La fine di un Regno (1909)/Parte I/Capitolo XXI

Capitolo XXI

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CAPITOLO XXI

Sommario: Partenza da Lecce — L’arrivo a Brindisi — Aneddoti — I preparativi e le feste di Bari — Risposta di Ferdinando II a monsignor Rossini — Lo stato di salute del re — La consegna della sposa a Trieste — Tornano gli arciduchi — La famiglia granducale di Toscana a Napoli — La morte dell’arciduchessa Anna — L’arrivo di Maria Sofia a Bari — Accoglienze clamorose — Ferdinando II e Maria Sofia — La cerimonia nuziale — Uno esborso del conte di Caserta — Peggioramento del re — I dottori Longo, Ghiaia e Ferrara a consulto - Lo spettacolo di gala al teatro Piccioni — I divertimenti dei principi — Il segretario generale de Filippi — Si richiama il dottor Longo — Le sofferenze di Ferdinando II — Le reliquie miracolose — Cavour veglia — I rapporti di Gropello e il conte di Siracusa — Timori di alleanza fra l’Austria e Napoli — Assicurazioni in contrario di Carafa — Contegno impenetrabile del duca di Calabria — Vani tentativi dello zio.


Alle otto della mattina del 27 partirono i tre principi, con una parte del seguito. Alle nove, Ferdinando e Maria Teresa, ascoltata la messa nell’oratorio privato dell’Intendenza, ammisero al bacio della mano le autorità, riunite nella gran sala del palazzo. La cerimonia riuscì piuttosto fredda. Il re non rivolse la parola a nessuno, in particolare, nè piacevoleggiò con alcuno, come era suo costume. Si temette che fosse rimasto poco soddisfatto delle accoglienze ricevute; ma il vero è, che non si sentiva bene e aveva fretta di partire. Ringraziò il dottor Leone e gli fece dire dal colonnello Severino, che si riserbava di manifestargli la propria soddisfazione, appena giunto a Napoli. Leone restò a Lecce, e Ramaglia, con l’assistente Capozzi. accompagnò il re, il quale scese lentamente lo scalone, [p. 462 modifica]giandosi al braooio del ricevitore generale Daspuro, cui disse, con accento triste: “Ricevitò, so f... Me sent’a capa comm’a nu trommone„.1 Circa le 10, i Reali lasciarono Lecce, fra gli applausi della folla, che li accompagnò sin fuori le mura. I cocchi reali furon poi seguiti, per alcune miglia, dalle carrozze della nobiltà leccese. E la via da Lecce a Bari fu un nuovo cammino trionfale. Campi, Trepuzzi, Squinzano, San Pier Vernotico e i paesi vicini avevano innalzati i soliti archi con iscrizioni; e accanto ad ogni arco si trovavano le rappresentanze municipali e le guardie urbane con bandiere. Un’iscrizione di Campi diceva: La generazione de’ giusti da Dio benedetta — che stirpe di San Luigi — non cesserà sino alla fine del mondo — Maria Teresa Regina ornamento del secolo nostro — per lapidi e la purità della vita — sarà sempre la nostra madre — e la nostra mediatrice di grazie — presso il trono del Real Consorte.

Ma dimostrazioni più clamorose aveva preparate Brindisi. I brindisini eran tutti fuori dell’abitato, con il sindaco Pietro Consiglio, col sottointendente Mastroserio, che, zoppo per cronica infermità, aveva fama di zelantissimo ed era temuto, si diceva, persino dal Sozi Carafa; nonchè i sindaci, decurioni e guardie d’onore del circondario. All’ingresso della città, era stato rizzato un arco altissimo, sul quale si leggeva questa curiosa epigrafe: Al benamato Sovrano — Restitutore della sua salute — Brindisi riconoscente — de’ suoi figli la vita — «consacra. Attorno all’arco stava schierato un battaglione de’ cacciatori, con la banda municipale. I sovrani si recarono direttamente al Duomo, dove furono ricevuti dall’arcivescovo monsignor Raffaele Ferrigno, buona e gioviale persona, che per la circostanza aveva indossato il piviale fin dalle prime ore del mattino e ai dava gran moto; dall’arcidiacono Tarantini, dotto nomo, che il re già conosceva e dal capitolo tutto. Attraversarono l’ampia cattedrale, in mezzo a due fila di seminaristi e di canonici, dietro ai quali stavano soldati e gendarmi, e poi una turba di popolo. Il re si moveva con difficoltà e sembrava che soffrisse molto. Avvicinatosi al presbiterio, notò, più avanti dì tutti, un uomo completamente calvo; nè sapendo spiegarsene la presenza, diè ordine al colonnello Latour di farlo allontanare, chi disse per timore di jettatura, chi di un attentato. Non si seppe mai il [p. 463 modifica]nome di quel calvo. Fu fatto allontanare anche Alfonso Ercolini, distinto signore, perchè si disse che al re non piacesse il suo portamento poco edificante in chiesa. Nella folla ruzzolò por terra un povero vecchio, uffiziale di presidio, e tanto vicino al re, che questi si chinò come se volesse rialzarlo. L’arcivescovo, non comprendendo il grave stato di Ferdinando II, si affaccendava a trarlo rapidamente al presbiterio, del che il duca di Calabria lo richiamò più volte, tirandolo per il piviale, e monsignor Ferrigno, indispettito, nè sapendo chi potesse essere così scortese con lui, gridò napolitanamente: “Guagliò, che buò? lasciame sta„;2 ma visto chi era, fece mille scuse. Monsignor Ferrigno, nativo di Napoli, era stato vescovo a Bova, in provincia di Reggio, ed è morto pochi anni or sono vecchissimo. Cantato il Te Deum, e ricevuta la benedizione, il re e tutto il seguito salirono sull’episcopio annesso alla chiesa, dov’era preparata una lauta refezione, e dove si compì il ricevimento delle autorità col relativo baciamano. Ferdinando II chiese all’arcivescovo notizie sui liberali di Brindisi, e specialmente su Giovanni Crudomonte; e monsignor Ferrigno lo assicurò che Brindisi era città tranquilla, e che il Crudomonte e gli altri non erano poi così nemici della dinastia, come gli si era fatto credere. Il sottointendente aveva chiamato, qualche giorno prima, Francesco Crudomonte, figliuolo di Giovanni, condannato a ventiquatr’anni dì ferri per i fatti del 1848, e chiuso nel bagno di Procida, e gli aveva ingiunto, per mezzo del commissario di polizia, di radersi la barba, simbolo, come già altrove si è detto, dì tendenze rivoluzionarie. Il re era sofferentissimo e, benché tutto avvolto nell’ampio mantello alla russa, tremava dal freddo. Dichiarò di non voler prendere cibo, e alle insistenze della regina e dell’arcivescovo, perchè mangiasse qualche cosa, prese un’ostrica, dì quelle gigantesche che si trovavano allora nel porto di Brindisi, la divise in quattro, e dicendo con molta cavalleria: “questa la mangio perch’è veramente brindisina„, ne inghiottì una parte soltanto. Gli altri pranzarono lautamente, ma in gran fretta, chi in piedi e chi seduto, e v’è chi afferma di aver visto il duca di Calabria mangiare un pollo dietro i vetri di una finestra. Egli si divertiva a motteggiare l’arcivescovo, che era rimasto in piviale e fece grandi lodi del pane di [p. 464 modifica]Brindisi, che trovava eccellente. Al tocco ai discese dall’episcopio; le carrozze erano pronte, e fra le grida, non molto clamorose della folla, e gli augurii e gl’inchini delle autorità, sì parti per Bari.

Da Brindisi a Bari, nuovi archi e grida e dimostratoci di gioia e di ossequio, da parte degli abitanti di San Vito. Carovigno, Fasano, Monopoli, Mola, Polignano, Noia, i quali con le proprie autorità, corporazioni religiose e guardie urbane, con bande e bandiere erano ragunati lungo la strada e acclamavano a perdita di fiato. Solo ad Ostuni non furono calde le accoglienze; e benchè vi si fosse fetta sosta pel cambio di cavalli, non si udirono grida di festa. Essendovi piuttosto numerosi i liberali, questi avevano data la parola d’ordine di astenersi da ogni dimostrazione, A Mola erano andati a incontrare i Sovrani l’arcivescovo di Bari, monsignor Pedicini, l’intendente Mandarini, il procuratore generale della Corte criminale, Lillo, e il direttore dei dazi indiretti, Margiotta. A Bari non si giunse che alle 9 e mezzo, e il re apparve quasi trasformate dal male.


Le accoglienze di Bari, dove i Sovrani erano attesi sin dal giorno 15, superarono in grandiosità tutte le altre. Giulio Petroni, che ne fu testimonio oculare e fece parte di una della commissioni, di ricevimento le ha narrate nel secondo volume della sua storia di Bari, in tutti i loro particolari. Il telegrafo elettrico, unicamente occupato per i dispacci governativi, era insufficiente a trasmettere tutti i dispacci d’ufficio. In nessuna città, come in quella, furono staccati i cavalli dalla carrozza reale, trascinata a braccia per le vie, fra grida assordanti. E re ricevette gli omaggi del sindaco, Giuseppe Capriate, delle autorità, dei capitoli palatino e metropolitano, dei seminaristi e delle confraternite, sotto l’arco trionfale di stile gotico innalzato all’ingresso della città, e sul quale era scritto: Alle auguste maestà — di Ferdinando II e Maria Teresa — Bari riconoscentissima. Nè il re, nè i principi discesero dalle carrozze. Gli archi erano illuminati da lanternini di vetro, detti lamporielli, d’un bellissimo effetto e di molto puzzo. Alcune confraternite ebbero l’infelice idea di mandare i proprii rappresentanti vestiti del sacco, e questi fratelloni con le torce accese in mano, come le avevano tutti, davano alla cerimonia [p. 465 modifica]l’apparenza di un mortorio. Ma la nota più malinconica era data dall’ aspetto abbattuto del re, con la barba e i capelli incolti e completamente canuti. Con visibile sforzo egli rispondeva agli evviva del popolo, agitando, fuori lo sportello della vettura, un fazzoletto bianco. Dall’arco di trionfo all’Intendenza fu una baldoria. Arrivato il corteo di fronte al palazzo, la folla fece tal ressa per entrare nell’atrio, che Ferdinando II ne fu quasi impaurito, e protestò che non sarebbe sceso, se non si fosse sgombrato l’atrio. I gendarmi a cavallo, comandati dal loro capitano De Curtis, distribuendo piattonate a destra e a sinistra, fecero largo; l’atrio fu così sgombrato e il re; con molte precauzioni, scese dalla carrozza, e dato il braccio alla regina, cominciò a salire penosamente le scale. A monsignor Rossini, arcivescovo di Matera, che gli chiese conto della sua salute, rispose: “Monsignò, sto nu pucurillo acciso„.3

Le scale dell’intendenza presentavano un aspetto imponente. Signore, signori, vescovi e arcivescovi facevano ala, con ceri accesi in mano. La signora Mandarini, moglie dell’intendente, la signora Capriati, moglie del sindaco, la signora Pappalepore e la baronessa D’Amely formavano la commissione per ricevere la regina; e Vito Pappalepore, il conte Massenzio Filo, Enrico Capriati, Gerardo Sirone e Niccola Pollio formavano la commissione per le feste. Altri gentiluomini baresi erano schierati a destra e a sinistra. Il re saliva a stento, fermandosi ogni tre o quattro scalini, e sostando a lungo su gli ampii pianerottoli. Arrivato nel suo appartamento, non volle mangiar nulla; ma, chiamato dalle grida assordanti della folla al balcone, vi comparve un momento. La città era illuminata a festoni e ad archi costruiti sotto la direzione dell’architetto Lofoco, mentre i trasparenti erano stati dipinti dai pittori Zito e Sorace. Al re era tornato acutissimo il dolore al femore; non si reggeva e volle andare subito a letto. Lo svestirono con ogni cura la regina, Ramaglia e Galizia. L’appartamento del re e quelli dei principi erano stati addobbati alla meglio, con mobili e soprammobili forniti dalle principali famiglie di Bari: Capriati, De Gemmis, Pappalepore, Elia. L’Intendenza era divenuta una locanda. Alcuni del seguito presero alloggio in case private; il Murena e il Bianchini in casa Diana.

[p. 466 modifica]Ferdinando II non potè l’indomani levarsi, ma le feste non vennero per questo sospese. Tutta la provincia era convenuta a Bari. Vi erano circa centocinquanta guardie d’onore, comandate da Filippo Esperti e Tommaso Melodia, caposquadra delle guardie di Terra di Bari. Dalla mattina alla sera, le bai® musicali suonavano nelle piazze, e la sera c’erano luminarie e fuochi d’artificio e s’innalzarono centinaia di palloni, dalle forme bizzarre. Bari era in preda alla pazza gioia. Ferdinando II dalla camera dove giaceva in letto, vedeva con un senso di pena le luminarie della facciata del teatro e udiva le gridi della folla. A nessuno era permesso avvicinarsi al palazzo. Un cordone di soldati guardava l’Intendenza, e due sentinelle, giorno e notte, ne custodivano il portone. Nel secondo giorno avvenne un curioso incidente. Un tal Lapegna, arrampicatesi su per le sporgenze dei fregi di stuooo della facciata, e quindi afferratosi a uno dei fanali del balcone di sinistra, riuscì a superare la ringhiera del gran balcone di mezzo, che era quello della camera da letto del re, il quale, come vide dietro i vetri uno sconosciuto che metteva le mani in tasca per presentare una supplica, fu preso da paura e si diè a gridare, Il Lapegna venne arrestato dal capitano De Curtis e tenuto in prigione, per qualche giorno. I principali proprietarii della provincia avevano mandati copiosi doni di latticini, di caccia, agrumi, frutta e vini dolci; ma il re poco o nulla potè gustarne per le sue condizioni di salute, e, in gran parte, quelle ghiottornie vennero mangiate dal servidorame.


La maggior attenzione di quanti erano convenuti a Bari in questa circostanza fu richiamata dai lavori del nuovo porto, del quale avevano l’appalto i fratelli Beltrani di Trani. Andarono a vedere questi lavori, il giorno appresso all’arrivo, accompagnati dall’intendente, il ministro Murena, il direttore Bianchini, il duca di Sangro e il generale Ferrari, e ne rimasero soddisfatti. Il Murena, che era anche ministro dei lavori pubblici, nel rimontare in carrozza, disse all’intendente: “Dirò tali e tante cose a S. M., da infervorarla in uno di questi giorni a venire a veder l’opera, od almeno, quando ciò riesca impossibile, da farla vedere da S. A. il Principe„. E di fatti, quattro giorni dopo, il duca di Calabria e i suoi fratelli, accompagnati dal [p. 467 modifica]loro seguito, visitarono minutamente i lavori, de’ quali Francesco fu stupito, sì da esclamare ad ogni momento: #Che bella cosa! Che bella cosa!„ E, scendendo per la scaletta del nuovo mnragìione, aggiungeva: “Proseguite a far così bene come sinora„. Continuò la visita per tutta la lunghezza del molo, e chiamati gli ingegneri, raccomandò loro di non badare a spese, soprattutto per la gettata della scogliera, perchè qualche centinaio di ducati spesi di più ora, varranno — egli disse — a non farne spendere quattrocentomila in seguito„. Durante la visita, un legno inglese, ancorato nel porto, faceva le salve di uso, alle quali rispondevano i legni della regia marina. Dopo la visita al porto, in quel giorno stesso, nel pomeriggio, il duca di Calabria, il conte di Trani e il conte di Caserta andarono a Capurso, a visitare il santuario della Madonna del Pozzo, e alle cinque rientrarono a palazzo. La regina in quei giorni acquistò a Bari molti oggetti di porcellana e di cristallo, candelabri ed altro, esprimendo la sua maraviglia di trovare in provincia così belle cose e destinandole in regali, o in addobbi del palazzo. In tre giorni dall’arrivo a Bari, non si era verificato alcun miglioramento nella salute di Ferdinando II. I medici lo consigliavano, anzi lo pregavano che non partisse, e neppur lui ne aveva desiderio e forza. Ma, non essendo più possibile ritardare la venuta della duchessa di Calabria, il re, nel giorno 30 gennaio, fece noto quanto si era stabilito con gli arciduchi a Lecce, che cioè la sposa, non più a Manfredonia, ma a Bari sarebbe sbarcata. E poiché gli ufficiali di marina avevano consigliato di preferire il nuovo porto al vecchio, potendo in quello meglio approssimarsi alla banchina i grossi bastimenti a vapore, furono cominciati nel nuovo porto i lavori. Ma poi si mutò avviso, e fu scelto il vecchio porto, dove si sarebbe costruito un ponte dal lido sino a raggiungere la profondità di un metro, necessaria alle imbarcazioni: ponte che sarebbe cominciato in fondo al grande Corso; e in tal modo Maria Sofia, arrivando, avrebbe ricevuto buona impressione della città.


Stabilito così lo sbarco, ne venne dato avviso ufficiale a Vienna, a Trieste, a Napoli e a Bari, dove il re fece sospendere le feste, sino all’arrivo di Maria Sofia e ordinò, che tutte le spese per il mantenimento della Corte a Bari fossero [p. 468 modifica]sostenute dalla Casa Reale, ma amministrate dalla commissione per le feste, la quale divise le varie competenze tra i suoi componenti e assunse il governo interno del palazzo, cercando i mettere un po’ d’ordine nella confusione magna dei primi giorni.

I preparativi per ricevere la sposa e per allestire gli alloggi dei personaggi, che sarebbero venati ad assistere alla cerimonia furono condotti alacremente. Il Comune prese in fitto la casa Lamberti, che convertì in foresteria: le principali famiglie baresi, l’arcivescovo e il gran priore di San Niccola si dichiararono pronti ad alloggiare altri personaggi. Da Napoli giunsero abili paratori e tappezzieri, che trasformarono il salone dell’Intendenza in cappella per la cerimonia nuziale e apparecchiare la camera da letto degli sposi. Enrico Capriati sopraintendente al servizio del vitto e alle cose segrete, come si diceva allora, avendo alla sua dipendenza Vito di Gese, più generalmente noto sotto il nome di Vito di Dio, primo cuoco e primo albergatore di Bari; ma nè l’uno, nè l’altro potettero impedire dei trafugamenti. La loro attività nel provvedere a quanto occorreva era grandissima, perchè non c’erano ferrovie, e Bari d’allora non era quella di oggi. Si faceva venire roba da Trieste per mezzo dei vapori del Lloyd, che approdavano due volte la settimana, e per mezzo della messaggiera postale, che arrivavi da Napoli ogni giorno. Si facevano provviste all’ingrosso, credendo dì far meglio, ed era peggio, perchè la roba, consegnata alla signora Mandarini, moglie dell’intendente, la quale soprintendeva alla cucina, andava dissipata o rapita. Un giorno il Capriati fece consegnare ottocento uova, e due giorni dopo gliene furono richieste altre, perchè le uova consegnate erano state rivendute!

La cucina reale serviva solamente ai sovrani e ai principi, ma tutti ne profittavano direttamente e indirettamente col pretesto che allora a Bari non vi erano locande, oltre a quella di Vito di Dio, le cui mense non avevano più posto: e le altre osterie erano quasi taverne. Ogni sera, prima di cena, la regina in una sala raccoglieva tutti i signori del seguito e i familiari e con essi recitava il rosario. Dopo questo, si facevano altre speciali preghiere per la guarigione del re, il quale, nei momenti che la malattia meno lo tormentava, attendeva col Murena e col Bianchini agli affari dello Stato e, col Mandarini, a quello della provincia. Decretò per Bari un tribunale di commercio e [p. 469 modifica]nuovi edifizìi per il liceo, per il convitto, per la scuola nautica e la Società economica, e approvò un prestito per i lavori del nuovo porto, continuando l’annua sovvenzione di 30 000 ducati dalla cassa della Tesoreria.


La duchessa di Calabria, con la sua Corte, bavarese e napoletana, lasciò Vienna il 30 gennaio. L’accompagnarono l’imperatrice e il principe Luigi, loro fratello. Passarono la notte a Lubiana e giunsero a Trieste, a mezzodì del 31. Alloggiarono nel palazzo del governatore, e fu convenuto che la consegna della sposa, da parte del commissario plenipotenziario bavarese, conte di Rechberg, al regio commissario plenipotenziario dì Napoli, duca di Serracapriola, si sarebbe fatta nella galleria di quel palazzo, all’una e mezza del giorno dopo. La cerimonia fu bizzarra e ricordò quella che aveva avuto luogo a Vienna, quando l’arciduchessa Maria Luigia era partita per la Francia, sposa di Napoleone I. Nel mezzo del salone si tracciò una linea, che raffigurava la divisione fra il territorio napoletano e il bavarese; sulla linea fu collocato un tavolino, coperto da un tappeto di velluto cremisi a frange d’oro, e ai due lati opposti del tavolo, due sedie a braccioli. Nella galleria sì entrava per due porte: sopra una, erano collocate le bandiere e gli stemmi napoletani, e la custodivano guardie marine napoletane; sull’altra, le bandiere e gli stemmi di Baviera, e vi erano guardie imperiali di gendarmeria. All’ora fissata si trovarono, dalla parte del territorio napoletano insieme al plenipotenziario, il duca di Laurenzana, la principessa di Partanna e la duchessa di San Cesario: il primo cavallerizzo, le altre dame della duchessa di Calabria, il segretario del duca di Serracapriola, De Bouquai, che ne lesse più tardi le credenziali ed il contrammiraglio Roberti, con gli ufficiali del Tancredi e del Fulminante. Dalla parte del territorio bavarese entrò la duchessa di Calabria, col suo seguito. L’imperatrice e il principe Luigi assistevano da una tribuna. I due plenipotenziarii si avanzarono verso la linea di divisione e, vicendevolmente, lessero le credenziali. Il conte di Rechberg rivolse dopo ciò alcune parole di commiato a Maria Sofia, la quale, alzatasi in piedi, ammise in atto di congedo il suo seguito al bacio della mano. Poi il conte di Rechberg, presa la duchessa di Calabria per mano, la condusse fino alla [p. 470 modifica]linea di divisione e la consegnò al duca dì Serracapriola, che la fece sedere su una poltrona nel territorio napoletano, rivolgendolo un breve discorso di circostanza, e presentandole il seguito. Cosi ebbe termine la curiosa cerimonia, che darò un’era. La duchessa di Calabria usci per la porta, cui sovrastavano le armi napoletane, e alle tre salì sul Fulminante. L’accompagnarono a bordo l’imperatrice e il principe Luigi. Il Fulminante seguito dal Tancredi, sul quale s’imbarcò un’altra parte del seguito, levò l’ancora alle 4 pomeridiane del primo febbraio, dal porto di Trieste, sotto il comando, come si è detto, del contrammiraglio Roberti. Il giorno innanzi, il vapore Tasso aveva lasciato Bari per rilevare la truppa di Capitanata e trasportare il corredo preparato a Manfredonia.

La partenza della duchessa dì Calabria fu telegrafata da Trieste a Bari, dove si dava l’ultima mano ai preparativi per il ricevimento della sposa. Ogni giorno arrivavano nuovi personaggi, e, tra i più notevoli, il marchese Imperiale, cavallerizzo maggiore; il marchese del Vasta, primo cerimoniere; il conte Statella, maresciallo di campo e cerimoniere di Corte soprannomerario, il generale Alessandro Nunziante, il principe di Ruffano e il generale Caracciolo di San Vito e il cavalier Giovanni Cassitto, appaltatore delle dogane e privative. Imperiale e Ruffano partirono insieme da Napoli, accompagnati dai dee impiegati della segreteria particolare del re, Giovanni Amati e Ruitz de Balestreros, che poi fu segretario particolare di Francesco II. Giunti a Foggia, ebbero ordine telegrafico di fermarsi colà, perchè a Bari non vi era modo di alloggiarli. Dopo qualche giorno Ruffano e Imperiale proseguirono per Bari, ma Amati e Ruitz tornarono a Napoli. Cassitto proseguì sino a Barletta, dove convennero, pochi giorni dopo da Bari, Murena e il Bianchini, per discutere circa alcuni provvedimenti per le saline e urgenti lavori di bonifica presso il lago Salpi, a difesa di Casal Trinità, che nei nuovi tempi si ribattezzò Trinitapoli. Furono ospiti in Barletta del marchese Bonelli, e il Cassitto in casa dei Perfetti, coi quali era in rapporto di affari, e poi di stretta parentela, dopo che Raffaele Perfetti, unico figlio di Pasquale sposò una delle figliuole del Cassitto, Enrichetta. Da Foggia parecchi servi di cucina, raggiunsero più tardi la Corte a Bari. Il re ordinò che a Bari si recassero alcune compagnie di [p. 471 modifica]granatieri della guardia reale, due squadroni di dragoni, nonchè cacciatori e gendarmi a cavallo. Rinascevano gli entusiasmi, che, per qualche giorno, lo stato di salute del sovrano aveva sopiti.


Il dì seguente, altre feste per l’arrivo degli arciduchi Guglielmo e Ranieri e dell’arciduchessa Maria. L’intendente, per ordine del re, andò a incontrarli a Giovinazzo. Gli arciduchi erano arrivati a Napoli, a bordo dell’Elisabetta, il 30 gennaio, e andarono subito a salutare la famiglia regnante di Toscana, la quale vi era giunta il 22, prendendo alloggio alla Foresteria, per assistere alle feste nuziali, non ostante l’ansia in cui viveva per la malattia della giovane arciduchessa Anna, moglie del principe ereditario Ferdinando. La famiglia granducale era quasi al completo. Oltre al granduca Leopoldo, alla granduchessa Maria Antonia, sorella del re, all’arciduca e all’arciduchessa ereditarii, all’arciduca Carlo e all’arciduchessa Maria Luisa, ultimi dei sei figliuoli di Leopoldo II, c’era un seguito numeroso. L’arciduchessa Anna, di 23 anni, sorella minore della duchessa di Genova, infermatasi a Firenze, era curata dai medici fiorentini Capecchi e Del Punta. Il granduca aveva chiesto al re un buon medico napoletano, e il re aveva mandato a Firenze don Franco Rosati, nel quale riponeva una fiducia assai maggiore che nel Ramaglia. Sotto le cure del Rosati la principessa parve guarita; ma quando la famiglia granducale venne a Napoli, il male riapparve e, in breve, degenerò in tisi. La curò anche in Napoli il Rosati, che abitava nello stesso palazzo della Foresteria, e si chiamò pure da Firenze il Del Punta, che giunse solo in tempo per firmare col Rosati gli ultimi bollettini. Morì il 10 febbraio; e, percossa da si grave sciagura, la famiglia non ebbe più l’animo di rimanere a Napoli. Fatto trasportare, due giorni dopo la morte, il cadavere della povera arciduchessa a Firenze, dove trovò sepoltura in San Lorenzo, l’addolorata famiglia partì, la mattina del 21 febbraio, imbarcandosi per Livorno. I napoletani restarono maravigliati della semplicità della Corte toscana. Il Granduca, noto nella Corte col nome di Popò di Toscana, per distinguerlo da Popò, conte di Siracusa; e l’uno e l’altro chiamati familiarmente dai figliuoli di Ferdinando II, zì Popò, faceva lunghe passeggiate a piedi, entrava nei caffè, pagando per lo più una piastra e rifiutando il resto. Cosi avvenne, che [p. 472 modifica]fu un giorno riconosciuto ai caffè di Testa d’oro e festeggiato dai camerieri e dal padrone. Un lungo viaggio da Firenze a Napoli, una grave disgrazia domestica e un ritorno malinconia) senza vedere nè i Sovrani, nè gli sposi, commossero profondamente gli animi de’ napoletani. L’arciduca Ferdinando si consolò però ben presto della perdita della buona e graziosa moglie, passando a seconde nozze, due anni dopo, colla figliuola della duchessa di Parma. Le maniere di lui, piuttosto rudi e qualche volta violente, mal si confacevano col carattere dell’arciduchessa, e quel matrimonio non fu modello di felicità coniugale. È morto nel 1908, e fu padre della contessa di Montignoso, ora signora Toselli.

Gli arciduchi d’Austria, dunque, giunti la mattina del 30 da Palermo, andarono il 31 a Caserta per visitare i piccoli principi e le principesse. Ne tornarono lo stesso giorno, assistettero, la sera, allo spettacolo del San Carlo e ripartirono, la notte, per Bari, con vetture speciali di posta. Avevano salute di farro e mantennero la promessa fatta al re, a Lecce, due settimane prima.


Quel giovedì 3 febbraio, fu una giornata di primavera. Il mare tranquillo aveva la sua caratteristica tinta azzurra carica, per cui si disegnavano, spiccatamente, sul lontano orizzonte, le ampie e bianche vele latine delle tradizionali “paranze„.4 Le strade, che conducevano a Bari, formicolavano di carrozze da viaggio e signorili, e di chars à bancs. Da ogni parte della provincia, ma soprattutto, da Barletta e da Trani, da Bisceglie e da Molfetta, da Bitonto e da Corato, da Terlizzi, da Mola e da Fasano, accorreva gente a frotte. I grossi casali intorno Bari rimasero quasi vuoti. Non duchessa di Calabria, non duchessa di Baviera, la sposa era stata battezzata col nome familiare di Maria Sofia. L’iperbole pugliese si sfogava [p. 473 modifica]ampiamente sai conto di lei. Nessuno l’aveva ancora veduta, ma tutti decantavano la bellezza, la nobiltà del portamento, l’aristocrazia delle maniere, i suoi gusti e l’eleganza delle sue acconciature. Nessuno l’aveva vista, ripeto, ma tutti ne parlavano, come se fossero stati a Monaco e ne avessero goduta la confidenza, e avidi aspettassero una parola, un segno, uno sguardo di considerazione benigna. Bari era splendida per movimento, non mai veduto; per l’importanza e il numero dei personaggi che ospitava, e per lo storico avvenimento che si compiva dentro le sue mura. Non vi era famiglia senza ospiti; e le case più distinte alloggiavano i personaggi di maggior conto. All’Intendenza, oltre alle Loro Maestà e ai tre principi, dimoravano, al secondo piano, gli arciduchi d’Austria e al mezzanino, il principe e la principessa della Scaletta. Il re, la regina e i principi occupavano tutto il primo piano, e l’ampia sala, che ora servò alle adunanze del Consiglio provinciale, era stata trasformata in salone da pranzo. All’Intendenza doveva prendere alloggio anche il seguito della duchessa di Calabria, onde non vi rimase camera vuota. L’intendente e la sua signora si erano adattati in due camere remote del secondo piano.

I preparitivi non avevano tregua. La commissione per le feste e particolarmente Enrico Capriati, dava prova di singolare abilità, dovendo provvedere a tante cose. Erano state nominate per i principi e gli arciduchi altre commissioni, e una di giovani delle primarie famiglie e più distinti negli studi. Ma una nota triste dominava in quell’allegria ufficiale: il re aveva passata la notte fra atroci sofferenze. Ramaglia adoperò tutte le risorse della professione per lenirgli i dolori, ma invano. Aveva la febbre, non trovava requie in letto, nè gli bastava la forza di stare in piedi. Dimagrava a vista d’occhio e le preoccupazioni morali rendevano più grave Io stato suo. Non era possibile che uscisse per andar incontro alla sposa, e neppure che si levasse un momento, per assistere alla benedizione nuziale, che si compiva a due camere di distanza dalia sua. Aver affrontato quel viaggio, nelle condizioni descritte, per prender parte al matrimonio del suo caro Lasa, e non potervi assistere, era ben doloroso, quasi straziante per lui. Alle dieci un colpo di cannone annunziò che il Fulminante e il Tancredi erano in vista. Mossero dal palazzo dell’Intendenza e s’avviarono al padiglione, [p. 474 modifica]appositamente eretto allo scalo, le autorità e i personaggi ufficiali in grande uniforme, il cerimoniere Statella, il sindaco Capriati e, insieme con loro, i vescovi della provincia, convenuti a Bari, non che monsignor Gallo, confessore della Regina, e monsignor Rossini, arcivescovo di Acerenza e Matera. Lungo il corso Ferdinando, erano schierate le truppe, sotto il comando del generale Caracciolo di San Vito; il padiglione di sbarco era custodito dalle guardie d’onore e dai granatieri, e i due moli del porto, dalle guardie doganali. I legni mercantili erano parati a festa e le bande musicali non cessavano di sonare l’inno borbonico, Appena il Fulminante dette fondo, furono sparati cento colpi di cannone dal castello, e ogni colpo veniva ripetuto dai grossi bastimenti e dalle barche doganali. Sin dalle prime ore della mattina, l’ampio Corso e la più ampia via della piazza coperta e le mura bizantine che scendono a picco nel mare erano gremite di una folla straordinaria e pittoresca.

Il corteggio reale era formato da dieci carrozze, circondate e seguite da guardie d’onore a cavallo. Era uno spettacolo imponente, ma il re non c’era. A spiegare i commenti della folla circa l’assenza dì lui, si fece correre la voce, che Sua Maestà non aveva voluto esporsi alla brezza marina, essendo ancora indisposto. Nella prima carrozza sedevano il marchese Imperiale, il duca di Sangro e il principe della Scaletta; nella seconda la regina e il duca di Calabria, in divisa di colonnello degli usseri, con la fascia di San Gennaro e il Toson d’oro; nella terza, i conti di Trani e di Caserta, coi colonnelli Cappetta e Nicoli; nella quarta, gli arciduchi Guglielmo e Ranieri e l’arciduchessa Maria, e nelle altre carrozze Murena, Bianchini in grande uniforme, la principessa della Scaletta, la baronessa Andriana, dama di compagnia dell’arciduchessa Maria, i generali Ferrari, Del Re e Nunziante, e i colonnelli Severino e Latour. Le carrozze procedevano lente, in mezzo al popolo festante. Giunti al padiglione, il duca di Calabria, la Regina, i principi e gli arciduchi, accompagnati dalla principessa della Scaletta, dal marchese Imperiale e dai generali Ferrari e Del Re, montarono su ricche lance e andarono a bordo. La lancia reale era comandata dall’ufficiale Vincenzo Criscuolo, figlio di don Raffaele.

[p. 475 modifica]Grande l’animazione a bordo della fregata. La duchessa di Calabria aveva un po’ sofferto lungo il tragitto; era piuttosto pallida, anche per l’emozione, e col binoccolo guardava la città, il porto e il padiglione. Più che dalle dame di compagnie, partite con lei da Trieste, era stata assistita da donna Nìna Rizzo, la quale non si tolse un momento dal suo fianco e, fin d’allora, prese su lei quel forte ascendente, che crebbe in seguito, come si vedrà. A lei, e al maestro di casa Leopoldo Raucci, Maria Sofia aveva più volte domandato, con infantile curiosità, durante il viaggio, se il duca di Calabria fosse veramente brutto, come n’era corsa voce a Monaco; e donna Nina e il Raucci l’avevano rassicurata che non era punto brutto ed era poi tanto buono; ma quando lo vide nella lancia reale, nel bel costume dì colonnello degli usseri, ne riportò una grata impressione, e andandogli incontro sulla scaletta, con molta disinvoltura gli porse la mano e lo salutò con queste parole: “Bonjour, Francois„, Ed egli afferrandole tutte e due le mani, la baciò in fronte, dicendole, non senza qualche imbarazzo: “Bon jour, Marie„, e rimasero soli a parlare in un angolo del bastimento, sino a che non fu tutto pronto per lo sbarco. La duchessa fu abbracciata e baciata da Maria Teresa, che le presentò i suoi figli, anch’essi in divisa militare. Le domande della duchessa non avevano tregua. Chiese della salute del re e mostrossi dolente dì non vederlo; chiese della città e di tante cose, alle quali domande Francesco rispondeva impacciato, sia per l’emozione di trovarsi innanzi alla sposa, più bella ancora del suo ritratto, sia perchè, pur conoscendo il francese, lo parlava con difficoltà. Poi si montò nelle lance e si scese a terra. Nel padiglione fu fatta la presentazione dei rispettivi seguiti e delle autorità; e indi con lo stesso ordine di prima, il corteo si diresse all’Intendenza.

La sposa vestiva un ricco abito da viaggio, con magnifiche pellicce, e fu naturalmente la più festeggiata. I suoi occhi neri, i copiosi capelli castagni, bizzarramente acconciati, l’alta ed elegante persona, l’espressione dolce e infantile del volto, l’aspetto di grande dama, le conquistarono ad un tratto le simpatie di tutti, che a coro la proclamarono bellissima, felicitandone Francesco. Le grida salivano al cielo, e gli applausi continuarono insistenti sino al palazzo, al cui balcone gli sposi, [p. 476 modifica]ohiamati dalle grida festive della moltitudine si dovettero ripetutamente mostrare.

Francesco non entrava nei panni dalla gioia, ma appariva impacciato come un collegiale. Il suo volto adorno di due baffetti neri nascenti, non era atteggiato ad altro sentimento che a quello d’una puerile contentezza. Ritiratisi dal balcone, il duca e la duchessa di Calabria, con Maria Teresa e i principi andarono nella camera del re. Fu commovente l’incontro fu quella giovane creatura, fiorente di salute e di brio, e il Sovrano, invecchiato dal male e sofferentissimo. Ferdinando II sì era levato a sedere sul letto; abbracciò la nuora e la tenne, qualche minuto, così abbracciata, piangendo per la commozione. Chiese notizie del viaggio e si scusò di averla fatta trattenere tanti giorni a Vienna. Conversarono insieme più di mezz’ora, con grande diletto tutt’e due, e sin da quel momento si stabilì, fra suocero e nuora, una simpatia vicendevole. Uscita dalla camera del re, la sposa si ritirò nel suo piccolo appartamento, per apparecchiarsi alla solenne cerimonia della benedizione nuziale, fissata per le due. Maria Teresa l’accompagnò nelle stanze a lei destinate, che erano le due a destra del salone con l’altra più piccola, quella d’angolo, trasformata in camera da toilette. Mattia da donna Nina Rizzo, mutò l’abito da viaggio in una ricchissima veste bianca, guarnita di merletti preziosi e con grande crinolina, calzò lunghi guanti bianchi e si attaccò al capo un tralcio di fiori d’arancio, al quale era raccomandato un lungo velo, che nascondeva i suoi splendidi capelli e scendeva sino a terra.


Alle due tutto era pronto per la cerimonia. Nel salone del palazzo era stato innalzato un altare con l’immagine della Vergine Immacolata, e un trono in velluto ricamato in oro per i Sovrani. Ai lati del trono, le sedie per i principi e gli arciduchi. Le autorità, i vescovi, i personaggi ufficiali stavano tutti al loro posto. Solenne il momento, ma non tutti eran composti a gravità, anzi molti ridevano, studiandosi di non farsi scorgere. Che cos’era avvenuto? L’irrequieto conte di Caserta aveva trovato modo di appiccare sull’uniforme di un alto funzionario una coda dì carta, e questo spettacolo, naturalmente, suscitava il riso di tutti. Nessuno osava togliere la coda, e fu un gentiluomo, che, accortosene, abilmente la strappò senza che quegli [p. 477 modifica]se ne accorgesse. Entrata nel salone la famiglia reale, tranne il re, gli sposi furono fatti sedere su due sedie, collocate di fronte all’altare. Monsignor Pedicini, assistito dai canonici metropolitani e dai palatini, celebrò la messa, fece un discorso d’ocoasione e benedisse gli sposi con l’acqua tanta. Poi fn cantato il Te Deum, durante il quale le navi da guerra fecero le loro salve, e le bande musicali suonarono l’inno borbonico. Compiuta la funzione, alla quale conferì maggiore solennità la benedizione papale, mandata per telegrafo da Pio IX, la famiglia rientrò nei suoi appartamenti, e Ferdinando II, cui era stato riferito il comico incidente, chiamato il conte di Caserta, lo rimproverò aspramente e gli inflisse tre giorni di chiusura in camera, che poi, a intercessione della madre, ridusse a uno solo. Il ragazzo raccontava egli stesso la storiella della coda e confessava che il re gli aveva detto: “Guagliò, sti scherzi non se fanno; so scherzi ’e lazzaro„.5

Venuta la sera, sulla piazza dì fronte al palazzo, brulicante di popolo e sfarzosamente illuminata, come tutta la città, s’innalzarono palloni in gran numero di forme svariatissime, tra uno strimpellare assordante di bande musicali. Più tardi, nella stessa piazza, da un coro formato di dilettanti, tutti con ceri accesi in mano, fu cantato, in onore degli sposi, un inno composto da Giulio Petroni e musicato dal maestro Curci, sull’aria dell’inno borbonico. All’Intendenza ci fu gran pranzo ufficiale, nel quale furono serviti i maccheroni di zita, secondo la tradizione dei matrimoni! meridionali, e preparati da Vito di Dio. Dopo il pranzo, il duca e la duchessa di Calabria andarono ad augurare la buona notte al re, che li abbracciò entrambi, e si ritirarono nelle loro stanze. La camera da letto degli sposi era la seconda a destra del gran salone, la stessa dove alloggiò re Umberto, l’ultima volta che andò a Bari, L’intendente, appena fu ufficialmente certo che la sposa sarebbe sbarcata a Bari, aveva chiamato il sindaco Capriati, per ordinargli di allestire in modo conveniente la camera nuziale. Il Capriati, che, proprio in quei giorni, aveva acquistato un ricco talamo per una sua nipote, lo mandò all’Intendenza. Biancherie e materasse vennero date da suo fratello Enrico. Sino alla camera da letto, gli sposi furono accompagnati dalla Regina, che li lasciò sulla [p. 478 modifica]soglia, dopo averli baciati. Nella camera nuziale non entrò col duca e la duchessa di Calabria, che donna Nina Rizzo; anzi, veramente, Francesco non entrò, ma attese, timidissimo, nella camera precedente, che la Rizzo gli annunziasse che la sposa si era messa a letto. Francesco continuava a mostrarsi stranamente confuso ed agitato, e passò il tempo a recitar preci, sino a che gli parve, che Maria Sofia avesse preso sonno, nè prima di allora, chetamente per non destarla, andò a letto. E così fu per tutto il tempo che stettero a Bari; il che spiega forse la tristezza di lei, il suo desiderio di svaghi d’altro genere, e il bisogno, che sentiva qualche volta, di piangere: tutte circostanze rivelate qualche anno dopo dalla Rizzo.


Le commozioni di quel giorno e l’abbattimento morale dei re, inchiodato in letto, fra tanta clamorosa gioia, ufficiale e pubblica, aggravarono rapidamente e in modo allarmante, le condizioni dì sua salute. La notte dal 3 al 4 febbraio, la prima della presunta luna di miele del duca e della duchessa di Calabria, fu angosciosa per lui. La regina e Ramaglia non si tolsero dalla sua camera. Il male faceva progressi, e le sofferenze dell’infermo diventavano insopportabili. Lontano dalla capitale, in una città di provincia, ben diversa da quella che è divenuta oggi, dove non tutto si poteva ottenere e dove non era possibile serbare il segreto, Ramaglia col solo aiuto del giovane dottor Capozzi, si trovava a disagio, nè voleva assumersi, più oltre, una grave responsabilità. La mattina del 5 febbraio disse alla Regina che sarebbe necessario chiamar da Lecce il dottor Leone, e coll’assenso del Re, da lei informatone, si telegrafò all’intendente Sozi Carafa. L’ordine di recarsi immediatamente a Bari sorprese il dottor Leone fuori di casa. Non ebbe neppure il tempo di correre a salutare sua madre; montò in carrozza e, la sera stessa, giunse a Bari. L’indomani ci fu lungo consulto tra lui e Ramaglia, ed entrambi non si nascosero la gravità del male, nè la difficoltà della cura, perchè cominciava a verificarsi qualche fenomeno di competenza chirurgica. Furono, due giorni dopo, chiamati a consulto il dottor Niccola Longo di Modugno, il dottor Vincenzo Chiaia di Rutigliano, residente a Bari, e il dottor Enrico Ferrara di Bitonto, tutti in fama di dotti medici, e al consulto assistettero U regina e il duca di Calabria, il quale, prima che il consulto [p. 479 modifica]cominciasse, intonò il Veni Creator Spiritus. Ramaglia fece una lunga relazione, ma ai tre nuovi medici dichiarò che loro non era concesso di visitare il re, per non procurargli penose emozioni. Tutti approvarono la diagnosi, che fu criticata più tardi, come quella che non aveva tenuto abbastanza conto dei fenomeni, che richiedevano la pronta mano del chirurgo. Si rimproverò a Ramaglia di non aver prevenuto il pericolo di un processo interno di suppurazione, nè intuito che la febbre era sostenuta dalla infiammazione dei muscoli posti in fondo e nella parte posteriore del bacino, per effetto degli sforzi enormi, che il Re aveva fatto, salendo prima su in Ariano e, poi su per l’erta, non meno faticosa di Camporeale, fra il ghiaccio della strada e il nevischio che cadeva abbondante. Il Longo, il Chiaia e il Ferrara andarono via dal consulto malcontenti e quasi mortificati dì non aver veduto l’infermo, non senza comunicarsi a vicenda i loro dubbii circa l’esattezza della diagnosi del Ramaglia, che pure avevano approvata.

I principi non parevano impensieriti della malattia del padre anche perchè s’imponeva loro di prender parte alle feste, per non accrescere le inquietudini e le prevenzioni. La sera del giorno 4, in cui maggiormente si accentuò il peggioramento, e giunse Leone da Lecce, il duca e la duchessa di Calabria, i principi, gli arciduchi d’Austria coi loro seguiti e tutti i personaggi ufficiali assistettero allo spettacolo, dato in loro onore al teatro Piccinni, illuminato a cera, con festoni di fiori e ghirlande e riboccante di spettatori. Le signore di Bari vi erano tutte, in acconciature vistose. Alle prime file della platea sedevano gli ufficiali superiori e le guardie d’onore, in grande uniforme, mentre i granatieri vi prestavano servizio d’onore. L’aspetto della sala era semplicemente magnifico. Tutti gli sguardi erano diretti alla duchessa di Calabria, che indossava uno splendido abito bianco, con ampia crinolina e portava al collo e sulla testa splendidi diamanti. Quando entrò nel palco reale, sorridente e un po’ impacciata, tutti si levarono in piedi e fu un applauso unanime, al quale ella rispose ringraziando più confusa che commossa. Un coro numeroso di signorine e di giovani dilettanti cantò un inno, composto anche esso dal Patroni e musicato dal De Giosa. Gli augusti personaggi si trattennero quasi sino alla fine, e gli stessi applausi, che li avevano salutati all’arrivo, li [p. 480 modifica]salutarono nell’uscire. Quello spettacolo pose fine alle feste nuziali. Nell’interno della Corte cominciò il giorno dopo un periodo di timori e di ansie, che non si riusciva più a nascondere.


I principi e gli arciduchi non trovavano distrazioni che le passeggiate per la città, e in brevi corse nei borghi vicini; e i principi, quando non uscivano, salivano sulla grande terrazza dell’Intendenza e si divertivano a saltare. Nei primi giorni, gli sposi non parteciparono a questi giuochi. Sofia avrebbe preferito uscire sempre a cavallo, ma non permettendolo il marito, usciva anche in carrozza. Le prime nubi fra loro ebbero origine da questo, nè alla Rizzo riusciva dissiparle. Dopo alcuni giorni, anche gli sposi presero parte alle birichinate dei principi. Uno degli scherzi preferiti, anzi quello prediletto dal conte di Caserta, era di andar a scostare i banchi dei letti dei famigliari, in modo che questi montandovi sopra, nell’andare a letto, ruzzolavano giù. In quell’agglomeramento di ospiti e di familiari nell’Intendenza, più volte ripetettero questo scherzo, che li divertiva tanto. E il conte di Trani ne fece uno più crudele al segretario generale dell’Intendenza, Giuseppe de Filippi, che era stato sottointendente a Melfi, e che, in occasione delle nozze, aveva, anche lui, pubblicato un sonetto apologetico a Ferdinando II. Era un brav’uomo, complimentoso e tutto inchini, il quale, durante il soggiorno del re a Bari, non smesse mai l’uniforme. Un giorno il conte di Trani chiese delle arance, e il De Filippi, invece dì ordinare a un cameriere di portarne in un vassoio, le portò egli stesso sulla terrazza. Questo eccesso di zelo, anzi di servilismo, indispose Luigi e Alfonso così al vivo, che decisero di liberarsi di lui su due piedi. Il conte di Trani invitò il De Filippi a partecipare al giuoco dei soldati, e il De Filippi non se lo lasciò ripetere. Lo mise prima sull’attenti, e poi gli ordinò di andare in avanti, sempre, sempre in avanti, sino all’uscio della scala, che il principe gli chiuse alle spalle con una grande risata. Non fu visto più, e i giuochi continuarono più liberamente.6 Maria Sofia si trovava volentieri in [p. 481 modifica]compagnia dei cognati, veri scolari in vacanza, i quali la chiamavano famigliarmente Sofia, e la distraevano dalle sue malinconie. Nel pomeriggio del 26, la duchessa e i cognati fecero una gita in mare, per divertirsi alla pesca. S’imbarcarono al nuovo porto nella lancia reale e non si allontanarono dalle acque della costiera, Alcuni pescatori, chiamati in utile aiuto, concorsero a rendere abbondante la pesca e furono regalati di trenta piastre. Un altro giorno, Maria Sofia offerse al marito e ai principi di preparar di sua mano una frittata, alla bavarese, per mangiarla a colazione. Detto fatto. Le fu portato, insieme alle uova, un braciere, sul quale fu posto un fornello, ma mancavano una padella e un cucchiaio. Si diè allora l’incarico al sindaco Capriati di scendere e comprare una padella e un grosso cucchiaio; e il sindaco, il quale era in abito nero e calzoni corti, essendo quel giorno di servizio, scese in piazza e compro l’occorrente, ma il risultato finale fu un fiasco: la frittata non riuscì, furono bruciati tre tovaglioli e bruciato il tappeto; si fè un gran ridere, e Maria Sofia rinunciò ad ogni pretesa di cuciniera. La padella, chiamata nel dialettale barese fresòla, fu conservata dal sindaco per memoria, e dalla vedova di lui, mia gentile amica, mi fa donata.


Le sofferenze del re non avevano tregua. Gli assistenti, nel voltarlo sulla branda, per fargli cambiar posizione, benché usassero tutte le cautele possibili, non riuscivano a calmare i suoi atroci dolori. Egli si adirava, li rimproverava, li minacciava anche, ma poi, calmatosi, chiedeva loro scusa e quasi perdono. Il dolore acuto al femore impensieriva i medici, che vi facevano applicare grossi empiastri di semi di lino. Ma l’osso non si sentiva più al suo posto, ed era cominciato, nella parte esterna corrispondente, un arrossimento, per il quale Ramaglia e Leone cominciarono a prevedere la possibilità di una pronta operazione chirurgica; ma nessuno di loro era chirurgo, nè era facile persuadere il re a farsi toccare dai ferri. Fu chiamato nuovamente il dottor Longo, che sulle prime si ricusò, dubitando che, neanche questa volta, [p. 482 modifica]gli avrebbero fatto vedere l’infermo; ma le insistenze dei parenti e degli amici lo indussero ad accettare l’invito. Fu subito introdotto nella camera del re, che gli porse la mano e lo pregò di procurare di attenuare le sue sofferenze. Il Longo osservò minutamente e lo rassicurò che sarebbe guarito, sottoponendosi a una cura rigorosa. Si tenne nuovo consulto fra lui, Ramaglia e Leone, alla presenza del principe ereditario. Il Longo manifestò il parere che la causa efficiente del male fosse un ascesso alla regione femorale, e perciò consigliava l’uso dei risolventi; e questi non riuscendo, disse creder necessaria l’opera del chirurgo. Ramagli non potè far a meno di convenirne; e pur non dando grande importanza all’ascesso, non disconobbe che si dovesse tenerle di mira.


Ferdinando II fini coi mostrar chiaramente di non aver più fiducia nei medici e nella medicina. Cominciò fin d’allora l’esposizione delle reliquie miracolose nella sua camera da letto, trasformata via via in un piccolo santuario. V’erano esposte immagini sacre, scapolari, pezzi di tuniche di santi, bottiglie di manna di San Niccola e di olio della lampada della Madonna di Capurso. Il re, nel parossismo del dolore, recitava, a voce alta speciali preghiere e invocava i santi e la Madonna Immacolata, nella quale aveva una divozione immensa. Era fiducioso di guarire, ma per opera della divinità, non degli uomini.

La sposa era arrivata, le cerimonie si eran compiute e la Corte non accennava a tornare a Napoli. La provincia era sempre in festa; e in quelle città, che la famiglia reale avrebbe toccato nel viaggio di ritorno, i preparativi non avevano fine. S’innalzavano dappertutto archi, toselli, bandiere e luminarie con lamparielli. Molfetta aveva costruito all’ingresso dalla parte di Giovinazzo, un grande arco di trionfo, sul quale era scritto: al re Ferdinando II, la devota Molfetta, e le autorità sì davano moto, e i seminaristi non avevano requie, perchè essi formavano l’ornamento maggiore della Città, e perciò destinati a tutti i ricevimenti. Ma il ritardo cominciava già a suscitare commenti, e le voci più strane circolavano: persino quella che la partenza fosse ritardata dall’imminente sgravo della regina, che non era incinta. Trani invidiava a Bari la lunga dimora della Corte, e un signore tranese scriveva in quei giorni ad un suo amico di [p. 483 modifica]Bari: “l’affare procede ben per le lunghe, poiché si parla di sgravo di S. M. la regina a Bari. Quanti piaceri per i baresi! Alla fine avranno pure il piacere che la Real principessa faccia la stessa funzione a Bari. Per ora si diverte a pescar merluzzi. Bisogna convenire essere una giovane molto virtuosa. A Trani almeno si sarebbero divertiti a vedere la gran copia di maschere, che la sera vanno girando e, dove si fermano, armano gran ballo„. Quell’arcivescovo si dava un gran da fare, nella speranza che il re passando per quella città si fermasse nel suo palazzo, e lo aveva alla meglio addobbato con mobili ed utensili presi a prestito dalle famiglie più agiate. Già nel 1836 Ferdinando era stato in quello stesso palazzo ospite dell’arcivescovo De Franci, suo istitutore e maestro.

Oltre il solito arco di trionfo e le solite luminarie, che si erano preparate per la città, facea molto parlare di sè l’apparato in legno, fatto costruire sulla facciata della propria casa, dal giudice regio, don Niccola Ferrara, famoso improvvisatore di versi, che si possono leggere dall’alto in basso dal basso in alto; da destra a sinistra e da sinistra a destra; uniti e divisi; ed in qualunque modo letti, sconclusionati sempre. Questo strano tipo, dunque, volendo farsi merito, ideò una specie di altare che chiamavano tosello, elevato sui balconi della sua casa, e ricoperto con drappo di damasco rosso e merletti del suo letto nuziale. Il tosello aveva la forma di un gran baldacchino, sormontato dalla corona regale, e nel mezzo due ritratti incorniciati delle LL. MM. E vi ardevano davanti nelle prime ore della sera, otto grandi torce a vento. Lo spettacolo durò quasi un mese, a capo del quale il povero Ferrara vide una sera andare in fiamme tutto l’apparato, per il forte vento che spirava. E questo fu l’incidente più comico di quel periodo a Trani. Gli altri magistrati della gran Corte civile e della penale, che allora vivevano con rappresentanza e carrozza, guardavano con un senso d’invidia lo sfarzo del giudice e non poco godettero del caso capitatogli. Ferrara aveva per i suoi versi una fama non dissimile dall’Ingarriga e dal Fenicia; ma, tranne questa debolezza, era un brav’uomo.


In Napoli, nonostante le notizie ottimiste del foglio ufficiale, e il silenzio serbato sulle vere condizioni di salute del re, [p. 484 modifica]cominciava a diffondersi la persuasione che si trattasse di cosa non lieve. Il Gropello ne informava il suo governo con rapporti del e 14 febbraio, dai quali però si comprende come, anche per la diplomazia, le notizie della malattia del re non fossero precise: difatti il Gropello accenna a febbri e ad un forte dolore reumatico al ginocchio e scrive: “la malattia di 8. M. il re perdura ognora con una certa intensità, la quale, se sino a questo momento non ispira alcun serio timore, non lascia però sperare un così pronto ristabilimento». Ma più che la malattia di Ferdinando II, il matrimonio del duca di Calabria con una principessa di Baviera, sorella dell’imperatore di Austria, doveva a ragione preoccupare l’animo di Cavour, poichè in quello stesso mese di gennaio si sottoscriveva a Torino il trattato di alleanza con la Francia, e a suggello di esso si stringevano ben altre nozze: quelle del principe Girolamo Napoleone con la figliuola primogenita di Vittorio Emanuele. Certo a Cavour, informato assiduamente delle cose di Napoli dal Gropello, premeva, a scanso di maggiori e più gravi complicazioni in Italia, che il matrimonio del duca di Calabria e lo stato di salute di Ferdinando II non potessero, come si sospettava, ad un’alleanza offensiva e difettiva fra il regno di Napoli e l’Austria; e che la presenza degli arciduchi nel Regno, e la loro prolungata permanenza a Bari rendevano verosimile: E perciò il Gropello, col suo rapporto riservatoci 22 febbraio, aveva giudicato necessario richiamare su questa circostanza la particolare attenzione del grande ministro, al quale scriveva cosi:


{{smaller block|style=font-size:90%|Oggetto delle preoccupazioni generali qui fra noi continua ad essere la malattia di S. M. Benchè non si abbiano sul particolare che pochi ed inesatti ragguagli, tuttavia però il silenzio che tiene il Giornale Ufficiale su questo importante argomento è sufficiente motivo a congettura che se la malattia non è letale, è però grave e di non così prossima guarigione. Gli animi della popolazione sono in sospeso, e gli affari rimangono così fattamente arretrati, che appena ciò è possibile in un paese come questo dove il governo di un sol uomo è portato agli estremi limiti dell’esagerazione.

Riesce di grave dolore e direi quasi di scandalo il vedere così lungamente prolungato in Bari il soggiorno degli arciduchi austriaci Guglielmo e Ranieri, non che dell’arciduchessa Maria, consorte di quest’ultimo. Sapendosi che il duca e la duchessa di Calabria sono continuamente attorniati dai precitati Principi austriaci, se ne teme e con molta ragione [p. 485 modifica]fatale influenza, e ciò tanto più che l’arciduchessa Ranieri ha voce di essere abile ed astuta assai in maneggi ed intrighi politici.}}

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È dunque ben presumibile che al conte di Cavour, non ignaro dei sentimenti liberali, che animavano il conte di Siracusa, dei suoi rapporti intimi col Gropello, e molto più delle influenze dei personaggi del suo circolo, e in particolare di Giuseppe Fiorelli suo segretario e di Alfonso Casanova, non si offrisse mezzo più efficace, che quello di adoperare lo stesso conte non solo al fine di conoscere quanto di vero fosse nelle voci che correvano sull’alleanza, ma ancora di stornarne il disegno. E difatti il conte parti per Bari il giorno 10, insieme coi capitano Ayala, suo cavaliere di compagnia, e giunse colà alle 7 pomeridiane del giorno 11. Alloggiò al secondo piano del palazzo dell’Intendenza. Vide prima la regina, poi Ramaglia e Leone, che lo informarono di ogni cosa, e lo pregarono di non mostrarsi quella sera stessa al re per non allarmarlo. Occorreva anzi prevenirlo con qualche studio. Il conte di Siracusa lo vide quindi la mattina seguente; e si racconta che, scendendo le scale per recarsi nell’appartamento del re, ordinasse alla sentinella, posta sul pianerottolo, di non gridare il saluto militare. L’incontro dei due fratelli fu commovente, si disse. Si abbracciarono a lungo, e il re apparve a don Leopoldo più disfatto di quanto questi avesse immaginato. Parlarono, da soli a soli, parecchio tempo, ed il conte usci con gli occhi gonfi e visibilmente triste dalla camera del sovrano. Durante il giorno, visitò la basilica di San Niccola, il porto, il castello, il teatro, e fatta una corsa a Carbonara e a Ceglie, riparti la mattina del 18. Ma in quell’ultimo colloquio il conte di Siracusa potè parlare al re di politica e di alleanza?. . . Certo è che la lunga permanenza in Bari degli arciduchi Guglielmo e Ranieri, che i loro legami di parentela non riuscivano interamente a giustificare, accrebbero i sospetti anche del pubblico, che i principi imperiali avessero, la missione veramente di stringere un’alleanza offensiva e difensiva fra l’Austria e il re di Napoli. Gli avvenimenti comunque incalzavano; tutto lasciava credere che l’imperatore Napoleone sarebbe sceso, nella imminente primavera, alleato del Piemonte e della rivoluzione, a cacciar l’Austria dal Lombardo-Veneto; e la grave minaccia contribuiva a ribadire, specie nei [p. 486 modifica]liberali, quei sospetti, ritenendosi che Ferdinando II non avrebbe lasciato sè e il regno senza difesa.

E v’ha di più. Bisogna ricordare che da dieci anni Ferdinando II non aveva ministro degli affari esteri ma un direttore, che fu costantemente il Carafa, fedele, ma passivo esecutore degli ordini di lui, e che spediva ogni giorno al re, durante l’assenza, una relazione minuta sulla politica estera, e ne attendeva gli ordini. Quando questi ritardavano, n’era desolato e correva dal Troja, il quale di politica estera non s’intendeva nulla, e che invariabilmente gli rispondeva: “Vui che dicite? scrivete a ’o re„»7 È anche probabile che, se nel febbraio dei 1869 vi fu qualche tentativo di alleanza fra Vienna e Napoli, il Carafa ne rimanesse completamente al buio; difatti, quando cessò di essere direttore degli affari esteri, giurava che la prolungata visita degli arciduchi a Bari, non ebbe altro scopo che il matrimonio del duca di Calabria e la salute del sovrano. Un altro rapporto del Gropello del 21 aprile quasi accerta, che il conte di Siracusa avesse preso un qualche impegno di disporre l’animo del nipote a sentimenti italiani. Non vi era più dubbio che Ferdinando II volgeva alla sua fine, e quindi appariva urgente influire sull’erede della Corona in modo, che l’indirizzo politico del nuovo regno, fin dai suoi primordii, non fosse contrario alle aspettative liberali. Già il Gropello, in un anteriore rapporto del 16 aprile aveva scritto: “Le intenzioni del Duca di Calabria sono imperscrutabili: a nessuno è dato prevedere quali saranno i primordii del nuovo regno, quali i consiglieri della Corona, e qual contegno politico si adotterà: perciò grandissima è la diffidenza, poche o nulle le speranze„.

Ma sembra purtroppo che don Leopoldo non riuscisse nella sua missione presso il nipote. Più che altro dovettero disanimarlo l’indole diffidente e frolla di Francesco, e la paura che ebbe di suo padre, fino a che questi chiuse gli occhi. Ecco la seconda parte del lungo rapporto del Gropello del 21 aprile:

S. A. R. il duca di Calabria per un sentimento di rispetto verso S. M. evitò ogni qualunque occasione, che mostrasse il proposito di volersi ingerire nella direzione delle cose politiche, sì interne che esterne. E ciò ben gli avvenne, imperocchè nei giorni in cui S. M. godette di quella crisi apparente, ripigliò di bel nuovo a sè la direzione degli affari, e tre giorni [p. 487 modifica]or sono firmò diciassette decreti: all’ultimo, sfinito di forze, cadde svenuto sul letto.

S. A. R. il Conte di Siracusa, per cagione dell’incertezza da me più sopra accennata e della diffidenza, in cui si tiene il duca di Calabria, non ha potuto finora adoperarsi per quello scopo di cui era parola negli ultimi miei dispacci politici.8

L’ombra triste del disinganno oscurava così l’ultima speranza, che Francesco sarebbe stato, per la salvezza del Regno e della dinastia, diverso da suo padre.



Note

  1. Ricevitore, son rovinato; mi sento la testa come un trombone.
  2. Ragazzo, che vuoi? Lasciami stare.
  3. Monsignore, sono mezzo morto.
  4. Son chiamate “paranze„ lungo tutto il litorale adriatico italiano, le barche da pesca, che vanno per il mare a coppie, essendo raccomandati i due estremi della rete a ciascuna di esse, e distendendosi questa nel mare intermedio fra le due barche. Le paranze pugliesi ai distinguono dalle marchigiane e dalle chioggiotte, per l’ampia vela tutta bianca, mentre queste hanno la vela gialla o rossastra, o variamente colorata con immagini sacre. La forma del bastimento è identica.
  5. Ragazzo, questi scherzi non si fanno; sono scherzi da lazzaro.
  6. Tommaso de Filippi, figlio di Giuseppe, pubblicò un opuscolo nel 1894 per infirmare la veridicità dell’aneddoto da me raccontato e rivendicare i meriti del de Filippi, quale pubblico funzionario. Egli muove dal presupposto, che io sia stato indotto a ricordar lo scherzo, per mal anime verso il padre di lui; il che è addirittura fantastico, com’è insussistente l’intenzione mia di detrarre alle benemerenze del segretario generale. Ebbi da persona, che era assolutamente in grado di dir la verità, il racconto della monelleria del conte di Trani, e ritenni di non trascurarne la narrazione.
  7. Voi che dite? Scrivete al re.
  8. Questi dispacci, di certo più confidenziali, non sono nell’archivio di Stato di Torino come gli altri, nè si è certi che si trovino nell’archivio segreto del ministero degli esteri. Non è ignota la infelice sorte, che ebbero i documenti diplomatici più riservati di quel periodo, che corre dal maggio 1859 a tutto il 1860. Ne parlai già nell’altro libro: Roma e lo Stato del Papa, pag. 60 e 61, vol. II, rivelando, con facoltà datami da Costantino Nigra, alcuni particolari interessanti circa il carteggio intimo di Cavour, il quale aveva l’abitudine di tenere presso di sè la corrispondenza diplomatica più gelosa, di guisa che, alla sua morte, di lettere, carte e fascicoli si trovò piena la casa, e ve ne fu deplorabile dispersione. Il Nigra non mi celava il sospetto, che i documenti, potuti recuperare con danaro dato da Vittorio Emanuele, fossero stati raccolti e chiusi nell’archivio segreto di Corte.