (specie di forcola con cui è spinta la battana quando pel basso fondo non si può usare il remo), ragionava con noi.
Ma riferire testualmente le parole del barcaiuolo, non potrei. Come rendere il mirabile stile, a scorci, a figure? Tutte le figure della rettorica entravano, nembo vivo e fiorito, nel suo parlare. Come rendere l’arguzia boccaccesca del franco suo dire?
I guardiani il dì oziano anch’essi. Stare sdraiati è il loro ufficio. Ognuno allestisce con cura il suo desinare. Cominciano con minuto studio e per tempo a preparare il soffritto e gli intingoli per le infinite varianti dell’unico cibo, l’anguilla. Anguilla e vin di bosco, alternati fino a completa stazzatura dello stomaco! Ciò fatto, accensione della pipa chioggiotta; accesa la pipa, siesta immobile e buddistica su certi s c a r a n n o n i, disposti intorno all’eremo.
Quando la pupilla non si chiude nel sonno e nell’abbacinìo del sole, spazia e sorveglia la valle.
Ma calata la notte, comincia il lavoro del custode. Il fiocinino caccia di frodo la notte. Il guardiano caccia il fiocinino la notte. Steso nella b a t t a n a, con l’orecchio abituato, percepisce il suono della fiocina, che batte il fondo. La b a t t a n a delle guardie scivola sull’acqua come ombra veloce.
Il fiocinino non si dà gran cura di sfuggire alla caccia: un tuffo in acqua al momento ultimo, e via, se può, con la pesca: la b a t t a n a rimane confiscata, ma essa di solito non vale che poche lire; molto meno che il valore della pesca.
Se poi il fiocinino s’accorge di non poter sfuggire, non fa opposizione e si lascia pacificamente prendere.
Una volta preso, il fiocinino che sa tutti i suoi diritti, vuole essere condotto davanti al pretore con tutte le regole. Ciò da luogo a scene comicissime e a pratiche faticose pei guardiani. La cattura di un fiocinino permette agli altri fiocinini intanto di fiocinare disperatamente, come sicuramente, per tutta quella notte.
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Le anguille, che come grossi colubri, si vedevano guizzare e snodarsi sul limpido fondo, sparso di sassi e conchiglie, non parevano addarsi di questi ragionamenti. Esse vivono nell’acqua, ma dopo essere state arrostite, vengono sepolte nell’aceto. Mille e cinquecento quintali d’aceto fece lo scorso anno venire il signor Felletti dalle Puglie; ciò può dare un’idea della cosa.
«Il signor Felletti, quello della colazione?» Appunto!
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Pomposa! Abbadia di Pomposa! che nome fiorito! quanti fantasmi vigili attorno a quella ruina! Guido di Arezzo, Giotto!
Questa ruina è indegnamente negletta, e il povero prete che l’ha in custodia deve tener chiusa a chiavistello la porta affinchè gli ultimi marmi non vengano rubati e staccati gli ultimi affreschi.
Il palazzo dove gli antichi abati rendevan ragione, oggi è ridotto a stalla e fienile.
Ma certo Dante voi rimirò, o mirabili affreschi del tempio, e Gemma Donati forse derivò ai versi immortali dall’abside giottesca della Pomposa!
No! Meglio parlare di anguille in barile, e della colazione del signor Felletti.
La quale e il quale ci attesero fino alle due dopo mezzodì, perchè l’uomo dai brillanti avea sbagliato completamente i suoi calcoli. Sempre così questa gente autorevole!
Alle ore due, in uno stato di mezza paura, come si fa per le anguille che si arrostiscono prima di esser messe in barile, eravamo all’approdo di Comacchio. Comacchio sotto quell’immota canicola riposava più che mai.
Ma non riposava l’ospitale signor Felletti. Per quale miracolo culinario il signor Felletti seppe far trovare la colazione pronta e a giusta cottura all’ora inattesa del nostro arrivo?
Ciò rimarra sempre un mistero.
E così è improprio il nome di colazione: la si chiami agape, banchetto, simposio. Avete in mente certe descrizioni di mense inverosimili che si leggono negli antichi e cari libri del Boccaccio, del Cervantes, del Folengo, del Rabelais? Qualche cosa di quegli antichi costumi doveva essere sopravissuto nell’anima del signor Felletti, giacchè preparò un pasto tale da satollare tutti gli eroi di quei racconti.
Evidentemente il signor Felletti non meditò che i nostri stomachi moderni non hanno più la formidabile resistenza e forza degli antichi, perchè se a questo avesse pensato, non avrebbe colmati i nostri piatti e i nostri calici come di continuo, per forza, li ricolmava. E dopo aver colmato, cantava per conto suo delle ariette. Donne donne, eterni Dei! La calunnia è un venticello! etc.
Se poi si pensi che il signor Felletti nel doppio fine di congiungere insieme la sua cortesia e il desiderio di lasciarci un ricordo di Comacchio, preparò tutte le portate con pesci di ogni famiglia e cottura, si comprenderà agevolmente in quale stato ci trovavamo all’ora di montare in sella. Erano le sette quando stringemmo per l’ultima volta la larga mano del signor Felletti.
Da Comacchio per Ostellato, giungemmo, attraverso la laguna di Mezzano, a Portomaggiore, capitale degli scioperi agrari del Ferrarese; le mura erano tappezzate di manifesti, tanto contro l’a n o f è l e c l a v i g e r o come contro la s q u a q u e r e l a — neologismo creato dai lavoratori della terra per designare, in modo molto spregiativo, i lavoratori dello sfruttamento umano.
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Quando dei ciclisti arrivano a tarda ora in un paese, si recano all’albergo e pregano un «lavoratore della mensa» affinchè prepari la cena. Ma quella sera noi fummo costretti a rivolgerci ad un «lavoratore di farmachi», affinchè ci aiutasse a far dimenticare allo stomaco l’agape del signor Felletti. Anche i nostri intestini erano in istato di sciopero per eccesso di lavoro. Ma con tutto questo la memoria non dimenticherà per lungo tempo l’afrore del brodetto classico, nel quale la cagnizza e la seppia, la triglia e la torpedine si erano dato convegno di nuoto nella più acidula e grata delle salse; non dimenticherà la piramide di calamaretti fritti, aurei, perlacei, croccanti; non dimenticherà la stesa delle sfoglie brune, arrostite, con un dito di polpa sugosa e candida; non dimenticherà lo storione lessato; le anguille affumicate; il risotto di anguilla; l’intingolo d’anguilla; non dimenticherà la batteria implacabile delle bottiglie crepitanti, di vino di Bosco; non dimenticherà le ariette di musica giocosa, dal «Barbiere di Siviglia» alla «Gran Via», con le quali il signor Felletti — solfeggiando con bell’arte di tenore e grazie di Falstaff — cercava di farci obliare il già inghiottito cibo, per farcene inghiottire di nuovo.
Non solo non dimenticherà, anzi ricorderà con desiderio, specialmente nei giorni di magro.
Il dì seguente ero ancora a Bellaria.