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rivolgerci ad un «lavoratore di farmachi», affinchè ci aiutasse a far dimenticare allo stomaco l’agape del signor Felletti. Anche i nostri intestini erano in istato di sciopero per eccesso di lavoro. Ma con tutto questo la memoria non dimenticherà per lungo tempo l’afrore del brodetto classico, nel quale la cagnizza e la seppia, la triglia e la torpedine si erano dato convegno di nuoto nella più acidula e grata delle salse; non dimenticherà la piramide di calamaretti fritti, aurei, perlacei, croccanti; non dimenticherà la stesa delle sfoglie brune, arrostite, con un dito di polpa sugosa e candida; non dimenticherà lo storione lessato; le anguille affumicate; il risotto di anguilla; l’intingolo d’anguilla; non dimenticherà la batteria implacabile delle bottiglie crepitanti, di vino di Bosco; non dimenticherà le ariette di musica giocosa, dal «Barbiere di Siviglia» alla «Gran Via», con le quali il signor Felletti — solfeggiando con bell’arte di tenore e grazie di Falstaff — cercava di farci obliare il già inghiottito cibo, per farcene inghiottire di nuovo.

Non solo non dimenticherà, anzi ricorderà con desiderio, specialmente nei giorni di magro.

Il dì seguente ero ancora a Bellaria.