Atto I

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Personaggi Atto II

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ATTO PRIMO.

SCENA PRIMA.

Camera di donna Giulia, con tavolino e sedie.

Donna Giulia e Fabrizio, ambi seduti al tavolino.

Fabrizio. Questa è la lettera che va al marchese di Cappio.

Giulia. Sentiamo. Illustrìssimo Signore, Signor mio colendissimo. Perchè non ci avete messo il Padrone?

Fabrizio. Perdoni; mi pare che scrivendo una dama ad un cavaliere che non è più di lei, non le convenga usare questo titolo di umiliazione.

Giulia. No, no, io penso diversamente. Se esaminiamo i titoli che si danno, e quelli che si usano nelle soscrizioni, sono per lo più eccedenti alla verità, e qualche volta contrari all’animo di chi scrive. Ma dall’uso ne è derivato l’abuso. Mio Signore e mio Padrone suonano l’istessa cosa, e siccome questo titolo [p. 198 modifica] duplicato a me niente costa, e niente reca di più a chi scrive, io soglio usarlo prodigalmente. Molto più volentieri abbondo in termini di rispetto e di umiliazione con quelle persone dalle quali desidero qualche cosa, e spesse volte un titolo rispettoso, un’espressione di stima, move l’animo di chi legge, e ricompensa l’onore col benefizio. Io son contenta finora del mio sistema. Non ho mai trovato che la cortesia mi pregiudichi. Ho riscosso dagli altri quella civiltà medesima che ho praticata. Ho mantenute non solo, ma aumentate di giorno in giorno le corrispondenze, e sono a portata di far piacere agli amici, di far del bene ai raccomandati, e di superare qualunque impegno.

Fabrizio. Savissimo è il pensamento della padrona; ma mi permetta il dirle, che il signor don Properzio pensa molto diversamente.

Giulia. Sì, mi è noto il costume di mio marito. Ei scrupoleggia sopra tutte le cose.

Fabrizio. Io non mi pregio di essere un buon segretario; ma per il lungo uso di tal mestiere, mi lusingo di saper formare una lettera. Eppure qualunque volta ho avuta l’occasion di servirlo, mi è convenuto correggere, mutare, ricominciare da capo. Parlo con tutto il rispetto, egli è sofistico al maggior segno (o per meglio dire, è il maggior seccatore di questo mondo).

Giulia. Sì, avete ragione. Ma lo soffro io; lo potete soffrire anche voi. Sentiamo che cosa avete scritto al Marchese. Sono sensibilissima alla cortese maniera ed alla singolare prontezza, con cui V. S. Illustrissima si è compiaciuta di favorire il mio raccomandato. Egli riconosce dalla di lei protezione la carica di Auditore che ha conseguito, ed io le resto in debito per quella benignità con cui le è piaciuto d’accogliere e di secondare le mie premure. Si accerti che niente più desidero, oltre il fortunato incontro di corrispondere coll’esecuzione di qualche di lei comando, e di manifestarmi coll’opere, quale piena di stima e di rispetto ho l’onore di protestarmi. Va benissimo. (vuol sottoscrivere)

Fabrizio. Perdoni. Non vuol ch’io rifaccia la lettera per la mancanza del titolo di Padrone? [p. 199 modifica]

Giulia. No, no, la penna ed il temperino possono di quel secondo Signore formar Padrone. Parmi che la fatica v’incresca, e non vorrei che mi diceste sofistica, con quella facilità con cui l’avete detto al padrone. (sottoscrive)

Fabrizio. (Ha saputo trovar il tempo per rimproverarmi. Donna Giulia è una dama di spirito. La servo assai volentieri; ma con suo marito non si può vivere).

Giulia. Rispondete a quest’altra lettera. Il barone di Sciarnechoff mi scrive, come vedrete, che la Corte di Peterburgh ha bisogno di un poeta drammatico, e siccome l’ho io servito in altre occazioni di sua premura, mi fa la finezza in quest’incontro di riportarsi a me nella scelta. Scrivetegli ch’io lo ringrazio, che cercherò di servir la Corte e le di lui premure nel miglior modo, e che quanto prima ne avrà sicuro riscontro.

Fabrizio. Perdoni. Crede ella che potessi io esser degno di tal impiego?

Giulia. Io non ho mai saputo che voi siate poeta.

Fabrizio. Ho qualche diletto per la poesia.

Giulia. Drammi ne avete fatti?

Fabrizio. Per dire il vero, non mi sono in ciò esercitato. Ma con un poco di lettura ed un poco di studio, credo non sia difficile poter riuscire in un paese dove non vi può essere tutta la delicatezza italiana.

Giulia. No, no; vi consiglio di abbandonare questo pensiero. Se avete piacere di essere impiegato ad una Corte, cercherò di procurarvi qualche occasione più adattata all’abilità vostra. La Corte di Moscovia è assai colta per distinguere i buoni ed i cattivi poeti, e noi dobbiamo cercare di mantenere presso degli esteri la riputazione del nostro paese, e non mandar persone che ci facciano scomparire.

Fabrizio. Dice benissimo, signora. Confesso il mio torto, e mi raccomando alla di lei protezione.

Giulia. Prima per altro che rispondiate a questa lettera, s’ha da rispondere ad un’altra, che mi mette in maggior pensiere.

Fabrizio. Procurerò di farlo colla maggior attenzione. [p. 200 modifica]

Giulia. Mi preme tanto l’affare di questa lettera, che ne voglio prima l’abbozzo, non solo per ridurla a quel punto che io desidero, ma per conservarne presso di me la memoria.

Fabrizio. Ella sarà servita, come comanda.

Giulia. È necessario ch’io v’informi del fatto, perchè possiate capire la mia intenzione. Voi conoscerete don Alessandro.

Fabrizio. Sì, signora. Non è quegli che dee maritarsi con donna Aspasia?

Giulia. Sì, è desso, che mi vuol mettere nel maggior imbarazzo del mondo. Ho maneggiato io quest’affare, e dopo infinite difficoltà ho condotto a buon termine il maritaggio. Ora questo giovane cavaliere trova ogni dì de’ pretesti nuovi per dilazionare i sponsali. Veggio in lui un raffreddamento sensibile, e non trovando nelle sue parole di che compromettermi con sicurezza, voglio scrivere a don Sigismondo suo padre, protestandogli che non soffrirò in verun modo veder esposta la dama e me medesima ad un insulto. Questo dev’essere il sentimento della lettera, e siccome in una materia sì delicata devonsi misurare i termini, per non eccedere e non mancare; così, com’io diceva, me ne farete la mala copia.

Fabrizio. Sarà obbedita. (si pone a scrivere)

Giulia. (Fabrizio ha del talento, è molto a proposito per gli affari miei, tuttavolta non lascierò di privarmene, se avrò l’incontro di poter fare la sua fortuna). (da sè)

SCENA II.

Lisetta e detti.

Lisetta. Signora, un giovane forestiere ha una lettera da presentarle.

Giulia. Che persona è?

Lisetta. Non mi pare di condizione.

Giulia. Fatti consegnare la lettera, e digli che si trattenga.

Lisetta. Sarà servita. (in atto di partire)

Giulia. Don Properzio è in casa? (a Lisetta) [p. 201 modifica]

Lisetta. Sì, signora. Strilla al solito col mastro di casa.

Giulia. Se strilla, avrà ragion di strillare. Che c’entri tu a sindicare?

Lisetta. Perdoni. (Conosce meglio di me le di lui stravaganze, ma lo vuol difendere per riputazione). (parte, e poi ritorna)

Giulia. (Duro fatica a tenere in freno la servitù. Mio marito fa di tutto per farsi odiare).

Lisetta. Ecco la lettera. (dà la lettera a donna Giulia)

Giulia. Segretario, sospendete di scrivere, e sentiamo se questa lettera esige pronta risposta. (apre la lettera) Il Conte di Trappani. (osservando la soscrizione) Madama, siccome non vi è niente nel mondo, che sia più amabile della vostra persona, reputo per me felice qualunque istante che seco voi mi trattenga. Non cesserò mai di dar lode a chi ha suggerito alla società il commercio di lettere, traendo io da un tale provvedimento il bene di presentarvi la mia osservanza, a dispetto di cento e cinquanta miglia che ci dividono. Il comparire dinanzi a voi senza chiedervi grazie, sarebbe un torto alla vostra singolare bontà. (leggendo fa rimarcare la sua maraviglia per lo stile caricato) Quindi è, che nell’atto di rinnovarvi l’ossequiosa mia servitù, vi presento nell’onorato latore di questo foglio un novello risalto alla vostra autorevole protezione. Orazio Zappafiori inclina all’onore di esercitare la sua attività nel servire in codesta Metropoli, ed è sicuro di una invidiabil fortuna, se lo producono i vostri rispettabili, generosi auspici. Degnatevi di risguardare in lui il mio qualunque siasi riverentissimo uffizio, e concedetemi ch’io vaglia ad accumulare fra le innumerabili grazie vostre quella che or vi domando, e pieno di vero ossequio mi arrogo la inestimabile felicità di umilmente soscrivermi, quale mi pregio riverentissimamente di essere e di protestarmi. Che cosa dite di questa lettera? (a Fabrizio)

Fabrizio. Io dico, signora mia, che alcuni si affaticano estremamente scrivendo, niente per altro che per esser derisi. Se quei che scrivono si figurassero di parlare colla persona a cui [p. 202 modifica] scrivono, e usassero le parole e le frasi che userebbono in ragionando, farebbono essi minor fatica, e sarebbero meglio intesi.

Giulia. Così è; verità e chiarezza bastano a formare una buona lettera, e chi non ha l’abilità di piacere, non si affatichi per disgustare. Continuate la lettera che vi ho ordinato. E tu di’ a quel giovane che venga innanzi. (a Lisetta)

Lisetta. Sì, signora. (Almeno la mia padrona è sempre occupata. Poco tempo le resta per divertirsi. È vero che spende molto in lettere, ma s’ella in vece di scriver tanto, si occupasse a giuocare un’ora di giuoco le potrebbe costar più di un anno di posta). (parte)

SCENA III.

Donna Giulia, Fabrizio, poi Orazio.

Giulia. Converrà che mi adoperi con premura per impiegar quest’ uomo. Il Conte mi ha fatto de’ piaceri consimili più di una volta.

Orazio. Umilissimo servidore di V. S. Illustrissima.

Giulia. Siete voi che mi ha recato la lettera del conte de’ Trappani?

Orazio. Per obbedirla.

Giulia. Orazio, non è egli vero?

Orazio. Per obbedirla.

Giulia. Di che paese siete?

Orazio. Romano, per obbedirla.

Giulia. Che fa il conte de’ Trappani?

Orazio. Per obbedirla.

Giulia. Non sapete dir altro, che per obbedirla?

Orazio. Perdoni.

Giulia. In che cosa vorreste voi impiegarvi?

Orazio. Per cameriere.

Giulia. Avete più servito?

Orazio. Per obbedirla.

Giulia. Che cosa sapete fare? [p. 203 modifica]

Orazio. Un poco di tutto, per obbedirla.

Giulia. Per far piacere al Conte, io cercherò d’impiegarvi; è necessario però ch’io sappia fin dove si estende la vostra abilità; ma se ho da farvi dell’altre interrogazioni, io non posso soffrire la seccatura dell’obbedirla.

Orazio. Perdoni.

Giulia. Sì, perdoni. Per quel ch’io sento, il vostro vocabolario è molto ristretto. Sapete voi assettare il capo?

Orazio. Per obbedirla.

Giulia. Sapete preparare una tavola?

Orazio. Servirla.

Giulia. Spendere?

Orazio. Per obbedirla.

Giulia. (Costui è una caricatura). E dove avete servito?

Orazio. Ho servito a Roma, ed ho servito a Bologna, ed ho servito in Ancona, e in altri luoghi ho servito, per obbedirla.

Giulia. Amico, mi dispiace dovervi dire, che io non sono in grado di offerire a nessuno una simile caricatura.

Orazio. Perdoni.

Giulia. Come siete venuto?

Orazio. A piedi, per obbedirla.

Giulia. Sarete stanco.

Orazio. Servirla.

Giulia. Trattenetevi qui per oggi.

Orazio. Per obbedirla. (si ritira un poco)

Giulia. (Mi maraviglio del Conte, che mi abbia mandato uno stolido di questa sorte). Avete ancor terminato? (a Fabrizio)

Fabrizio. Com’era mai possibile, signora mia, ch’io scrivessi, con questo pappagallo che m’intronava le orecchie?

Giulia. Vi compatisco; sollecitatevi, (a Fabrizio che si pone a scrivere) E voi, riposatevi; e poi, se non troverete qui da servire... (ad Orazio)

Fabrizio. Ecco il padrone, signora. (a donna Giulia) [p. 204 modifica]

SCENA IV.

Don Properzio e detti.

Properzio. Servitore umilissimo, signora donna Giulia.

Giulia. Serva, signor consorte.

Properzio. Impedisco?

Giulia. Oh niente.

Properzio. Si può venire?

Giulia. Padrone.

Properzio. Scrive troppo, signora.

Giulia. Non crederei che il mio scrivere le dovesse dar dispiacere.

Properzio. La troppa applicazione può pregiudicar la salute.

Giulia. Io sto benissimo, grazie al cielo.

Properzio. E poi troppo tempo consuma nella segretaria.

Giulia. Non sarebbe peggio impiegato il tempo alla tavoletta, al giuoco, al passeggio?

Properzio. Ho pagato ora la lista delle lettere del mese scorso.

Giulia. Benissimo.

Properzio. Sei scudi, quattro paoli e sette baiocchi.

Giulia. Non mi pare sia tale spesa da rovinar la famiglia.

Properzio. Io non dico che la spesa sia molto grande. Ma per non imbrogliar i miei conti, potrebbe ella, signora donna Giulia, aver la bontà di pagar le lettere colla sua mesata.

Giulia. Ben volentieri: quando a lei sia d’incomodo, supplirò del mio senza alcuna difficoltà.

Properzio. Questi sei scudi, quattro paoli e sette baiocchi vuol ella pagarli, o vuole che li paghi io?

Giulia. Faccia come le piace.

Properzio. Senza che s’incomodi, li posso mettere alla di lei partita.

Fabrizio. (Che sordidezza!)

Giulia. Tiene scrittura doppia per la mia mesata?

Properzio. Eh! un picciolo conterello.

Giulia. Faccia pur come vuole. Basta che nelle mie camere si compiaccia di lasciarmi la mia libertà.

Properzio. È troppo giusto; non ho niente che dire. [p. 205 modifica]

Giulia. Perdoni. Ho qualche lettera di premura.

Properzio. Ma vossignoria mi tiene tutto il giorno il segretario occupato.

Giulia. Vuol ella ch’io supplisca al di lui salario colla mia mesata?

Properzio. Non dico questo. Ma vorrei servirmene ancora io.

Giulia. Basta ch’ella lo dica, sarà a servirla.

Properzio. A proposito. Vossignoria che ha tante corrispondenze, le darebbe l’animo di scrivere a Roma a qualcheduno, che mi provvedesse di un buon cameriere?

Giulia. Per lei?

Properzio. Per me.

Giulia. Non ha il suo?

Properzio. Ho stabilito di licenziarlo.

Giulia. Perchè?

Properzio. Perchè è un ladro.

Giulia. Le ha rubato qualche cosa?

Properzio. Non mi ha rubato, ma aveva intenzion di rubarmi.

Giulia. E come ha potuto raccogliere questa sua intenzione?

Properzio. Questa mattina sono uscito di casa, e mi sono scordate le chiavi sul mio tavolino. Egli mi ha lasciato partire senza avvisarmi, e senz’altro ha avuto in animo di rubarmi.

Giulia. Perdoni; può essere ch’egli neppure se ne sia avveduto.

Properzio. Eh! se n’è avveduto benissimo, e tanto se n’è avveduto, che tornato in casa, aveva egli le chiavi in tasca.

Giulia. Le avrà levate dal tavolino per maggior cautela.

Properzio. Signora no, le levò per rubare.

Giulia. Le manca niente?

Properzio. Niente.

Giulia. Dunque non ha voluto rubare.

Properzio. Dunque, dunque; ella ha sempre i suoi dunque, e vuol ritorcere ogni mio argomento col dunque, e mi vuol dare del babbuino col dunque. Dunque, dunque; mi voleva rubare dunque, e se io lo dico, è così dunque; con permissione del dunque, e con rispetto del dunque. (alterato)

Giulia. (Ci vuole una gran sofferenza). [p. 206 modifica]

Fabrizio. (Io gli darei un dunque nel grugno).

Properzio. Compatisca, signora donna Giulia, compatisca veh. Non pensi che io le voglia perdere il rispetto. Conosce il mio temperamento. Ho tutta la stima. Ho tutta la venerazione per lei.

Giulia. Sì, signore, sono molto ben persuasa delle di lei finezze.

Properzio. A chi possiamo noi scrivere per ritrovar questo camenere?

Giulia. Eccolo. Se ne vuole uno, è qui pronto. (accenna Orazio)

Orazio. (Fa una profonda riverenza.)

Properzio. E chi è costui? (a donna Giulia)

Giulia. È uno che mi viene raccomandato dal conte de’ Trappani.

Properzio. A qual fine le viene raccomandato?

Giulia. Acciò gli trovi impiego per cameriere.

Properzio. Per cameriere? Sente ch’io ho di bisogno di cameriere, e mi lascia dire, e non si cura di presentarmelo, e in luogo di preferir me ad ogni altro, fa la protettrice del ladro, e mi favorisce col dunque? (alterato)

Giulia. Signor don Properzio, si ricordi che ho l’onore di essere sua consorte; ma che sono anch’io nata dama, e che ho il mio caldo al pari di lei, e che non m’impegno di soffrir sempre il di lei difficile temperamento. (con caldo)

Properzio. Sentiamo, se si contenta, le abilità di questo suo raccomandato.

Giulia. Si serva pure. Lo conduca seco e lo interroghi.

Properzio. Vuol ch’io stia in sala?

Giulia. Non può andare nelle sue camere?

Properzio. Non conduco nelle mie camere chi non conosco.

Giulia. Ma io ho da terminar una lettera che mi preme.

Properzio. Faccia pure. Venite qui, galantuomo. (ad Orazio)

Giulia. Vuol restar qui?

Properzio. Se si contenta.

Giulia. E se non ne fossi contenta?

Properzio. Ci starei tant’e tanto, per insegnarle che il marito è padron di star dove vuole; e la signora, sia detto con ogni buona riserva, non ha da dire ch’io me ne vada.

Fabrizio. (Ma che maniera obbligante!) [p. 207 modifica]

Giulia. (Sento che la testa mi si riscalda). Io dunque posso andarmene quando voglio.

Properzio. Maraviglio dunque: è padrona.

Giulia. Fabrizio, andiamo. (si alza sdegnosa)

Properzio. Mi lasci qui il segretario.

Giulia. Lo vuol per lei?

Properzio. Se me lo permette! (con riverenza)

Giulia. Anzi; si serva pure. Ella è il padrone; io in casa non conto nulla. Non posso compromettermi d’altro da lei, che di riverenze sguaiate e di complimenti stucchevoli. Tiriamo innanzi, fin che si può. Ma pensi bene, signore, che se un giorno arriverò a dire risolutamente un dunque, sarà un dunque che le porrà la testa a partito. (parte)

SCENA V.

Don Properzio, Fabrizio ed Orazio.

Properzio. Pah! Teh! Ih! Uh! Ha creduto di spaventarmi. Segretario, scrivete. (siede)

Fabrizio. (A buon vederci a mezzogiorno sonato).

Properzio. Molto illustre e colendissimo Signore, e Signore e Padrone venerandissimo. (detta adagio e pensando)

Fabrizio. (Un formulario alla moda). (con ironia)

Properzio. Ehi! che nome avete? (ad Orazio)

Orazio. Orazio, per obbedirla.

Properzio. La patria?

Orazio. Romano, per obbedirla.

Properzio. Volete impiegarvi?

Orazio. Per obbedirla.

Properzio. Avete fatto? (a Fabrizio)

Fabrizio. Per obbedirla. (imitando Orazio)

Properzio. Scrivete. Napoli, li 24 Decembre 1760.

Fabrizio. Ho fatto.

Properzio. Mi do l’onor di rispondere al di lei veneratissimo foglio.

Fabrizio. (Scrive.) [p. 208 modifica]

Properzio. Al di lei veneralissimo foglio dei due di Agosto prossimo passato.

Fabrizio. Perdoni. Questa lettera va in Persia o alla China?

Properzio. Va a Roma, a Roma. Va a Roma, e non in Persia o alla China; va a Roma. Perchè mi domandate se va in Persia o alla China?

Fabrizio. Perchè dall’agosto al decembre sono passati cinque mesi.

Properzio. Seccatore! I pari miei rispondono quando possono, quando vogliono, e quando se ne ricordano.

Fabrizio. Verissimo. Non ci aveva pensato.

Properzio. Scrivete. (pensa)

Fabrizio. Scrivo. (aspetta, poi dice) Vuole che scriva?

Properzio. Siete lesto?

Fabrizio. Son qui, detti pure.

Properzio. Come dice il principio della lettera?

Fabrizio. Mi do l’onor di rispondere al di lei veneratissimo foglio dei due d’Agosto prossimo passato.

Properzio. Prossimo passato. Tanto più, che mostrando ella una premura estrema...

Fabrizio. (Se aveva premura, è stato servito bene). (scrive)

Properzio. Avete più servito? (ad Orazio)

Orazio. Per obbedirla.

Properzio. E chi avete servito?

Orazio. Ho servito il conte degli Utili, il conte Spergoli, il marchese Docili per obbedirla.

Properzio. Cosa abbiamo scritto? (a Fabrizio)

Fabrizio. Tanto più, che mostrando ella un’estrema premura....

Properzio. Un’estrema premura... (pensa)

Orazio. Ho servito...

Properzio. Tacete. (ad Orazio) ...di conseguire la carica di Cassiere delle finanze. (dettando)

Fabrizio. Delle finanze.

Properzio. Dove avete servito? (ad Orazio)

Orazio. A Roma, per obbedirla.

Properzio. E chi avete servito? (ad Orazio) [p. 209 modifica]

Orazio. Ho servito...

Properzio. Avete fatto? (a Fabrizio)

Fabrizio. Ho fatto.

Properzio. Non mancherò di procurarle questo onorevole impiego. (dettando)

Fabrizio. Signore, quest’impiego è stato dato che saranno tre mesi.

Properzio. Seccatore! che importa a voi? Non posso procurarlo per dopo la morte di quello che è stato fatto?

Fabrizio. Verissimo. (scrive)

Properzio. Che cosa sapete fare? (ad Orazio)

Orazio. Un poco di tutto, per obbedirla.

Properzio. Ehi! (chiama alla scena)

Servitore. Comandi.

Properzio. Il mastro di casa. (al servitore)

Servitore. Sarà servita. (parte)

Properzio. Avete fatto? (a Fabrizio)

Fabrizio. Ho fatto.

Properzio. Che cosa abbiamo detto? (a Fabrizio)

Fabrizio. (Gran pazienza ci vuole!) Non mancherò di procurarle...

SCENA VI.

Pasquale e detti.

Pasquale. Sono qui a’ suoi comandi.

Properzio. Avete fatta la spesa che vi ho ordinato?

Pasquale. Perdoni, quale spesa intende di dire?

Properzio. Sciocco! stolido! smemorato! non v’ho io commesso di comperare della cioccolata?

Pasquale. Signor, mezza libbra.

Properzio. E non l’avete presa?

Pasquale. L’ho presa.

Properzio. E quanto l’avete pagata?

Pasquale. A ragione di quattro paoli la libbra.

Properzio. Quattro paoli la libbra? Siete pazzo? Siete ubriaco? Quattro paoli la libbra la cioccolata? Voi non tendete che a rovinarmi. Non sapete spendere. Vi caccerò via. [p. 210 modifica]

Pasquale. Non si scaldi, che ci vado subito.

Properzio. Dove?

Pasquale. A liberarla dal mio cattivo servizio.

Properzio. Avete da aspettare il mio comodo, e non il vostro. Vi licenzierò quando vorrò io. Avete da servirmi fin che mi pare, e i miei danari imparate a spenderli meglio.

Pasquale. Ma in questa maniera, signore...

Properzio. È buona la cioccolata che avete preso?

Pasquale. È perfettissima. Ne ho comprato varie libbre per la signora, ed è rimasta contenta.

Properzio. La mia tenetela separata. La signora donna Giulia dà la cioccolata a tutti quelli che vengono, e se manca la sua, non voglio che s’abbia a prevaler della mia.

Pasquale. Non dubiti; non c’è questo pericolo.

Properzio. È buona questa cioccolata?

Pasquale. Vuol provarla?

Properzio. Sì, sbattetene una mezz’oncia. La beveremo insieme col segretario.

Fabrizio. Obbligatissimo alle di lei grazie. Non bevo mai cioccolata.

Properzio. Fate bene. La cioccolata riscalda.

Pasquale. Ma se la facciamo sì lunga, non potrà sentire il sapore.

Properzio. Fatela ristretta. Io la bevo in una chicchera da caffè. Sono dell’opinione del segretario; non voglio che mi riscaldi.

Pasquale. Sarà servita.

Properzio. Andate.

Pasquale. Se mi permette, avrei da dirle una cosa.

Properzio. Andate via, vi dico. Ho da scrivere una lettera di premura.

Pasquale. Come comanda. (va per partire)

Properzio. Che cosa abbiamo scritto? (a Fabrizio)

Fabrizio. Non mancherò di procurarle...

Properzio. Ehi. (a Pasquale)

Pasquale. Signore.

Properzio. Che cosa volevate dirmi?

Pasquale. Il sarto ha portato una polizza. [p. 211 modifica]

Properzio. Una polizza? Per me una polizza? Il sarto ha portato per me una polizza? Sono cinqu’anni che non ispendo un baiocco in vestiti, e il sarto mi porta una polizza? (alterato, e si alza)

Pasquale. Perdoni. È il sarto da donna, per fatture per la signora.

Properzio. Che c’entro io colla signora? Chi ha ordinato, paghi; chi ha comandato, soddisfaccia; chi è bestia, suo danno, lo le do dieci scudi il mese. Altri cinque ne ha per un legato del padre. Ha più di me, sta meglio di me, e vorrebbe che io supplissi ai di lei capricci, alle di lei vanità? Date qui quella polizza. Sette scudi? Sette scudi in fattura? Io con sette scudi mi faccio un abito, e pretenderebbe che io li pagassi? Dov’è la signora? Donna Giulia dov’è? Vo’ che mi senta; vo’ che m’intenda; vo’ che le passi la voglia di mandare i sarti da me. (in atto di partire)

Fabrizio. La lettera...

Properzio. Aspettatemi. (a Fabrizio)

Orazio. Signore... (a don Properzio)

Properzio. Non mi seccate. (ad Orazio)

Pasquale. La cioccolata... (a don Properzio)

Properzio. Il diavolo che vi porti. (parte)

Pasquale. (Non ci starei, se mi pagasse il doppio). (parte)

Fabrizio. (Sarei ben stolido, se l’aspettassi). (partendo)

Orazio. Signore... (a Fabrizio)

Fabrizio. Che cosa volete?

Orazio. Mi raccomando a lei.

Fabrizio. Non so che farle; per obbedirla. (parte)

Orazio. Maledettissimo, per istirparla. (parte)

SCENA VII.

Altra camera.

Donna Giulia e Lisetta.

Giulia. Sì, per oggi vo’ trattenermi in quest’appartamento terreno.

Lisetta. Fa benissimo. Così sarà più lontana dalle seccature.

Giulia. Da quai seccature? [p. 212 modifica]

Lisetta. Mi può intendere senza ch’io parli.

Giulia. Non vuoi desistere?

Lisetta. Io non nomino alcuno.

Giulia. Ma ti capisco.

Lisetta. È segno dunque ch’io do nel vero.

Giulia. Ma il vero sempre non si ha da dire.

Lisetta. Io non lo dico.

Giulia. Ma lo pensi.

Lisetta. Il pensiere non si può impedire.

Giulia. Orsù, acchetati, e va a vedere se il signor don Properzio si è servito del segretario, e se può venire da me.

Lisetta. Chi?

Giulia. Il segretario.

Lisetta. Voleva dire io, che avesse volontà di una seccatura.

Giulia. Lisetta, meno lingua, e più giudizio.

Lisetta. (Di lingua so che sto bene, di giudizio poi così e così). (parte)

SCENA VIII.

Donna Giulia, poi Lisetta.

Giulia. Posso far quant’io voglio per coprire i difetti di don Properzio, sono troppo visibili a tutto il mondo, e quantunque usi per me medesima ogni cautela per tollerarli, qualche volta scappami la pazienza, e non ho valore per superarmi.

Lisetta. La signora donna Aspasia manda l’imbasciata per esser qui a riverirla. Ci vuol essere, o non ci vuol essere?

Giulia. Fatele dir che è padrona.

Lisetta. Vuol riceverla qui?

Giulia. Sì, la riceverò qui. Ella vien per affari, e non mi vo’ prendere soggezione.

Lisetta. Anche questa signora ha un bel carattere stravagante.

Giulia. Sì, non dici male.

Lisetta. E il signor don Alessandro non burla. Se si sposano insieme, formeranno una bella coppia. (parte) [p. 213 modifica]

SCENA IX.

Donna Giulia, poi donna Aspasia.

Giulia. Spiacemi ora l’impegno in cui mi ha posto don Alessandro, e non vorrei che donna Aspasia penetrasse il di lui cambiamento.

Aspasia. Serva, donna Giulia.

Giulia. Serva umilissima, donna Aspasia. Accomodatevi.

Aspasia. Quant’è che non avete veduto don Alessandro?

Giulia. È stato da me ieri sera.

Aspasia. Me ne rallegro infinitamente.

Giulia. (Dubito che qualche cosa ella sappia). Ieri c’è stato da voi?

Aspasia. Ieri no.

Giulia. E l’altrieri?

Aspasia. Mi pare di no.

Giulia. Quant’è che non viene da voi?

Aspasia. Non me ne ricordo.

Giulia. Non ve ne ricordate? Dev’esser molto dunque.

Aspasia. No, non è molto.

Giulia. Spiacemi ch’egli vi scarseggi le visite.

Aspasia. Oh! a me non dispiace niente.

Giulia. Non vi preme di veder sovente lo sposo?

Aspasia. Considero che l’avrò da vedere anche troppo.

Giulia. (Se non si curasse di lui, sarebbe facile lo scioglimento). In fatti la libertà è la migliore cosa del mondo1. È vero qualche soggezione l’abbiamo sempre d’avere; ma la peggio di tutte è quella del matrimonio.

Aspasia. Non so davvero. Ne soffro tanta in casa degli zii dove sono, che più non ne potrei avere.

Giulia. Desiderate dunque di essere maritata?

Aspasia. Che interrogazione ridicola! Non ho io forse da maritarmi? Non deve essere don Alessandro il mio sposo? Non è qui venuto per questo? [p. 214 modifica]

Giulia. È tutto vero, ma se ora pensaste diversamente...

Aspasia. Bella davvero! Mi maraviglio di voi, che mi parliate in tal modo. Se non aveste maneggiato voi quest’affare, vi compatirei. Sapete in qual impegno io sono, anzi in quale impegno siete voi medesima, e avreste cuore di mettere le mie nozze in dubbio?

Giulia. Mi spiacerebbe che lo faceste per impegno, e che annoiata dalle di lui affettate caricature, non vi sentiste portata ad amare don Alessandro.

Aspasia. Chi vi ha detto, che io non l’ami? Chi vi ha detto, che mi dispiaccia?

Giulia. Giudicava ciò...

Aspasia. Oh! giudicate assai male. Siete una donna di spirito; ma non credo che abbiate l’abilità di penetrar nel cuore delle persone.

Giulia. Ma dalle vostre parole medesime...

Aspasia. Le parole sono parole, e i fatti sono fatti.

Giulia. (Ancora non arrivo bene a capirla).

Aspasia. Quando pensate voi che si abbiano a concludere queste nozze?

Giulia. Per quello che mi disse l’altrieri vostro zio Eugenio, egli vorrebbe procrastinate.

Aspasia. Per qual motivo?

Giulia. Io credo che non sia in ordine per la dote.

Aspasia. Come! vi hanno da essere difficoltà per la dote? La mia dote mi fu assegnata dal mio genitore. Ed è in effetti costituita, e non si ha da ritardare un momento per questo capo.

Giulia. Per dir la verità, donna Aspasia, io non vi credeva innamorata a tal segno.

Aspasia. Né io vi ho detto quanto sia innamorata, nè voi dovete far l’indovina.

Giulia. Il vostro ragionamento, la vostra ansietà, la vostra sollecitudine sono manifesti segni d’amore.

Aspasia. Non vi parrebbe cosa giusta ed onesta, ch’io amassi don Alessandro? [p. 215 modifica]

Giulia. Anzi giustissima, s’egli ha da essere il vostro sposo.

Aspasia. E che cosa direste, s’io non l’amassi?

Giulia. Che fareste male.

Aspasia. E se non potessi amarlo?

Giulia. Vi compatirei.

Aspasia. E se non lo volessi amare?

Giulia. Ma, cara donna Aspasia, l’amate, o non l’amate?

Aspasia. Voi mi fate ridere. Che interrogazione curiosa!

Giulia. Io non vi capisco.

Aspasia. Non so che farvi.

Giulia. Bramate ch’io solleciti queste nozze?

Aspasia. Io vi lascio in pienissima libertà.

Giulia. In libertà di scioglierle, se occorresse?

Aspasia. Voi dite cose questa mattina, che mi fanno maravigliare. (si alza)

Giulia. E voi rispondete in un modo, che non si può capire, (si alza)

Aspasia. Parlo pure italiano.

Giulia. Il vostro italiano è più oscuro dell’arabo.

Aspasia. Eh! via, donna Giulia, non mi fate arrabbiare per carità.

Giulia. Pagherei moltissimo a non essermi impicciata in un tal affare.

Aspasia. Mi dispiace del vostro incomodo; ma ci siete, e per punto d’onore dovete starvi.

Giulia. Concludiamo dunque.

Aspasia. Concludiamo.

Giulia. Volete ch’io mandi a chiamare don Alessandro?

Aspasia. Mandate pure.

Giulia. Sentiremo in che disposizione si trova.

Aspasia. Sì, sentiremo.

Giulia. (Voglio uscirne. O che si sciolgano, o che si concluda). Chi è di là?

Servitore. Comandi.

Giulia. Va a ricercare don Alessandro, e digli...

Servitore. Perdoni. Ho veduto ora dalla finestra, ch’ei viene qui.

Giulia. Benissimo, subito ch’egli arriva, fa che passi senz’altra imbasciata. [p. 216 modifica]

Servitore. Sarà servita. (parte)

Aspasia. Donna Giulia, a buon rivederci.

Giulia. Andate via?

Aspasia. Sì, è tardi, e sono aspettata.

Giulia. Non volete sentire don Alessandro?

Aspasia. Sentitelo voi.

Giulia. Non volete esser presente?

Aspasia. Io non ho quella gran curiosità.

Giulia. E se si deve concludere?

Aspasia. Concludete.

Giulia. E se don Alessandro inclinasse allo scioglimento?

Aspasia. Non lo crederei così ardito.

Giulia. E se si stabilissero le nozze, ora, subito, questa sera, domani?

Aspasia. Ehi! mi credete cotanto ansiosa di maritarmi?

Giulia. Donna Aspasia, non vi capisco.

Aspasia. Eccolo. Permettetemi ch’io vada da quest’altra parte. (incamminandosi)

Giulia. Perchè non vi volete incontrare...

Aspasia. Serva; ci rivedremo. (parte)

SCENA X.

Donna Giulia, poi don Alessandro.

Giulia. Io credo essere la calamita dei pazzi. In casa mia non ci piovono, ci tempestano. Che capo particolare ha costei? Non mi pare di essere tanto sciocca; eppure non arrivo a capirla. In sostanza questo matrimonio deve seguire, e don Alessandro, o per amore, o per forza, mi dee mantener la parola. So che il trattare con lui è una cosa incomoda, per le sue infinite caricature; ma soffrirò tutto per non rimanere pregiudicata.

Alessandro. Servidore umilissimo della mia riverita padrona.

Giulia. Serva, don Alessandro.

Alessandro. Come avete voi riposato la scorsa notte? [p. 217 modifica]

Giulia. Non molto bene. Ho avuto delle inquietudini.

Alessandro. Oimè! voi mi avete mortalmente ferito. Le vostre inquietudini mi piombano sul cuore.

Giulia. In fatti, se fossero le vostre espressioni sincere, sarebbe giusto il vostro rammarico, sapendo esser voi stesso la cagion che m’inquieta.

Alessandro. Oh cieli! Sarà egli possibile, che le avverse stelle mi rendano sì sfortunato, ch’io giunga a turbar la pace di quell’anima peregrina, ch’io venero, e stimo, ed onoro?

Giulia. Signore, io vorrei meno venerazione; ma un poco più di zelo per il mio carattere e per il vostro onore.

Alessandro. Spargerei il mio sangue per la delicatezza dell’onor vostro e dell’onor mio.

Giulia. Siete voi disposto a rendermi quella giustizia che vi domando?

Alessandro. Il dubitarne è un insulto; il temerne è un oltraggio.

Giulia. Preparatevi dunque alle nozze di donna Aspasia.

Alessandro. Questo è un fulmine che mi atterrisce.

Giulia. Un cavalier d’onore non dee mancare alla sua parola.

Alessandro. Le regole della cavalleria mi son note; ma note mi sono ancor le appendici.

Giulia. Tutte le appendici in materia d’onore non fanno che accrescere i doveri del cavaliere.

Alessandro. Dirò meglio. So le regole e le eccettuazioni.

Giulia. Non si dà eccettuazione in una materia sì delicata.

Alessandro. Ah! madama, nel caso mio la ritrovo.

Giulia. Come potete voi distruggere la massima generale di dover mantener la parola?

Alessandro. Con un’altra massima generale, che la combatte e la annichila.

Giulia. E qual è questa massima?

Alessandro. Che in materia d’amore non siamo padroni di noi medesimi. Che il cuore è libero nell’amare. Che il vincolo degli sponsali non può distruggere l’antipatia dell’oggetto. Che non è azione onorata il sagrificare una sfortunata fanciulla; e [p. 218 modifica] che mi credo in debito di manifestare la mia avversione, anzichè armar di lusinghe la verità, e preparare il martirio a due vittime sagrificate all’idolo dell’interesse o dell’ambizione.

Giulia. Tutti questi saggi riflessi sarebbono stati opportuni prima di promettere.

Alessandro. Perdonatemi, vi chiedo scusa. Ditemi per grazia, per gentilezza, chi parlò, chi stabilì, chi ha promesso?

Giulia. Per voi lo fece chi per voi potea farlo. La parola è di vostro padre.

Alessandro. Ah viva il cielo! Chi ha parlato, risponda; e chi ha promesso, mantenga.

Giulia. Sì, manterrà vostro padre quel che ha promesso, e voi sarete sposo di donna Aspasia.

Alessandro. Venero i sensi vostri qualunque sieno. Profondamente all’autorità vostra m’inchino: una sola cosa vi dico, se mi concedete di dirla.

Giulia. Parlate pure.

Alessandro. Non isposerò donna Aspasia.

Giulia. No?

Alessandro. Con tutto l’ossequio, vi replico umilissimamente di no.

Giulia. Ed io vi dico ossequiosamente di sì.

Alessandro. Deh, per tutti i numi del cielo...

Giulia. Qual motivo potreste addurre, per esimervi con decoro da un tale impegno?

Alessandro. Molti potrei annoverarne. Ve ne dirò uno solo.

Giulia. Ditelo, e se sarà ragionevole...

Alessandro. Sentite, se la ragione è fortissima.

Giulia. E qual è?

Alessandro. L’antipatia del mio cuore col cuore di donna Aspasia.

Giulia. Eppure, quando giungeste in Napoli, diceste che vi piaceva, e ne parlaste con dell’amore.

Alessandro. Madama, Sapientis est mutare consilium.

Giulia. Di grazia, signor sapiente, sarebbe mai derivata la mutazione del vostro consiglio dalle lusinghe di qualche amante novella? [p. 219 modifica]

Alessandro. Oh chiaro intelletto! oh perspicacissima mente! Giunse la vostra penetrazione là dove la verecondia custodiva l’arcano.

Giulia. E chi è quest’idolo che v’innamora?

Alessandro. Aimè, dirlo non posso senza intenerirmi; ma la speranza mi anima, ed il dover mi costrigne. L’idolo de’ miei pensieri, la fiamma di questo seno, è collocata nei bellissimi occhi di donna Aurelia.

Giulia. (Mi farebbe ridere a mio dispetto). Ed ella vi corrisponde?

Alessandro. Oh dolcissimo mio tesoro! langue, muore, si dilegua per amor mio.

Giulia. E che pensate di fare?

Alessandro. O morte, o nozze. O Aurelia, o morire.

Giulia. Ed io vi dico: o morte, o Aspasia; o Aspasia, o crepare.

Alessandro. No, madama. (con tenerezza)

Giulia. Sì, monsieur. (caricandolo)

Alessandro. Per carità. (come sopra)

Giulia. Per giustizia. (come sopra)

Alessandro. Compatitemi.

Giulia. Non vi è rimedio.

Alessandro. Eccomi a’ vostri piedi. (s’inginocchia)

Giulia. Eh! alzatevi. (risoluta)

SCENA XI.

Don Properzio in disparte, e detti.

Properzio. (Che cos’è quest’imbroglio?) (vedendo don Alessandro in ginocchio.)

Giulia. Alzatevi, dico.

Alessandro. Movetevi a pietà di un amante. (alzandosi)

Properzio. (Amante?)

Giulia. Mi trovereste fors’anche disposta a compiacervi, se non vi andasse dell’onor mio.

Properzio. (L’onor suo? E il mio non lo conta per niente?)

Alessandro. Ah! sì, trovate voi il modo di consolar le mie fiamme, e di porre in salvo il decoro. [p. 220 modifica]

Properzio. (Sì, è una signora di spirito. Lo troverà ella il modo. Non vorrei far nascere un precipizio).

Giulia. Non si accheterà donna Aspasia.

Alessandro. Perdonerà, se una maggior bellezza mi accende.

Properzio. (Donna Giulia le par più bella di donna Aspasia?)

Giulia. (Mio marito?) Signore, perchè non venite innanzi?

Properzio. Non vorrei disturbare gli affari suoi.

Alessandro. (Va facendo delle riverenze a don Properzio, il quale grossamente gli corrisponde.

Giulia. Gli affari miei e gli affari vostri non devono essere fra noi comuni?

Properzio. Non signora; non vorrei che fossero le cose nostre tanto comuni.

Giulia. E bene, dunque. Se i miei impegni v’infastidiscono, non venite dappertutto a perseguitarmi.

Properzio. Se vengo, vengo perchè mi ci fa venire l’onore.

Giulia. Che onore? Che dite voi dell’onore? In che cosa v’interessa l’onore? Ardireste voi di pensare villanamente? Una dama della mia qualità non ha bisogno di custodi dell’onor suo. Posso tollerare tutte le inquietudini che mi arrecate, ma quest’insulto mi eccita a dichiararvi... (con sdegno)

Properzio. E perchè V. S. si riscalda? (con sdegno)

Giulia. E voi, che cosa intendete di dire? (come sopra)

Properzio. Dico di questa polizza del sartore, che vuol esser pagato, che l’onore vuol che si paghi, e che io non intendo di pagar per lei.

Giulia. Date qui, signore. (gli strappa il conto di mano) Mi maraviglio di voi, e delle vostre insoffribili stravaganze. (parte)

SCENA XII.

Don Alessandro e don Properzio.

Alessandro. Ossequiosissimo servidore. (a don Properzio)

Properzio. La riverisco divotamente.

Alessandro. Con permissione. (incamminandosi) [p. 221 modifica]

Properzio. Dove va, padron mio? (arrestandolo)

Alessandro. A congedarmi dalla signora.

Properzio. Non s’incomodi.

Alessandro. So il mio dovere.

Properzio. Non occorre.

Alessandro. È indispensabile.

Properzio. L’assolvo io.

Alessandro. Non tocca a lei.

Properzio. Chi è il padrone di questa casa? (riscaldato)

Alessandro. Servidor suo ossequiosissimo. (incamminandosi per uscir di casa.)

Properzio. Padrone mio riveritissimo.

Alessandro. A’ suoi comandi.

Properzio. Alla sua obbedienza.

Alessandro. Mi raccomandi alla di lei veneratissima sposa.

Properzio. Io?

Alessandro. Ah! sì, da essa dipende o l’apice delle mie contentezze, o l’abisso delle mie sventure. Vi supplico della vostra umanissima protezione, e vi bacio le mani, e vi faccio umilissima riverenza. (parte)

SCENA XIII.

Don Properzio solo.

Mediatore io? Che non sappia costui che io sono il marito di donna Giulia? Poffar il mondo! mediatore io? Ma di che? Penserò mal di mia moglie? Dubiterò di una dama? Eh cospetto di bacco! era ingmocchiato a’ suoi piedi.... Fuoco, lite, separazione. Sì, principiamo da questo: sospensione della mesata dei dieci scudi. (parte)

Fine dell’Atto Primo.


Note

  1. Pare che dovessero seguire nel manoscritto alcune parole di Aspasia, poichè l’ed. Pasquali attribuisce per errore ad Aspasia le parole che qui seguono.