La fine di un Regno (1909)/Parte I/Capitolo XXII
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CAPITOLO XXII
Le feste per il matrimonio del duca di Calabria si succedevano in tutto il Regno, Tra i festeggiamenti ufficiali il re aveva, come d’uso, disposta la gran gala delle milizie, le salve dei castelli e la illuminazione dei pubblici edilìzi e dei teatri. Ogni giorno giungevano a Bari telegrammi di auguri e devozione. Ferdinando se ne compiaceva con la duchessa di Calabria, alla quale era largo di sollecitudini e di riguardi. La forma più notevole per solennizzare il matrimonio furono la concessione delle onorificenze cavalleresche, e le nuove nomine e promozioni nelle cariche di Corte. Il numero delle onorificenze, distribuite in una circostanza così solenne, oggi farebbe ridere; ma allora fu un avvenimento, perchè, come già ho detto, Ferdinando II era assai parco nel concederle. Furono decorati i capi di Corte, i ministri, i direttori dei ministeri, i diplomatici, nonchè gli arcivescovi, molti vescovi, alti magistrati, intendenti, sottointendenti e ufficiali superiori di terra e di mare. Alla magna infornata tutti gli Ordini, quali più, quali meno, contribuirono. Ebbero la gran croce di San Ferdinando il principe di Castelcicala, luogotenente in Sicilia, il principe di Bisognano, il duca d’Ascoli e il duca di Serracapriola; furono concesse trentadue fasce di San Gennaro, una delle quali toccò a Ferdinando Troja e altre ai cardinali arcivescovi di Messina, di Benevento e di Capua. Troja ne fu felice, perchè quella onorificenza era stata l’ambizione di tutta la sua vita. Le più numerose decorazioni furon conferite nell’Ordine di Francesco I, che era il più modesto, con quarantadue commendatori, sessantadue cavalieri dì primi classe e sessantacinque di seconda. Di questa onorificenza furono insigniti il sindaco e i componenti della commissione per le ferie di Bari, e tutti i vescovi e prelati che assistettero alla benedizione nuziale, tranne monsignor Mucedola, vescovo di Conversano. Al duca di Taormina, Carlo Filangieri, e al duca Riccardo di Sangro, il Re concesse gli onori personali di capi di Corte, e taccio le minori promozioni e le nuove nomine di dame, di gentiluomini di camera e di maggiordomi di settimana, con relativo strascico d’invidie e di maldicenze, benché la nobiltà napoletana e la siciliana avessero torto di mostrarsene insoddisfatte. Fra i maggiordomi di settimana furono compresi dei giovanotti, ancora imberbi, dell’aristocrazia napoletana e siciliana, i quali più tardi, figurarono negli alti uffici della nuova Italia.
Il male intanto progrediva. I medici si sentivano impotenti ad attenuare i dolori al femore e all’inguine, che non davano requie all’infermo, nè lo lasciavano riposare. Fu nuovamente chiamato il dottor Longo, il quale, per i suoi modi franchi e bonarii, aveva fatta buona impressione al Sovrano. Si limitò a prescrivere di nuovo un risolvente, ma in quel giorno e nel successivo, alla presenza del principe ereditario, dichiarò francamente a Ramaglia che, per dovere professionale e per declinare ogni responsabilità, credeva necessario procedere immediatamente all’operazione, potendo ogni altro ritardo riuscire fatale. Il Ramaglia si mostrò titubante. Uscendo dalle sale dell’Intendenza, il duca di Calabria raggiunse il Longo e gli disse: “Don Niccola, io non capisco niente; questa opposizione all’operazione mi scoraggia, il morbo cammina e le sofferenze aumentano. Io fido su di voi. Il re ha per voi molta deferenza, vi ascolta volentieri, parlategli chiaro, ditegli che l’operazione è necessaria e vi si deve procedere senza indugio». Il Longo promise che ne avrebbe parlato al re. Continuando intanto più fieri i dolori, rendendosi addirittura tormentose le facoltà digestive e crescendo l’irrequietezza dell’infermo, Ramaglia e Leone, di accordo con la regina, lo pregarono insistentemente di cambiar camera, anche per rinnovar l’aria; e ne scelsero un’altra esposta meglio tra mezzogiorno e ponente, la camera con due ampii balconi che guarda la presente piazza Massari. Ferdinando II vi si rifiutò da principio, ma alla fine parve piegarsi. Raffaele e Vincenzo Crisouolo, i quali erano giunti a Bari da qualche giorno e quasi non si toglievano dai fianchi del re, con l’aiuto di due marinai da loro dipendenti e con l’assistenza della regina e dei medici, sollevarono la branda dell’infermo. Nell’attraversare il salone dov’era una sua statua in divisa militare, Ferdinando II la guardò, e alludendo alle sue deperite condizioni, malinconicamente esclamò: “Ecco due statue„. Ma giunto che fu nella nuova camera, si diè a gridare che non gli piaceva, che c’era troppa luce, tropp’aria, e ordinò che lo riportassero in quella di prima. Nel ripassare per il salone, rivide la statua, e salutandola con la mano, disse con grande tristezza: Addio Ferdinando III». Tre giorni dopo, tornò il Longo a visitare il re, e udito che il risolvente, a base di mercurio, non aveva prodotto effetto, insistette nella necessità di una piccola operazione. Le frizioni di mercurio erano fatte dalla regina. Il re si scosse alle parole di Longo, anzi parve stranamente spaventato. Il coraggioso dottore non si perdè d’animo e soggiunse: “Maestà, la sventura vostra in questa contingenza è l’essere re. Se foste un infelice gettato in un ospedale, a quest’ora sareste probabilmente guarito„, Gli astanti erano stupiti da così brusca franchezza, e solo il principe ereditario approvava col capo. Il re, riavutosi dalla prima impressione, rispose: “Don Niccola, mo me trovo sotto; facile chello che vulite„. Si convenne allora per l’operazione. Si propose di chiamare un chirurgo da Napoli, ma la regina fece osservare che ciò avrebbe prodotto un allarme nella capitale e in tutto il Regno, e chiese quindi al Longo se in provincia vi fossero chirurgi capaci; nell’affermativa, quale credeva più adatto. Il Longo propose don Vincenzo Modugno di Bitonto, come colui che, alla scienza e al lungo esercizio, univa una mano invidiabile. Fu accettato; ma non se ne fece nulla, perchè la regina e Ramaglia presero ad insistere che si partisse a qualunque costo, mentre il re non voleva partire. Il suo orgoglio di Sovrano e il suo puntiglio di napoletano si ribellavano al pensiero che i liberali avrebbero gioito, vedendolo tornare a Napoli in quello stato. La burrasca politica d’altronde si addensava, e i rapporti di Carafa, sebbene all’acqua di rose, non lo lasciavano tranquillo. Giunse inoltre in quei giorni 1a notizia che i prigionieri politici, diretti in America, erano sbarcati in Irlanda e vi avevano ricevute accoglienze clamorose di simpatia, le quali a Londra raggiunsero le proporzioni di un pubblico avvenimento. Egli ne fa quindi stranamente turbato. Nè va dimenticato che non più di un mese prima aveva fatto rispondere da Bianchini al Broochetti, il quale riferiva le gran difficoltà, che incontrava a Cadice per farli partire, imbarcateli a qualunque costo. Nell’animo suo si combatteva pertanto una strana lotta di timori e di speranze. A vincere le riluttanze di lui, la Regina e Ramaglia fecero chiamare a Bari il padre Ludovico da Casoria, il quale parlandogli dei suoi doveri di principe verso Dio e verso i sudditi, e dei suoi doveri di capo di sì numerosa famiglia che adorava, lo consigliò, con efficace facondia di frate e di napoletano, alla partenza. Il re aveva nel padre Ludovico immensa fiducia, e le parole di lui finirono per persuadetelo, come al compimento di un dovere politico, religioso e domestico.
Fissata la partenza per i primi giorni di marzo, gli arciduchi austriaci lasciarono Bari il 24 febbraio, diretti a Napoli Il duca e la duchessa di Calabria, il conte di Trani e il conte di Caserta li accompagnarono sino a Moffetta. Le carrozze erano precedute e scortate da uno squadrone di dragoni. All’ingresso di Moffetta trovarono l’arco trionfale preparato per il re, ma in città non si fermarono, anzi l’attraversarono a trotto serrato, e gli addii fra i congiunti ebbero luogo al santuario della donna dei martiri, sulla via di Bisceglie. Al ritorno in città, il duca e la duchessa di Calabria e i principi furono ossequiati dallo autorità e da una folla più curiosa che espansiva. Io lo ricordo bene. I seminaristi erano schierati innanzi alla cattedrale e assistettero al duplice passaggio, che parve loro una visione.
Più utilmente erano andati a Molletta, a Trani a Barletta e in altre città vicine, il ministro Murena e il direttore Bianchini mandati dal re, perchè lo informassero circa le opere pubbliche più urgenti. Ebbero onori sovrani e si fermarono più a lungo a Barletta, visitando le Saline, e giudicando necessario un ponte sull’Ofanto. Osservarono i porti di Bisceglie e di Moffetta, l’ospizio di Giovinazzo e le carceri di Trani, dove li mosse a pietà un notaio novantenne quasi cieco, condannato ai ferri. Ne chiesero e ne ottennero la grazia dal re, anche perchè il gesuita padre Palladino, confessore dei prigionieri, dette buone informazioni di quell’infelice.
Fu deciso partire ai 7 di marzo, che cadeva di lunedì. Quattro giorni prima il dottor Longo tornò a visitare il re e trovò mutato tutto ciò che pareva già stabilito: non più operazione, ma immediata partenza. La regina appena lo vide entrare in camera, gli disse: “Don Niccola, abbiamo deciso di partire; collocheremo un letto in una messaggiera e vi adageremo il re„. Il dottore, maravigliato da così strana decisione, rispose che credeva un grave errore il viaggio, per la rigidezza della stagione e le scosse della vettura; ma poiché la regina aggiunse, quasi ironicamente: “Abbiamo due fregate a Manfredonia; non sarebbe neppur possibile servirci di esse per il viaggio?; il Longo fece le sue riserve con dignità e non disse altro. Lasciò il re quasi ebete dalle sofferenze. La febbre, sempre alta, cominciava con brividi di freddo e decadeva con profusione di sudori; il che indicava che l’assorbimento del pus si compiva lentamente. Longo non vide più l’infermo, ma dopo qualche tempo ricevette una grossa tabacchiera d’oro con brillanti, monogramma del Re e corona reale, accompagnata da una lettera cortese del principe ereditario. Tabacchiera di minor valore ebbero anche i dottori Chiaia e Ferrara.
Nelle acque di Bari giunsero da Manfredonia, la mattina del 6 marzo, il Fulminante e il Tancredi. Il primo aveva trasportato da Trieste la duchessa di Calabria e il secondo era la nave da guerra, destinata per il servizio dei re e della famiglia reale. Fu scelto il Fulminante, nave di maggiore velocità e grandezza, e però più adatta alla circostanza, anche perchè era stata per l’occasione rifatta a nuovo. Il Fulminante era comandato nominalmente dal viceammiraglio Federico Boberti, incaricato del real servizio, ma effettivamente dal capitano di Vascello Vincenzo Lettieri; n’era sottocomandaute Carlo Longo, ed aveva tra gli ufficiali Cesare Sanfelice, oggi ammiraglio in riposo, e per primo medico e chirurgo di bordo, un giovane molto stimato nell’arte sua, Cristoforo Capone. Il Tancredi era comandato dal capitano di vascello Ferdinando Rodriguez, ed aveva tra gli ufficiali Amilcare Anguissola.
Per risparmiare all’infermo scosse e sforzi, che avrebbero potuto riuscirgli fatali, si decise trasportarlo a bordo, nel suo stesso letto, coperto da una cortina. Si andò a verificare se la branda, su cui Ferdinando II giaceva, potesse entrare nel boccaporto a poppa, ma poiché questo fu trovato angusto, bisognò allargarlo a colpi di scure. Tutto questo servizio fu eseguito con esattezza e sollecitudine dai due Criscuolo, e con tanta discrezione che non se ne seppe nulla, mentre nel palazzo dell’Intendenza era un affaccendarsi di tutti per fare i bagagli Nessuno può dire quanta roba, in quella confusione, andasse smarrita o sottratta. Le famiglie baresi, che avevano dato biancherie, mobili e argenterie, potettero riaverle in parte e piatendo molto. L’avidità di alcuni familiari di Corte non conobbe limite, e qualche pezzo grosso non aveva ritegno di chiedere caciocavalli e barili di vino, per fare, come dicevano, le piccole spese.
La mattina della partenza, il re si sentì meglio. Ricorreva il penultimo giorno di carnevale, la temperatura era calda e il mare tranquillo. Le sofferenze erano un po’ diminuite nella notte, ed egli appariva sollevato di spirito. Volle mangiare la caponata, di cui era ghiotto e nessuno ardi opporsi a questo strano desiderio. La partenza fu fissata per l’una pomeridiana. Bisognava impedire le scene piazzaiuole dell’arrivo, e si ricorse ad uno stratagemma che pienamente riuscì. Le truppe si schierarono nella piazza dell’Intendenza, longo il corso Ferdinando sino all’imbarcatoio; nel porto ormeggiava il Tancredi con le bandiere spiegate. Il Fulminante, senza nessun segno di festa, era ancorato nel porto nuovo, A questi indizi! d’imminente partenza la folla sì precipitò per il Corso e in Piazza Ferrareccia, sui due moli del vecchio porto e su quel tratto di via della Muraglia, che dalla piazza conduce al fortino Sant’Antonio, credendo che di là il re sarebbe passato.
Alle 9 cominciarono ad uscire dall’Intendenza le vetture ed i carri che trasportavano i bagagli. Di tanto in tanto ne usciva qualche carrozza che andava all’imbarcatoio. La folla, credendo che in qualcuna di quelle carrozze dovesse essere il re, rompeva in atte grida, e tutti gli occhi erano rivolti all’ingresso principale del palazzo. Nessuno immaginava quel che avveniva dentro. Alle 11 e mezzo si aprì, quasi di soppiatto, l’altro portone dell’Intendenza, quello che dà sulla piccola via di San Domenico, e di là usci l’infermo, in barella, seguito dalla famiglia reale. La barella, coperta da una cortina a festoni bianchi e rossi, veniva portata a spalla da quattro marinai guidati dai Criscuolo, i quali dirigevano il trasporto. Il sindaco, l’intendente, il segretario generale, il comandante militare della provincia, il commissario di polizia e poche guardie d’onore precedevano il triste corteo. La regina era in abito nero, fra la duchessa e il duca di Calabria; venivano poi alcuni del seguito e i medici Ramaglia e Leone. Altri del seguito partirono il giorno stesso, per via di terra, e fra questi, il principe e la principessa della Scaletta, il duca di Sangro, Murena e Bianchini. Alla principessa della Scaletta che aveva interrogato il re, se desiderava che ella partisse per mare, il re rispose, celiando: “Iatevenne pe terra, ccà pe mare non ce sò taverne„.1 Il corteo sembrava un funerale. Giunto al bivio fra l’arcivescovado e la chiesa di San Vito, i marinai si dettero il cambio. Il re sollevò un lembo della cortina per guardare la facciata del duomo, ed Enrico Capriate, presente, potè sorprendere dalla espressione degli occhi e dal muoversi delle labbra, qualche preghiera. Alcuni, che per caso si trovavano a passare di là, si accorsero di tutto, ma il sindaco e l’intendente fecero loro cenno di tacere. Si riprese il cammino incontrando rarissime persone, e si giunse al porto nuovo, dove era stato costruito un piccolo ponte sino alla nave.
Il letto del re venne imbracato, sospeso e poi ammainato sotto coperta. La manovra avendo procurato un lieve movimento ondulatorio del letto, il re esclamò: “Vuie me facète cadè„,2 e quando la barella venne deposta sotto coperta, aggiunse: “Questa è l’anticamera della tomba„. Poi si congedò dall’intendente e dal sindaco, incaricandoli di ringraziare le autorità e i cittadini: “Manifestate a tutti — egli disse — il mio compiacimento e fate a tutti sapere, che se io non era alle feste con la persona v’era sempre col cuore„. Dal segretario generale De Filippi tolse speciale commiato colle parole: “Segretario generò, te so servo„. Pochi minuti dopo fu tirato dal Fulminante un colpo di cannone. Era il segnale che la nave levava l’ancora, ed al quale risposero le salve del castello. Le truppe schierate cominciarono a muoversi per tornare in caserma, e tutti capirono che la Corte si era imbarcata al porto nuovo. Fu una canzonatura ben condotta, che provocò anche dei fischi ad alcuni zelanti in giamberga, che tornavano dal vecchio porto con un palmo di naso.
Un’ora dopo che il Fulminante si era messo in rotta, il re fece chiamare l’ammiraglio Roberti, e da lui volle sapere chi fosse il primo chirurgo di bordo. Saputo ch’era un giovane molto bravo, di nome Cristoforo Capone, ordinò che fosse andato da lui. Al colloquio non fu presente alcuno. Il re accolse il Capone con queste parole: “Considera che io sono un marinaio, osservami e curami come faresti con un marinaio, ma dimmi la verità„ . Capone l’osservò, e tastando presso l’inguine, dove l’infermo accusava più acuto dolore, il re gettò un grido. La diagnosi non fu un mistero per il giovane chirurgo, il quale con tutta sincerità disse al Re trattarsi di una suppurazione presso l’inguine; essere la marcia, raccolta in quel punto, la causa delle sofferenze e della febbre; doversi subito procedere a una piccola incisione. Come senti parlare di suppurazione e di taglio, Ferdinando II si ricordò di quanto gli aveva detto il dottor Longo e diè in ismanie. Ramaglia e Leone, chiamati subito, riconobbero senza altro mistero l’esattezza della diagnosi, ma Ramaglia opinò che non ai dovesse eseguire l’operazione a bordo, e che, appena dopo lo sbarco, si sarebbe telegrafato ai chirurgi De Renzis e Trinchera di recarsi a Caserta. Il re parve acquetarsi, ma la regina mal celava le lagrime. Furono applicati grandi empiastri di farina di semi di lino, che preparò il Capone, sulla parte addolorata, e il Re vi trovò un po’ di refrigerio durante il viaggio.
Mercoledì, 9 marzo, che fu l’ultimo di quella navigazione tranquilla e senza incidenti, era il giorno delle Ceneri. Si celebrò la messa a bordo, sopra un altare collocato in modo che il re potesse vederlo. Vi assistettero la famiglia reale e il seguito. Celebrò il cappellano Capobianco e fungeva da chierico Giuseppe Turco, maresciallo di marina. Presero tutti la cenere; ma quando il cappellano si avvicinò al letto del re e, segnandolo sulla fronte, ripetette le parole di rito, l’augusto ammalato scoppiò in singhiozzi. Durante la traversata. Maria Sofia stette quasi sempre sopra coperta: seduta sopra un affusto di cannone, fumava le sue preferite sigarette, prendeva parte alle manovre della nave e pareva si deliziasse nella vista del mare infinito, più che nella compagnia del suo consorte, che le era sempre dintorno e le offriva dei bombons e le dava, furtivamente, qualche bacio in fronte o sui capelli.
Durante la navigazione, il Re fu sempre assistito dai due Criscuolo. Raffaele cercava distrarlo con le sue barzellette, che strappavano qualche sorriso al re, il quale lo chiamava Ras, nome, dato in Sicilia al comandante della “mattanza„ nella pesca del tonno. Criscuolo era del rione di Santa Lucia. Chiamava il re signò, non mai maestà; e, parlando coi terzi, lo chiamava 'o signore; come chiamava la regina, a signora; i principi, e signorini; oppure e guagliuni; e le principesse, e piccirelle, quando di loro parlava col re. L’intimità nella quale egli viveva con tutta la famiglia reale, era pari alla devozione, ma non ne abusava. E il re era tanto convinto della fedeltà di lui e di suo figlio Vincenzo, che fece partire sul Fulminante don Raffaele, perchè guidasse lui la lancia, che doveva imbarcare Maria Sofia a Trieste, e volle che la lancia la quale doveva sbarcarla a Bari, fosse comandata dal figliuolo Vincenzo. Ed anche il vapore, sul quale s’imbarcò Maria Teresa coi figli quando fuggi a Gaeta nel luglio del 1860, era comandato da Raffaele, come il vapore, sul quale Francesco II s’imbarcò a Napoli, il 6 settembre dello stesso anno, era comandato da Vincenzo. Dal giorno dell’arrivo di Maria Sofia, i due fedeli servitori non lasciarono un solo istante l’infermo, sino alla sua morte.
I Criscuolo seguirono a Roma Francesco II. Ed ecco un aneddoto esilarantissimo, che rivela quanta fosse la familiarità tra don Raffaele e i principi, e rivela pure il genere degli scherzi usati nella Corte borbonica. Raffaele abitava un quartierino nel soffitto del palazzo Farnese. Era un dopo pranzo di estate, ed egli, secondo il costume napoletano, s’era messo a letto. I più giovani fratelli del Re allontanarono con un pretesto un cameriere; e, preso un asinelio dalla scuderia, lo portarono nella camera dove Criscuolo riposava; lo trascinarono presso il letto e lo legarono in modo, da costringerlo ad alitare sul volto di lui. Poi si nascosero, aspettando che Raffaele si destasse; nè attesero molto, perchè il vecchio marinaio si svegliò di soprassalto e per primo atto, tra veglia e sonno, lasciò colla mano andare un colpo all’asino. I principi scoppiando in fragorose risa se la battettero, ed allora don Raffaele, buttatosi giù dal letto, fece mostra di prendere una pantofola per inseguirli. Ma non avendo potuto raggiungerli, li caricò di contumelie, e sentendo che anche le principesse ridevano, inveì contro di loro dicendo: “Vì che te fanno ste ciantelluzze; se v’afferro, ve faccio ricordà ’e peresicche che ve reva a Napoli„.3 Il giorno seguente, Francesco II, anche lui a parte della baia, disse a Criscuolo: “Ras, ho saputo che non mi sei più fedele, tu mi nascondi una cosa„. E Criscuolo, fattosi serio in volto, rispose: “Signò, non pazzià accussì„.4 E il Re di rimando: “Ho saputo che jeri hai ricevuto una visita nella tua stanza e non me ne hai informato„. Don Raffaele capi e sorrise. Rozzo e bonario, egli era abile e coraggioso uomo di mare e non una, ma cento volte, avrebbe data la vita per il suo Re. Lo soprannominavano don Raffaele la lancia, perchè comandante della lancia reale; era cavaliere e direttore delle reali pesche.
Dopo cinquanta ore di viaggio, durante le quali il Tancredi navigò a poca distanza dal Fulminante, alle due pomeridiane, si giunse alla “Favorita„. Alle tre e mezzo con un treno speciale si arrivò a Caserta. Dalla stazione alla Reggia il Re fu portato, nello stesso suo letto, da quattro marinai agli ordini del Criscuolo.
Entrando nel palazzo reale, e prima dì farsi condurre nel suo solito appartamentino del pianterreno, il re alzò la cortina e salutò con la mano i familiari. Furon tutti compresi dì spavento e di pietà; i più vecchi servitori piangevano, rivedendo in quello stato il re che, due mesi avanti, fiorente di vita e di vigore, aveva lasciato Caserta, precorrendo col pensiero la gioia di un lieto avvenimento. La scena era triste, ma divenne pietosa quando i principi e le principesse corsero ad abbracciare i genitori. Il re abbracciò e baciò più volte i figliuoli, piangendo e piangevano anch’essi nel vedere il padre così mal ridotto. Per timore che la prolungata commozione aggravasse le condizioni del re, la regina tolse dalle braccia di lui i più piccini e li condusse fuori. Il piccolo conte di Bari, don Pasqualino, che aveva sette anni, si diè a fuggire per il vasto palazzo, vi si smarrì nè fu ritrovato che un’ora dopo. Accanto ai re rimasero, oltre alla regina, i figli maggiori, i Criscuolo, i medici Ramaglia, Leone e Capone, e verso sera giunsero da Napoli don Franco Rosati, don Felice de Renzis e don Stefano Trinchera, i quali, udita la relazione di Ramaglia e di Leone e visitato l’infermo, convennero trattarsi di uno dei più gravi casi di coxalgia, con sospetti di piemia: doversi, senza indugio, operare un primo taglio alla coscia.
Nel suo appartamentino il re stette pochi giorni. Fu poi trasportato al primo piano nobile, nella camera ch’è la settima a sinistra del gran salone centrale, giudicata più salubre e più comoda. Quella camera è davvero molto ampia, con due finestre e quattro porte. Due di queste comunicano con le sale accanto, e due coi gabinetti da bagno e da toilette e col guardaroba. Oggi è assai diversa da allora. Il letto, i mobili e le tappezzerie che vi erano, furono bruciate dopo la morte del re, ritenendosi infettiva la malattia di lui. Venne tolta e bruciato anche la tappezzeria in seta della camera precedente, perchè di là passò il cadavere, quando, per la scala segreta, fu disceso giù nel portone a sinistra, donde venne trasportato alla ferrovia. Il letto era accosto al muro, dov’è oggi uno specchio in faccia di chi entra: letto basso, ad una piazza e mezza, poca più ampio della branda di Lecce e di Bari. Oggi quella camera seguita a essere da letto, ma il letto sta nel mezzo e guarda le due finestre. Vi dormì il principe Amedeo con la principessa Letizia, appena dopo il loro matrimonio. Come camera da dormire, è veramente la più bella, e aveva fin d’allora i cessi con acqua scorrente e un ascensore a mano. Le camere che seguono; fra le quali i due gabinetti detti degli specchi, con splendidi decorazioni di stile Luigi XV, sono oggi nelle stesse condizioni. Il duca e la duchessa di Calabria presero stanza allo stesso piano nobile, nel grande appartamento a destra, dalla parte opposto alla camera del re. Quell’appartamento si conserva oggi tal quale, col letto nuziale, gli specchi, i quadri, le immagini sacre, la toilette di marmo, la vasca di porfido per il bagno e la scrivania, che servì al duca di Calabria e che era servita a Murat. Vi è inoltre la tavola barocca con miniature di costumi fantastici donata dal Corpo della città di Napoli al duca di Calabria in occasione dalle sue nozze.
L’appartamento molto soddisfece la duchessa di Calabria. Per lei, il passaggio delle due infelici camere dell’Intendenza di Bari, che formarono nei primi trenta giorni della supposta luna di miele tutto il suo mondo, alla nuova dimora, fu una sorpresa che non immaginava. Il palazzo dì Caserta, con i giardini, il parco, la cascata, il lago, i romantici viali, la libertà, grande, le lunghe passeggiate e le clamorose ciucciate quotidiane, rappresentavano per la giovane sposa una certa felicità, e se ne mostrava quasi riconoscente con la Rizzo, la quale aveva a lei tanto decantata quella dimora, per distrarla nei malinconici giorni di Bari. I cognati Luigi e Alfonso, ai quali si aggiunse Gaetanino, di tredici anni, loquace e fantastico, facevano a gara per divertirla. Anche le due maggiori cognate le si mostravano molto affettuose, sebbene fossero poco espansive e ritraessero l’indole schiva e fredda della loro prima camerista, donna Antonietta de Palma. Maria Annunziata aveva sedici anni e Maria Immacolata, quindici. Le altre due erano fanciullette, e piccino l’ultimo figliuolo Gennaro Maria, anzi don Gennarino, conte di Caltagirone. Ma la passione più forte della duchessa di Calabria, che si rivelò subito a Caserta, fa quella dei pappagalli e dei cani. I pappagalli salirono a dodici. La maggior parte del suo tempo ella lo consacrava alla cura di quell’uccellame, compiacendosi a imparar loro parole tedesche, che, straziatamente ripetute, provocavano la sua ilarità: la sola ilarità alla quale fu vista abbandonarsi. Anche in compagnia dei suoi giovani e rumorosi cognati non mutò il suo contegno, che se talvolta pareva inconsapevolezza, o infantile inesperienza della vita, più spesso era malinconia. Vi erano giorni, nei quali non usoiva dal suo appartamento e non scambiava una parola col marito. Unica confidente, la Rizzo, alla quale e al Raucci, suo maestro di casa, uomo prudente e fedele, aveva più volte detto: Se avessi le ali, me ne volerei al mio paese„. La Rizzo ne intendeva la ragione intima, ma non osava confessarla ad alcuno; era incerta sul partito da prendere, anche perchè Ferdinando II peggiorava di giorno in giorno, nè a lei, cameriera, non camerista, era concesso giungere sino al re; e molto meno si fidava della regina, sapendo quali erano i veri sentimenti di lei verso il duca e la duchessa di Calabria. Decise finalmente di confessar tutto al padre Borrelli, il quale, da uomo di mondo, le ingiunse il silenzio, lasciando a lui la cura di provvedere, e pare che non Benza difficoltà ne fosse finalmente venuto a capo...!
Tornato il re a Caserta, cominciò il viavai dei ministri, dei direttori, dei grandi dignitari e delle principali autorità, Vi furono quasi immobilizzati il marchese Imperiale, e il duca d’Ascoli, sonagliere del corpo, nonché i membri del gabinetto particolare del re sotto la direzione del colonnello Severino. Il principe di Bisignano, maggiordomo e il marchese del Vasto, andavano e venivano. Dei ministri, si vedevano più sovente il presidente del Consiglio e i ministri della guerra e delle finanze; dei direttori, il Bianchini e il Carafa, ma con maggiore frequenza il Carafa che vedeva ogni volta il re da solo a solo. Egli riferiva le notizie dell’estero, e dava specialmente comunicazioni dei dispacci di Antonini da Bruxelles e di Canofari da Torino, che erano i più interessanti. Spesso andava alla firma reale Gaetanino Zezon, il quale aveva spesata una figliuola del generale Carrascosa, e questi, scrivendo ai genero, chiudeva sempre!s suo lettere con le parole: “Non dimenticare di baciare per me la paffuta mano di Sua Maestà„. In uno dei primi giorni, quando ancora il re conservava un resto del suo paternopeo stoicismo, Zezon gli lesse il brano della lettera del suocero, e il re, guardando la mano diventata scarna, disse: “Paffuta, paffuta, quale ironia! la carne è andata e non resta a pensare che allo spirito; Gaetanì, damme nu siqarro„5 E avuto il sigaro, lo accese nervosamente, confessando che solo nel fumo dei suoi prediletti sigari napoletani, trovava un conforto alle sue atroci sofferente.
Non era iperbole quanto scriveva il Giornale Ufficiale, che il re, benchè gravemente infermo, seguitasse ad occuparsi degli affari dello Stato. Il governo di esso era tutto accentrato in lui. Gli avvenimenti precipitavano. Antonini e Rezza scrivevano da Parigi e da Bruxelles non essere dubbio che l’imperatore sarebbe calato in Italia a far guerra all’Austria e, con maggior inviluppo di parole, scriveva le stesse cose Canofari da Torino. Si era alla metà di marzo. La Russia aveva proposto un Congresso per la questione italiana, e la Francia aveva dichiarato di accettarlo. Carafa assicurava il re che il Congresso avrebbe sciolto il nodo; il ministro di Napoli a Pietroburgo mandava le stesse assicurazioni, ma Antonini manifestava i suoi timori che l’adesione della Francia al Congresso non fosse sincera. La Corte d’Austria faceva noto al re di Napoli di aver aderito al Congresso, a patto che si limitasse alle cinque grandi potenze: Russia, Austria, Francia, Inghilterra e Prussia; di esser disposta a mutare i trattati italiani, ma rimanendo colla mano sull’elsa della spada. Cavour, dal canto suo, si agitava senza posa, affermando dover il Piemonte intervenire con voto deliberativo; non potersi discutere delle cose d’Italia senza il rappresentante della sola potenza, la quale, nel Congresso di Parigi aveva sollevata la questione italiana, discutendola, da pari a pari, con i rappresentanti dei grandi Stati. L’atteggiamento del Piemonte molto impensieriva il re di Napoli, che in esso vedeva fin dal 1848 il suo peggiore nemico, ne diffidava in tutte le maniere e non celava le sue diffidenze, sempre imprudenti e spesso volgari. Sebbene, per la pace del suo spirito affranto dal male, Ferdinando II inclinasse a un certo ottimismo, non era tranquillo, ed al Carafa ordinava di non nascondergli nulla, anzi di portargli a leggere, originalmente, i dispacci dei ministri napoletani presso le Corti di Europa, ma soprattutto quelli di Antonini, di Canofari, e di Petrulla, non che quelli di Zezza, rimasto a Parigi come agente ufficioso. L’agitazione sua cresceva di giorno in giorno e sinistramente influiva sulla malattia, che andava assumendo un carattere sempre più grave.
Il 21 marzo giunsero a Napoli da Palermo il granduca Costantino di Russia, la famiglia e il numeroso seguito, e furono ricevuti con dimostrazioni d’onore. Il conte d’Aquila, viceammiraglio, si recò a complimentarli a bordo. I granduchi presero stanza nel palazzo reale del Chiatamone e il seguito alla Foresteria. Il re destinò ad accompagnarli il marchese De Gregorio, maggiordomo di settimana, e la principessa d’Angri, dama di Corte, Il 24 marzo, con treno speciale si recarono a Caserta, e il re ebbe dal granduca assicurazioni esplicite circa il mantenimento della pace. Le grandi potenze avevano aderito alla proposta del Congresso, fatta dalla Russia; e se Napoleone III non era sincero, lo era l’Inghilterra; la missione di lord Cowley a Vienna poteva dirsi riuscita, poichè l’Austria dichiarava di non aggredire il Piemonte e di accettare il Congresso per discutere la questione italiana. La visita fu lunga e parve cordialissima anche da parte dell’arciduca, per quanto costui non nudrisse sentimenti di benevolenza per il re, come aveva dimostrato a Palermo. Il 26, poco dopo il mezzogiorno, il duca e la duchessa di Calabria, i conti di Trani e dì Caserta, con numeroso seguito di dame e cerimonieri, restituirono la visita a Napoli. Era la prima volta che Maria Sofia si mostrava per le vie di Napoli in forma ufficiale, ed ebbe un gran successo di simpatia e di ammirazione. Gli applausi clamorosi, ai quali non era abituata, la stordivano: tornò a Caserta, compiaciuta di Napoli e dei napoletani.
Il 30 marzo giunsero in istretto incognito da Roma il re e la regina di Prussia, sotto il nome di conte e contessa di Zollern. Alloggiarono all’albergo d’Inghilterra alla Riviera, e visitarono i dintorni, fermandosi a Pozzuoli e a Baja; videro il Museo e il grande archivio, dove furono ricevuti da Bianchiti e dal principe di Belmonte, che ne era il sopraintendente. Rimasero incantanti del soggiorno di Napoli. Nonostante il loro stretto incognito, Ferdinando II volle che il duca e la duchessa di Calabria andassero a salutarli a suo nome, due giorni dopo l’arrivo, il primo di aprile. Vi andarono, e la principessa ereditaria apparve enchantée di quella seconda gita a Napoli. I Sovrani di Prussia resero la visita alla famiglia reale a Caserta, ma non videro il re. Il duca di Calabria e i conti di Trani e di Caserta li ricevettero alla stazione, e alla regina e al principe ereditario essi non risparmiarono cordiali dichiarazioni della parte che prendevano al dolore della famiglia reale, benaugurando per la prossima guarigione del re. Al duca di Calabria poi Federico Guglielmo diè incarico di rassicurare Ferdinando II, che la pace non sarebbe turbata, e che tutto lasciava sperare un lungo periodo dì tranquillità. Rinnovati gli augurii e le cortesie, tornarono a Napoli, riaccompagnati sino alla stazione di Caserta dai principi e dalla duchessa di Calabria, che ormai rappresentava la sua parte ufficiale, ancora con qualche imbarazzo, ma non senza grazia. Tante assicurazioni di pace tranquillavano assai poco il re che le vedeva distrutte dai fatti, i quali rapidamente si succedevano.
Il 17 aprile, i granduchi di Russia lasciarono Napoli e il giorno dopo partirono i sovrani di Prussia. In Europa gli armamenti continuavano, e il 16 aprile l’Austria poneva il disarmo del Piemonte come condizione imprescindibile per il Congresso. Il giorno 20 si mobilizzava l’esercito francese; il 27 accadeva la rivoluzione militare a Firenze, con la partenza del granduca, e il 29, il conte Giulay lanciava ai popoli sardi da Milano quel celebre proclama, col quale si affermava di non portar “guerra ai popoli nè alle nazioni, ma a un partito prevaricatore, che sotto il manto specioso di libertà avrebbe finito per toglierla ad ognuno, se il Dio dell’esercito nostro non fosse anche il Dio della giustizia„. La procella si addensava inesorabile, e Ferdinando II procedeva oramai verso la sua fine.
Note
- ↑ Andate per terra, chè per mare non vi sono taverne. Antica e semre riva espressione dialettale, per significare i pericoli di un viaggio per mare.
- ↑ Voi mi fate cadere.
- ↑ Vè che ti fanno queste pettegole: se vi afferro, vi fo ricordare le sculacciate che vi davo a Napoli. Parole che rivelano fa troppa familiarità tra il vecchio marinaro e la famiglia reale. Peresecche è un’espressione volgare, che vorrebbe dire, in italiano, pere secche, ma che, nel gergo figurato dialettale, vuol dire sculacciate o pizzichi forti.
- ↑ Signore, non scherzare così.
- ↑ Gaetanino, dammi un sigaro.