XV. “Virgines ardentes„

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XIV XVI

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XV.

“Virgines ardentes„.


Quel volto di cammeo ingiallito della vecchia marchesa, quella sua gorgia quasi toscana, quella voce che parea filtrata nel languore del confessionale, non mi riuscivano nuove.

Caspita! — dissi poi fra me. — È la marchesa X...., e quelle sono le sue figliuole! Oh, che vengono a villeggiare qui, adesso? E non hanno la loro villa a Colgiardino? Ben la vedo ancora con gli occhi della mente quella severa, grande, antica villa, un che di mezzo tra il convento, la chiesa, il castello. Quella gran villa, quando io ero povero bambino, formava il termine delle mie passeggiate sul colle ameno, e mi rivedo ancora con gli occhi pieni di meraviglia, contemplare quella villa che aveva tante finestre e tanti fiori e vasi grandi di limone. E sentivo un gran rispetto per il signor marchese, padrone di tanta magnificenza e di tanti poderi. Se mi avessero detto allora: «Bambino, guarda che il signor marchese è padrone anche di te, e tu stai al mondo per sua degnazione», io gli avrei ben creduto.

[p. 195 modifica](Da quel tempo ad oggi io ho perduto ogni rispetto per i signori possessori di grandi ville e anche per i signori marchesi; molta fede è stata distrutta dall’erosione critica; e fra le credenze infantili non mi è rimasta che quella per gli asini volatori, compreso quello d’Empoli. Povero bambino allora, oggi povero uomo, con troppa fede allora ed oggi con poca!)

Mi ricordai, adunque.

Il vecchio signor marchese — uno dei tanti nobili di creazione papale in questa regione — era morto anche lui. Ma la sua morte era stata come la rottura di una trave di quercia in un’antica casa. Il figlio maggiore aveva ereditato quasi tutto il patrimonio e lo faceva andare in fretta da due parti: da un lato ci aveva attaccato un disperato automobile; dall’altro una vezzosa carnosa moglie, i cui nervi diffusi per l’epidermide perlacea, rabbrividivano di pena se non erano al contatto di sete profumate e trine preziose. Quel suo corpo di alabastro pareva soffrire al peso delle troppe vesti.

Moglie e automobile erano di alta marca, e il giovane signor marchese pareva molto soddisfatto di possedere quei due invidiati attrezzi di voluttà.

Dunque a lui era rimasta la gran villa. La madre con le figliuole erano venute qui a villeggiare.

[p. 196 modifica]E queste marchesine qui, donne oramai, ma dagli atti e dalle parole di zitelle, perchè sono rimaste zitelle? Non piacquero? Oh, ma qualcuna se ne deve essere maritata, o deve essere morta, perchè erano tante una volta: il vecchio   m a r c h i o   p a l a t i n u s   procreò secondo il precetto evangelico e non tenne forse in debito conto l’esistenza del signor Ricevitore del registro, rinvigorita dal nuovo Governo. Ricordo che queste nobili giovanette formavano lunga compagnia, a due a due, quando uscivano dal tempio, pudibonde, con gli occhi bassi, insieme ai loro fratelli, anch’essi composti, vestiti di nero, come tanti piccoli San Luigi, vigilati dagli occhi severi del babbo e della mamma. E il gran carrozzone marchionale, tirato da due cavalli da monumento antico, un carrozzone che prendeva tutto lo spazio delle melanconiche strade, che svegliava tutti gli echi storici delle case della città morta? Quanti anni sono passati!

Rimase il tempio, passò il tempo!


*


Io ero intento a considerare queste vicende della vita, la quale nel fatto e nella successione giornaliera è continua, ed uguale, quasi monotona, mentre osservata da lontano è così [p. 197 modifica]discontinua, varia e strana, quando in un praticello solingo, che si occultava dalla strada dietro l’abside della chiesa (e si elevava nel mezzo una gran croce nera di legno con iscritto su di uno svolazzo bianco I. N. R. I.), vidi una giovane donna, appoggiata alla bicicletta; quella che non sapeano «dove fosse rimasta», cioè Imperia, la marchesina ciclista.

In quel praticello una famiglia di zingari, che percorrevano in qualità di calderai la nostra contrada, aveva piantata la tenda. Il sudiciume di molte terre peregrinate, il sole e le piogge di vari climi avevano deposto una specie di vernice, un impermeabile protettore su quelle carni, su quei volti, dove brillavano pupille ardenti, torve, rapaci. Due fieri cani da guardia guatavano, meno fieri di quelle pupille umane.

La giovane nobile donna parlava con loro domesticamente. Anche lei bruna, alta, superba nelle membra. Bella? Non so, non vidi. Già cadeva la sera: bella e audace la figura. Un torso amazzonio si scopriva sotto la camicetta sciolta; un fine piede, sollevando la gonna succinta, posava sul pedale della lucida macchina: ma gli occhi erano di una bellezza imperscrutabile e nera.

— ....a Belgrado, lo scorso anno, eravamo, — diceva lo zingaro seguitando.

[p. 198 modifica]— Quando uccisero la regina Draga? — chiese ella.

— No, dopo.

— Così che non l’avete vista, la regina Draga?

— No.

— Ora andate?

— Nelle Marche: noi siamo di Fano.

— Vi credevo boemi o slavi.... (accennò agli stivali ed ai metalli che pendevano dalle vesti).

— No, di Fano, proprio: ma noi si prende un po’ il costume di tutti i paesi.

— Ma vi facevate intendere laggiù?

— Noi ci si fa capire in tutte le lingue; si piglia l’aria di tutti ì paesi.

— E sempre così viaggiate?

— Sempre così. Una settimana in un luogo, dieci giorni in un altro.... secondo il lavoro.

— E stabilite una strada, un paese da andare?

— No! si va avanti.... così, avanti. Se c’è lavoro si sta; se non c’è, si va.

— Bella vita, libera.

— No, brutta!

— Ma siete liberi!

Lo zingaro non parve ben capire il valore di questa parola «liberi!» giacchè le cose del mondo male si comprendono per sè, ma per il loro contrario si comprendono solitamente. Adunque lo zingaro sospirando le disse:

[p. 199 modifica]— Meglio avere una casa col tetto. Quando piove forte e per molto tempo, l’acqua ci entra (indicò la tenda), e non sempre dura l’estate.

La mia presenza interruppe il dialogo. La donna volse su di me, intruso, le sue pupille umide, dilatate, piene di investigazione superba, che dicevano: «Perchè voi vi fermate a guardare gli zingari mentre li guardo io?» e rivolta a loro:

— Prendete, — disse interrompendosi, — e offerse delle monete.

Sbucarono alcuni corpi scimmieschi di bambini, dalle pupille fosforescenti; lunghe mani si tesero. Diedero una moneta ad ognuno.

— Grazie, — disse l’uomo in nome dei bambini.

— Buona sera, — ed ella s’allontanò lentamente.


*


La riconobbi allora. Ella era quella ciclista che spesse volte avea veduto, maschilmente sola, sicura, lanciare, sotto l’impulso del bel piede, la docile macchina leggera e oltrepassarmi. Nella sua mente, sì certo, si deve formare questo nucleo di idee mentre fugge veloce. Oh, perchè non è ella Saffo o Corinna per dare all’idea forma di verso?

[p. 200 modifica]«O corona marchionale, o corona del Rosario, che ogni sera la madre mi fa recitare; o corona della virtù e del pudore; o corona di spine delle caste parole e dei misurati gesti; o fiore inutile della verginità in queste mie carni mature, andate al diavolo. Io busserò sino ad infrangere la porta del prete e gli dirò: «Ma dammi la tua benedizione, prete!» Se no, io, anche senza la tua benedizione, prete, fuggirò. Fuggirò pur con lo zingaro orribile e feroce, pur che egli vinca la mia paura e mi rapisca. Rapida correndo, io ho l’illusione di una fuga e di un rapimento. Eppure dopo è necessario il ritorno! Oh, miseria mia grande, dovere invocare il gelo e l’inverno perchè siano medicina alla mia febbre!»


*


Fu l’altra sera, che per accorciare la via al ritorno dalla città, io mi sono messo per il solitario viale dei pioppi che va alla selva dei pini, e per cui già vidi scendere la piccola attrice. Il vento del levante, inusitato e forte per l’ora del vespero, scompigliava le verdissime chiome dei pioppi, onde mostrando il bianco dell’altra pagina della foglia, parevano essi occhieggiare da ogni parte, come [p. 201 modifica]tante pupille. Io fui d’un tratto colpito, come nella mia mente improvviso apparisse l’unità della radice nelle due parole:  l u s s u r e g g i a n t e,   detto dei pioppi; e   l u s s u r i a,   detta della piccola attrice.

«Dove è andata la piccola Ninfa che fra di noi scendeva?» — chiedevano i pioppi, e proseguivano fremendo: — «Oh, potere, come già delle antiche Ninfe avveniva, stringerla e occultarla entro le nostre cortecce!»

Ma cominciando a salire il viale, verso la casa del cantoniere, appariva il mare.

Esso era verde e livido più che azzurro, e sotto l’impulso del gran vento di levante, quel piano unito si rompeva in lunghe file di schiume bianche, che ricadevano con fragore di armi guerriere.

La luna pendeva pallida su dal cielo. Verso occidente il cielo era di fiamma. Vera nell’aria la lucentezza livida d’un temporale lontano.

Su lo spaldo della ferrata, dove più feriva il vento, quivi sorgeva, nera, la figura di Imperia. La ricca gonna e i capelli le ventilavano dietro. D’una mano reggeva la sottile macchina perchè il vento non la sbattesse a terra; dell’altra teneva impugnato il berretto, onde la fronte e tutto il viso — un viso forte, quasi maschile, ma lumeggiato da due [p. 202 modifica]grandissime vertiginose pupille nere di donna — era esposto al vento.

No, ella non contemplava i cavalloni del mare che di fianco correvano come lancieri bianchi all’assalto, su per un gran verde piano: ella non contemplava la grande luna d’agosto, sorta, che già ancor di sopra era il sole (e aveva detto la luna col suo placido riso beffardo: «Una volta al mese, o fratello sole, ci troviamo insieme a colorire, tu con le fiamme d’oro, io col mio argento, questo incolore branco di formiche con due gambe!»), non contemplava la casetta del cantoniere, asilo di pace; bensì, come assorta, godeva della sferzata del vento, quasi esso formasse su di lei una carezza brutale. «Oh, grande forza, portami via tu!» E il vento la investiva, la penetrava, la offendeva, ed ella pareva goderne, giacchè da quello spaldo non si tolse, ed io la vidi ancora lassù che già era giunto presso la riva del mare, dove l’onda dilagava orlata di spuma e poi scendeva col fremito della risacca.


*


Lungo la spiaggia del mare — magnifica strada lavorata dalle onde — è la passeggiata vespertina, assai lieta e pittorica, specie nell’ora in cui approdano i battelli della pesca, [p. 203 modifica]dalle vele rance, ornate di segni strani e infantili, fatti per il riconoscimento: ma quella sera, a cagione del forte vento, non c’era alcuno su la spiaggia, e i bragozzi e le tartane avevano cercato rifugio nei piccoli porti vicini.

Però davanti a me camminavano, vincendo la forza del vento avverso, due giovanette. Io ne conobbi subito una: era un’adolescente, quindicenne a pena, figlia di onestissima e timorata famiglia, piccoli possidentucci di provincia. Le gonnelline corte erano ancora del suo corredo; e la madre e il padre, in quell’estate e per la prima volta, ma con grandissimi riguardi, l’avevano condotta alle semplici festicciuole di ballo su la spiaggia.

Sono feste assai alla buona: anzi un tempo si ballava sotto un tendone, fatto come quello delle giostre; poi ci fu un imprenditore che pensò di costruire un capannone di muratura. Ballonzoli per bambini; anzi è curioso osservare certe testoline ricciute di maschietti che dondolano tutti i loro ricci, agitano con gran pena le gambe nei minuscoli calzoncini per voglia di ben ballare; ma il tempo di musica non lo trovano; pestano e girano come i pigiatori in un tino, e così girando, finiscono col trovarsi in un angolo, in fra un crocchio, o vanno a dar del capo nel muro; allora, dopo [p. 204 modifica]essere stati alquanto attoniti, o riprendono il loro ballo o scoppiano in pianto; ma le bambine della stessa età intuiscono il tempo musicale con una sorprendente prestezza: la nave, varata, nell’acqua galleggia; l’uccello, staccato dal nido, vola; la donna, buttata nel ballo, danza subito a ritmo.

Quando le mamme conducono a letto i piccini, quel ballonzolo serale serve per i grandi: un buon violino e un contrabasso alternano polche e valzer: quello geme, questo fa,   z u m-z u m   ogni tanto: i grilli tacciono, ma per tutta la landa marina si diffonde il suono, e molti cuori fa palpitare. Le servette poi non chiudono occhio e forse per ciò avviene che aprano la finestra a chi vi fa assedio regolare. Qualche notte poi, finito il ballonzolo, alcuni giovani accordano mandolini e chitarre e vanno facendo la serenata che si prolunga — sì breve è la notte e sì luminosa è l’aurora — sino a diventar mattinata.

Oh, mattinate di Bellaria, delizia delle serve e delle padrone! Vanno per le dune i sonatori e fanno giorno, suonando. Quante volte fui desto da quella voce che si staccava nella chiara notte: un mandolino che batteva il suo ritmo d’argento, un flauto, un contrabasso, una chitarra fors’anche. Spesso ho distinto i sonatori: erano vagheggini, e buontemponi del [p. 205 modifica]luogo, i quali, se vissuti in altra età, avrebbero lasciato ricordo del loro nome, come giullari e uomini di corte. Questa gente insulsa e gaia come pur faceva palpitare la grande severa notte! Adergersi le piante, sostare le stelle, rabbrividire le rame pareano! Non essi i sonatori, ma un’ondata di vento misterioso pareva accostare e allontanare quei suoni, nel modo stesso che un proiettore può allontanare o accostare una luce. Poco io amo, meno comprendo la musica; eppure in una notte quei suoni mi destarono: ripetevano un motivo popolare di altri tempi; suoni precipitosi, a scrosci, grandinar di suoni cui si alternava un piccolo lamento — sì bene, ricordo — un dolce lamento che lo intonava il flauto, e dopo scrosciavano ancora mandolino e chitarra. Sentii allora lagrime antiche che distillavano di dentro, come fossero state di piombo liquefatto: «Ahi, giovinezza che ti allontani: giovinezza che non sei più!»

Ma per le servette, ma per le padroncine manifestamente è altra cosa; e voi siete sempre belle e novelle, o mattinate di Bellaria; e voi, vagheggini e giullari, vi apprestate anche quest’anno a ben mattinare.

Dicevo dunque che in quei balli io avevo notato questa giovanetta. La sua grazia non era pareggiata che dalla sua timidezza. Soltanto [p. 206 modifica]la grazia dava indizio fisico della sua essenza muliebre. Finito il giro — non ne stava giù uno, che fosse uno — si rifugiava come paurosa fra il babbo e la mamma: non sapeva stringere la mano al ballerino: alle domande rispondeva a pena con un fil di voce: «sissignore, nossignore»: ma quando ballava era un incanto, così religiosamente ella ballava, avvinta come un’edera al petto dell’uomo. Ogni moto del piede e della persona era compiuto al ritmo come un atto devoto, con una intensità di piacere da commuovere chi lei riguardasse con occhio profondo.

Oh, quale contrasto allora che la scopersi, in quel vespero, sola con la compagna su la riva del mare! Evidentemente per lei in quella stagione estiva si erano per la prima volta accese con nuovo splendore e significazione le antichissime stelle del cielo, sbocciati le erano i fiori, come nel maggio!

Ella dunque andava con la compagna lungo la via del deserto mare. Il vento, battendo su le esili vesti, disegnava tutto quell’elegante corpo di efebo; il piede nudo non curava le spume del mare: ma come le splendevano gli occhi; come dilatate erano le pupille — già chine e raccolte — ; come le si era fatta turgida e forte la voce e le parole squillanti, che il vento rapiva!

[p. 207 modifica]Quale affetto le inturgidiva la voce e quali parole ardite le rapiva il vento? quale forza maturava questa adolescente? quali segreti ella rivelava alla compagna?

Parole d’amore, di acerbo e nuovo amore, che ella confidava alla compagna.

Al mio improvviso sopraggiungere, tacque: mi riconobbe: salutò con rispetto.


*


Partì questa piccina in carrozza, il dì seguente. La carrozza era piena di valigie: ella attendeva timida fra il babbo e la mamma. Tutta vestita d’un abitino grigio quasi da educanda, era proprio lei quella che avea veduta su la riva del mare?

— Si è divertita quest’anno, signorina?

— Sissignore.

— Tornerà un altr'anno?

— Se il babbo e la mamma lo vorranno, sissignore, — e nulla di più le usciva di bocca. Or va, torna alla casa tua, pudica, alle faccende domestiche. Attendi l’ora della legge che suonerà e attendi l’amante legale. Ma strano è come la natura abbia fretta e sia operosamente precoce. Essa, la gran forza, aveva già ben maturata quell’adolescente per [p. 208 modifica]quell’istante, che è fuggito e non tornerà più. Ella stessa, divenuta donna, non se ne ricorderà più!


*


La pagina aperta della vita è bella: ma più bella è la pagina sigillata. Eppure l’uomo, per quanto sia audace, non osa infrangere questi suggelli, e anche questa è cosa ammirevole. A buon diritto Iside sta perennemente velata.