La donna di maneggio/Atto II

Atto II

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Atto I Atto III

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ATTO SECONDO.

SCENA PRIMA.

Camera di donna Giulia con tavolino e sedie.

Donna GIULIA e FABRIZIO.

Giulia. Sì, sì, terminiamo pure la lettera che si è principiata. Vo’ che sappia il padre di don Alessandro, in quale imbarazzo cerca di pormi il di lui figliuolo. Anzi aggiungete alla lettera, ch’io credo necessario ch’ei venga in Napoli, per poner freno alla sua novella passione.

Fabrizio. Va benissimo, signora; ma intanto che il padre si dispone a venire, il figlio potrebbe mandare ad effetto segretamente la sua intenzione.

Giulia. Ho già pensato di ripararvi. Manderò a chiamar donna Aurelia. Ella è una povera figlia, che ha il padre all’armata, e la madre inferma. La compatisco, se desidera collocarsi, e [p. 224 modifica] spera far valere la gioventù e l’avvenenza in luogo di dote. M’interesserò per ritrovarle marito, e mi lusingo di guadagnarla.

Fabrizio. Saggiamente ella pensa; ma la consiglio non perder tempo, sapendo io di certo che don Alessandro è innamoratissimo, e passa con essolei tutte le ore del giorno, e le cose sono molto avanzate.

Giulia. Manderò subito da donna Aurelia. Chi è di là?

SCENA II.

Lisetta e detti.

Lisetta. Signora.

Giulia. Un servitore.

Lisetta. Un servitore? Qual servitore, signora?

Giulia. O l’uno, o l’altro di loro. O il cameriere, o alcuno degli staffieri.

Lisetta. Non sa niente?

Giulia. Che cosa ho io da sapere? Non c’è nessuno in casa?

Lisetta. Non lo sa che il padrone li ha licenziati tutti, che li ha cacciati via sul momento, e che in casa non c’è più nessuno?

Giulia. Perchè una simile risoluzione?

Lisetta. Glielo direi; ma se glielo dico, va in collera.

Giulia. Dillo pure; quel che è di fatto, non si può celare.

Lisetta. È di fatto, che il padrone ha licenziata la servitù, ed è di fatto, ch’egli l’ha fatto perchè è soffistico e stravagante.

Giulia. Ma con tutte le sue stravaganze, una ragione ci ha da essere stata.

Lisetta. Mi accorda che è stravagante?

Giulia. Per accordartelo, convien ch’io sappia, se a ciò l’ha mosso stravaganza o ragione.

Lisetta. Sa ella perchè li ha licenziati?

Giulia. E perchè?

Lisetta. Perchè dice che portano ambasciate per la padrona a persone che a lui non piacciono; perchè introducono libera[p. 225 modifica]mente tutti quelli che vengono, senza ch’egli lo sappia, e specialmente don Alessandro, e ha detto cose che non convengono nè al suo carattere, nè al di lei decoro; e perchè voleano giustificarsi, li ha cacciati via subito, e li ha minacciati, se non partivano.

Giulia. Ah! don Properzio vuol stimolarmi a qualche strana risoluzione.

Lisetta. È stravagante.

Giulia. Sì, è stravagantissimo.

Lisetta. Lodato il cielo.

Giulia. Dunque non c’è nessuno?

Lisetta. Nessuno.

Giulia. E il mastro di casa?

Lisetta. Può essere che quegli ci sia.

Giulia. Se c’è, digli che venga qui.

Lisetta. Basta ch’egli non sia con quel soffistico del padrone. Se è con lui, non gli parlo. Ha una maniera il padrone, che fa rabbia, che non si può soffrire. Non credo che m tutto il mondo vi sia un uomo più inquieto, più stravagante di lui. (Almeno ora la padrona mi lascia dire. Aveva una volontà di sfogarmi, che mi sentiva crepare). (parte)

SCENA III.

Donna Giulia e Fabrizio.

Giulia. Che dite eh? Mi ha licenziato la servitù. Ho da servirmi da me medesima? Non ho da poter mandare un’ambasciata dove mi pare?

Fabrizio. Se altri non vi sono, anderò io ad avvisar donna Aurelia.

Giulia. Mi farete piacere. Ma spero che potrò valermi del mastro di casa.

Fabrizio. Vuol sentire come ho principiato a scrivere a don Sigismondo?

Giulia. Sì, lo sentirò volentieri. (siedono) [p. 226 modifica]

Fabrizio. Con quanto piacere ho incontrato l’onore di render servigio a lei ed al figlio, con altrettanto rammarico mi trovo in grado di dovermene ora pentire.

Giulia. Benissimo detto.

Fabrizio. Il signor don Alessandro, poco ricordevole degl’impegni suoi e delle mie attenzioni...

Giulia. Sospendete. Ecco il mastro di casa.

SCENA IV.

Pasquale e detti.

Pasquale. Sia ringraziato il cielo. Sono fuori del maggior impiccio di questo mondo.

Giulia. Il padrone ha licenziata la servitù, ed io ho bisogno di valermi di voi per un’ambasciata.

Pasquale. SIgnora, in questo momento ho avuta la fortuna di essere licenziato ancor io.

Giulia. Anche voi?

Pasquale. Ancor io.

Giulia. E per qual motivo?

Pasquale. È venuta Lisetta a domandarmi per ordine suo. Ei l’ha sentita. È montato in bestia, e mi ha licenziato.

Giulia. A me un simile trattamento?

Pasquale. Perdoni se in qualche cosa ho mancato, mi raccomando alla di lei protezione, e le faccio umilissima riverenza.

Giulia. Volete voi partir subito?

Pasquale. Subito.

Giulia. Non volete farmi il piacere di un’imbasciata?

Pasquale. Per carità mi dispensi. Sa con chi abbiamo da fare.

Giulia. Andate.

Pasquale. Mi piange il core per lei; ma vi vuol pazienza, (parte.) [p. 227 modifica]

SCENA V.

Donna Giulia e Fabrizio.

Fabrizio. Signora, adoperi, or piucchè mai, la di lei virtù. Non si lasci abbattere da una persecuzion manifesta.

Giulia. No, non mi perdo di animo. Le cose, quando giungono agli estremi, sono prossime al cambiamento. Don Properzio vorrebbe mettermi al punto di qualche precipitata risoluzione, che avesse poscia da ridondare in avvantaggio della sordida sua avarizia. Sono in impegno di deludere le sue speranze, e di condurmi per una strada da lui sconosciuta. Grazie al cielo, in tutti i maneggi più spinosi e difficili ne sono uscita con gloria, e spero che mi abbia a valere per me medesima quella condotta che mi ha giovato per altri. Vedrete che don Properzio si pentirà d’avermi insultata, e saprò forse assicurarmi senza violenze e senza rumori la mia tranquillità. Intanto non perdiamo di vista don Alessandro. Fatemi voi la finezza di far in modo ch’io possa parlare con donna Aurelia. Vedetela, e sappiatemi dire se ha difficoltà di venir da me.

Fabrizio. Terminata che avrò questa lettera, non mancherò di servirla.

SCENA VI.

Don Properzio e detti.

Properzio. Servidore umilissimo della signora.

Giulia. Serva sua.

Properzio. Signor segretario, una parola.

Fabrizio. Comandi. (s’alza)

Properzio. Venga qui. Si contenti di venir qui. Si compiaccia d’incomodarsi, e di venir qui.

Giulia. Via, andate. Il padrone comanda, andate. (a Fabrizio)

Fabrizio.(Oh se non fosse per lei, non ci starei un momento.) (s’avvia alla volta di don Properzio)

Giulia. (Non vi vuol poco a dissimulare). (da sè) [p. 228 modifica]

Fabrizio. Eccomi a’ suoi comandi. (a don Properzio)

Properzio. Sa ella, signor segretario, che cosa le devo dire?

Fabrizio. Se non me lo dice, non saprei indovinarlo.

Properzio. Devo dirle, ascolti bene, le devo dire che casa mia non è più per lei; che il suo servizio non fa più per me, che favorisca di andarsene in questo punto, e che non me lo faccia dire due volte.

Fabrizio. Ha sentito? (a donna Giulia)

Giulia. Ho sentito. Comanda chi puote, obbedisca chi deve.

Properzio. Viva la sapientissima mia signora.

Giulia. Non è tempo ora ch’io gli risponda. Verrà il momento ancora per me. Scriverò io la lettera a don Sigismondo. (va a scrivere)

Fabrizio. Posso sapere almeno per qual ragione mi licenzia? (a don Properzio)

Properzio. Non è necessario ch’io ve la dica.

Fabrizio. È necessario che si sappia, per il mio decoro, per la mia onoratezza.

Properzio. Vi farò un benservito.

Fabrizio. Me lo faccia dunque.

Properzio. Ve lo farò.

Fabrizio. Me lo faccia ora.

Properzio. Non ho tempo presentemente da spendere due o tre ore a stendere un benservito.

Fabrizio. Questo è una cosa che si fa in un momento.

Properzio. Voi fate le cose in un momento. Vada ben, vada male, si fa in un momento. Io le cose mie non le faccio in momenti. Un attestato non è una lettera. Si fa presto a scrivere una lettera d’invito ad un cavaliere, un viglietto di appuntamento per ritrovare la dama, una risposta graziosa ad un appassionato servente; queste sono cose che si scrivono in un momento, perchè la mano è avvezzata, perchè l’abilità del segretario in simili affari è eccellente.

Fabrizio. Signore, capisco il senso del vostro ragionamento.

Properzio. Ed io ho piacere di esser capito. [p. 229 modifica]

Fabrizio. Mi vergognerei a giustificarmi.

Properzio. Io non ci penso che vi giustifichiate; mi basta che ve n’andiate.

Fabrizio. I nostri conti, signore.

Properzio. Per questo non preme. Io non intacco la vostra pontualità.

Fabrizio. Son creditore di cinque mesi.

Properzio. Non so niente. A me non avete servito sei volte l’anno. Se mi seccherete, non vi farò il benservito.

Fabrizio. Me lo faccia, o non me lo faccia, son conosciuto. Mi paghi, o non mi paghi, sarò lo stesso. Faccio il mio dovere colla signora, e gli levo l’incomodo immediatamente.

Properzio. La signora non ha bisogno di complimenti.

Giulia. Andate, Fabrizio, vi dispenso da qualunque uffizio.

Fabrizio. (Povera sfortunata!) Servidore umilissimo. (a don Properzio)

Properzio. La riverisco. (o Fabrizio)

Fabrizio. (Mi piange il cuore a lasciare una padrona di tanto merito e di tanta bontà). (parte)

SCENA VII.

Donna Giulia e don Properzio.

Properzio. Signora, compatisca se l’ho privata del segretario.

Giulia. Tutto quello ch’ella fa, è ben fatto. (scrivendo)

Properzio. Se ha bisogno di scrivere, la servirò io.

Giulia. Obbligatissima. So far da me, quando occorre.

Properzio. Non vorrà che io sia a parte de’ suoi segreti?

Giulia. Io non ho segreti, signore. (piega la lettera)

Properzio. Ha una gran premura di piegar quella lettera. Ha timor ch’io la vegga?

Giulia. No, signore, se comanda, si serva. (gliela presenta)

Properzio. Oh! io non sono curioso.

Giulia. Crederei che di una dama, qual io mi sono, non gli dovessero venire in capo sinistri sospetti. (seguita a piegar la lettera) [p. 230 modifica]

Properzio. Oh! che dice mai? Davvero si vede che non ha la mano a piegar le lettere. È avvezza col segretario. Vuole che faccia io?

Giulia. Via, mi farà piacere. (si alza)

Properzio. Lo farò volentieri. Osservi, non faccio per dire, ma la piegatura non va bene. (apre la lettera) Non creda già ch’io abbia intenzione di leggere.

Giulia. Oh! son persuasissima. Son certa che non ha veruna curiosità, che supporrà la mia lettera indifferente, e che si compiacerà, senza leggerla, di piegarla, di sigillarla, di farle la soprascritta.

Properzio. A chi è diretta?

Giulia. A don Sigismondo, padre di don Alessandro degli Alessandri. Lo conosce?

Properzio. Lo conosco benissimo. È il padre di quel civilissimo cavaliere, che per rispetto s’inginocchia a’ piè delle dame.

Giulia. Appunto quello.

Properzio. Sarà servita. (procurando di leggere furtivamente)

Giulia. Se mi permette, vado per un picciolo affare, e poi torno.

Properzio. S’accomodi.

Giulia. Intanto avrà la bontà di chiudere e sigillare.

Properzio. Senz’altro.

Giulia. Se vuol leggere, legga; ma non vi è bisogno.

Properzio. Oh! non perdo il tempo sì inutilmente.

Giulia. Con sua licenza.

Properzio. Vada pure.

Giulia. (Legga pure il curioso, s’illumini l’indiscreto, e si prepari a pagarmi caro l’insulto). (parte)

SCENA VIII.

Don Properzio solo.

Sciocca! Si persuade ch’io non voglia leggere? Non vorrei che mi stesse a vedere. (osserva intorno) Ma potrebbe anche essere una lettera fatta con malizia, perchè io credessi una cosa per [p. 231 modifica] l’altra. Basta, me ne accorgerò. Qui vi è un fascio di lettere, vedrò i suoi carteggi, scoprirò i suoi raggiri. Leggiamo questa frattanto. (torna ad osservare, poi legge) Monsieur. Con quanto piacere ho incontrato l’onore di servir Lei, ed il Signor Don Alessandro di lei Figliuolo, con altrettanto rammarico mi trovo in grado di dovermene ora pentire. In che cosa doveva servire questi signori? Sentiamo. Ella sa quanta pena mi è costato ridurre a termine il maritaggio con donna Aspasia, ed ora il giovane mostra esserne renitente, e minaccia di voler mancare alla sua parola. Sì, vuol mancare a donna Aspasia per la buona grazia di donna Giulia, ed io ho da essere il mediatore. Don Alessandro si è invaghito di certa giovane, nobile di qualità, ma povera di fortune... Non credo niente. Ed è questa donna Aurelia Pansecchi. Non credo niente. Ella vede, Signore, che l’onor mio e l’onor suo sono interessati egualmente, che però la consiglio non solo, ma la prego e la eccito pel suo decoro, e per la mia estimazione, venire in Napoli personalmente, a por freno al di lei figliuolo, staccarlo dalla conversazione di donna Aurelia, e costringerlo a mantenere l’impegno con donna Aspasia. Corpo di bacco! Questo è qualche cosa di concludente. Se chiama ed eccita a venire in Napoli don Sigismondo, deve esser vero che don Alessandro vuol distaccarsi da donna Aspasia, perchè è innamorato di donna Aurelia. Può anche essere che s’ingnocchiasse a mia moglie, per persuaderla a non iscrivere al di lui padre, e che per lo stesso effetto si raccomandasse alla mia mediazione. Se la cosa fosse così, avrei fatto la bella capocchieria. Ma sarà così senza dubbio. Ella mi lascia in libertà tutte le sue scritture, e non lo farebbe se vi fosse cosa da sospettare. Maladetto vizio che ho io di pensar male! Ecco qui, ho irritato l’animo di donna Giulia, ed è una dama, per dir la verità, che non merita di essere maltrattata. Vo’ vedere, s’io posso, d’accomodarla. Presto, presto, pieghiamo la lettera, e mostriamo di non averla nemmeno letta; si chiami donna Giulia, e si procuri di pacificarla. Chi è di là? (piega la lettera) Ehi, chi è di là? [p. 232 modifica] (la sigilla) Chi è di là, ehi! (fa la soprascrilta) Ehi? c’è nessuno? Ma stolido ch’io sono! Chi ci ha da essere, se ho licenziata tutta la servitù? Ci dovrebbe essere almeno la cameriera. Ehi!

Lisetta.

SCENA IX.

Lisetta e detto.

Lisetta. (In mantiglia) Signore.

Properzio. Dov’è la padrona?

Lisetta. Si è serrata nel suo gabinetto.

Properzio. Valle a dire che la lettera è chiusa, e che con suo comodo venga qui, che le ho da parlare.

Lisetta. Perdoni, io non ci posso più andare.

Properzio. E perchè?

Lisetta. Perchè la padrona mi ha licenziato dal suo servizio.

Properzio. Ti ha licenziato?

Lisetta. Sì, signore, ed eccomi in mantiglione per andarmene per i fatti miei.

Properzio. Ma per qual ragione ti ha licenziato?

Lisetta. Io non la so, non me la vuol dire: vuole ch’io parta subito, e che più non le comparisca dinanzi.

Properzio. Fermati, vedrò io d’aggiustarla.

Lisetta. Perdoni: ho risoluto d’andarmene, e non ci resterei se mi desse cento zecchini.

Properzio. Dove vai?

Lisetta. A procacciarmi miglior fortuna.

Properzio. No, non voglio che tu te ne vada.

Lisetta. Anzi vo’ partire in questo momento.

Properzio. Resta almeno per qualche giorno.

Lisetta. Anzi vo’ partir subito.

Properzio. Ti pagherò.

Lisetta. Non ho bisogno del suo denaro. (La mia padrona mi ha provveduta bastantemente). (da sè, con allegrezza)

Properzio. Ma chi vuoi che ci dia da pranzo? [p. 233 modifica]

Lisetta. Vada all’osteria.

Properzio. E la padrona?

Lisetta. Che stia a digiuno.

Properzio. Hai un cuore di bestia.

Lisetta. Ed ella, signore, ha il più bel cuore del mondo. Con sua licenza.

Properzio. Fermati.

Lisetta. La riverisco. (La mia padrona sa quel che fa, ed io la deggio obbedire). (parte)

Properzio. Si è ricattata, come va, la signora. Se si potesse star soli, e far tutto da se, senza mangiapani, la disgrazia non sarebbe sì grande. Ma il punto si è che qualcheduno ci vuole. E da chi ho da farmi servire? Dal cane? Da una parte, donna Giulia ha ragione. Sono stato io un animale. Anderò a ritrovarla; ma fino che ha il sangue caldo, non vo’ arrischiar di far peggio. Sarà meglio ch’io vada in traccia di qualcheduno che venga a servire. Ma chi troverò io? Qualche ladro? Qualche briccone? Il mondo è pieno di tristi, di vagabondi; non si sa di chi potersi fidare. Almeno aveva in casa gente onorata. E perchè privarmene? Mi sta bene, merito peggio. Ma donna Giulia non doveva licenziare Lisetta. Una moglie non si ha da vendicar col marito. Sono io il padrone, comando. Sì, comando, comando, e non c’è nessun che mi serva. (parte)

SCENA X.

Gabinetto con finestra e sedie.

Donna Giulia sola alla finestra.

S), sì, Lisetta, ho capito. Ti sei portata benissimo, vattene, e non temere che la mia protezione ti manchi. Quando ti vorrò, ti farò da qualcheduno avvisare. Addio. (si ritira dalla finestra) Ho piacere che sia riuscita sensibile a don Properzio la mia bizzarra risoluzione. Questo non è che un principio de’ miei studiati risentimenti, e se mi riesce, vo’ senza strepito illuminarlo. Avrà [p. 234 modifica] letta la lettera, avrà inteso ciò che m’interessa rapporto a don Alessandro, e arrossirà, io spero, de’ suoi ingiuriosi sospetti. Se verrà alcuno a visitarmi, secondo il solito, uscirò di casa, e farò accompagnarmi, o in carrozza, o a piedi, come potrò. Fra le inquietudini del marito, non vo’ perder di vista il maritaggio di donna Aspasia. Ho mente che val per tutto, e posso provvedere agli affari miei, senza scaldarmi il capo. Farmi di sentir gente. Converrà ch’io apra, e che mi serva da me medesima; ma mi consolo che il signor marito farà lo stesso. (va ad aprire la porta)

SCENA XI.

Donna Aurelia e la suddetta.

Giulia. Oh! donna Aurelia, che onore è questo che m’impartite?

Aurelia. Il vostro segretario mi ha fatto sapere che desiderate parlarmi, e non ho tardato a ricevere i vostri comandi.

Giulia. Sono molto tenuta alle vostre finezze.

Aurelia. Mi ho fatto accompagnare fin qui dal signor don Ridolfo Presemoli...

Giulia. Permettete ch’io vi prenda una sedia...

Aurelia. E sono restata sola, e non ho trovato nessuno...

Giulia. Scusate se non vi è un servitore...

Aspasia. E sono salita le scale così da me...

Giulia. Per una certa avventura...

Aurelia. Ho chiamato, e non rispondendo nessuno...

Giulia. Trovandomi senza la cameriera...

Aurelia. E così a caso sono venuta innanzi.

Giulia. Accomodatevi.

Aurelia. Che cosa avete da comandarmi?

Giulia. Donna Aurelia, voi sapete che ho per voi della stima, e che professandomi vostra amica...

Aurelia. Mia madre m’ha imposto di farvi i suoi complimenti.

Giulia. Obbligatissima. Che fa donna Fulgida?

Aurelia. Al solito. Sempre male. [p. 235 modifica]

Giulia. Povera signora, me ne dispiace. Ora, figliuola mia, permettetemi ch’io vi dica...

Aurelia. Da quindici giorni a questa parte ha moltissimo peggiorato.

Giulia. Se il ciel vorrà, starà meglio. Parliamo ora di ciò che preme.

Aurelia. Io credo che i medici non abbiano conosciuto il suo male.

Giulia. Sentite quel che ho da dirvi...

Aurelia. Chi dice una cosa, chi dice un’altra. Contrastano fra di loro, e l’ammalata peggiora.

Giulia. Cara donna Aurelia, permettetemi ora, che possa dirvi il motivo per cui vi ho incomodata.

Aurelia. Eh avete bel dire voi, che non siete ne’ guai ne’ quali mi trovo io. Son sola colla madre inferma, e con pochissimi assegnamenti; ed ora avrei una buona occasione di maritarmi con una persona che, se vogliamo, non pretenderebbe nemmeno gran dote; ma qualche cosa ci vuole, e non so da che principiare, e non ho cuore di andar lontana e di lasciar la madre in un letto.

Giulia. Avete occasione di maritarvi?

Aurelia. Sì, certo. L’incontro non potrebbe esser migliore. Un giovane nobile, ricco, figlio solo, e che mi vuol bene, che mi adora.

Giulia. Si può saper chi egli sia?

Aurelia. Se ve lo dico, non lo conoscerete. È forestiere, non lo conoscerete.

Giulia. Ne conosco tanti de’ forestieri.

Aurelia. Questo non lo conoscerete, perchè sta tutto il giorno da me, e non pratica con nessuno.

Giulia. Che difficoltà potete avere a dirmi il suo nome?

Aurelia. Io non ho difficoltà nessuna, ve lo dirò; ma per amor del cielo, non parlate. Non vuol che si dica, perchè se lo penetrasse suo padre, ci sarebbero de’ guai.

Giulia. Confidatevi meco, e non vi troverete scontenta.

Aurelia. Suo padre lo vorrebbe maritare a suo modo...

Giulia. Ditemi il nome... [p. 236 modifica]

Aurelia. E mi ha detto che vi è di mezzo una certa persona, che vuole ingerirsi in quello che non le tocca, e vuol fargli delle prepotenze, e vuol obbligarlo con insolenza a sposar un’altra.

Giulia. Questa persona vuol obbligarlo con insolenza?

Aurelia. Così m’ha detto, e credo sia una donna costei, e se sapessi chi è, vorrei insegnarle io, così giovane come sono, a non impicciarsi nei matrimoni, e a non pregiudicare le povere figlie, che cercano onestamente di collocarsi.

Giulia. Alle corte, si può sapere chi è questo vostro amante?

Aurelia. Sì, ve lo dico liberamente. Si chiama don Alessandro degli Alessandri. Lo conoscete?

Giulia. Lo conosco.

Aurelia. Lo conoscete! (con maraviglia)

Giulia. Oh! se lo conosco, e conosco anche suo padre, e la sposa che gli fu destinata, ed anco quella persona che con prepotenza vuol obbligarlo a mantenere il suo primo impegno.

Aurelia. Oh capperi! Ho piacer che sappiate tutto. Raccontatemi. (si accosta colla sedia)

Giulia. Vi dirò prima di tutto, esser questo per l’appunto il motivo per cui ho desiderato parlarvi.

Aurelia. Buono; oh! adesso son quasi sicura si sortir l’intento, e di far star a dovere quella illustrissima signora che mi perseguita.

Giulia. Vi dirò poi, che la sposa destinata a don Alessandro è donna Aspasia.

Aurelia. Oh! non mi fa paura.

Giulia. Vi aggiungerò che don Sigismondo, padre di don Alessandro, ha data la parola da cavaliere; che il figlio l’ha confermata; che donna Aspasia è dama di qualità...

Aurelia. Ed io, che cosa sono? I danari non fanno la nobiltà. In ordine al sangue, io non la cedo a nessuno.

Giulia. E vi dirò, per ultimo, che io sono quella persona, che non per prepotenza e per insolenza, ma per giustizia e per punto d’onore, intendo che don Alessandro abbia da sposar donn’Aspasia.

Aurelia. (Ci sono caduta io, non volendo). (si ritira colla sedia) [p. 237 modifica]

Giulia. E voi, che cosa dite?

Aurelia. Dico, dico, che se non avevate altro da dirmi, potevate lasciarmi stare, e che questa non è la maniera. (mortificata)

Giulia. Favorite di parlar nei termini.

Aurelia. E se la fortuna vuol aiutare una povera faciulla civile, non è carità il pregiudicarla... (come sopra)

Giulia. E non è giusto che una fanciulla civile...

AURELIA. Io non ho nè parenti, nè amici, e se perdo questa buona sorte, per me è una disperazione. (piangendo)

Giulia. Temete voi di non maritarvi?

Aurelia. Senza dote chi volete voi che mi pigli? (come sopra)

Giulia. E perchè don Alessandro vi ha da sposar senza dote?

Aurelia. Perchè mi vuol bene; e chi ama, non cerca interesse. (come sopra)

Giulia. E che sarebbe di voi, se il padre di don Alessandro negasse di ricevervi in casa?

Aurelia. Ci darà il modo di vivere fuor di casa; e poi è vecchio, e probabilmente morirà prima di suo figlio. (arditamente)

Giulia. Come! (alzandosi) Così parlate? Nutrite in seno tai sentimenti? Le vostre massime sono indegne del vostro sangue, e se la povertà dello stato non pregiudica la condizione, il mal talento fa torto alla nascita, e deturpa la nobiltà. Noi non ci regoliamo colle leggi della natura soltanto, ma con quelle della civil società, e chi tenta usurpare ad un padre l’autorità, il diritto e la convenienza, è reo in faccia del cielo e nel concetto del mondo. Una giovane costumata dee domandare al cielo la sua fortuna, e non valersi de’ mezzi illeciti per usurparla. Se a voi convenisse un tal matrimonio, non vi affatichereste per occultarlo. Le cose che si nascondono, non possono essere che maliziose, e chi si procaccia un bene per via indiretta, non perde mai il rossore di averselo con ingiustizia acquistato. Per due ragioni avete da vergognarvi di un tal progetto; e per l’insulto che procurate ad un padre, e per il torto che promovete a una sposa. Di ciò aspettatevi la ricompensa che meritate. Nessuna colpa andò mai immune [p. 238 modifica] dal suo castigo. O rassegnatevi al dovere, alla ragione, alla convenienza, o preparatevi ad essere un’infelice, odiosa nella famiglia, criticata dal mondo, e abborrita un giorno per interesse da quello stesso che ora per acciecamento vi ama. Prendete le mie parole per un’ammonizione amorosa. Figuratevi che vi parli il cielo per bocca mia, abbandonate un disegno che vi fa torto, e preferite ad una seduttrice lusinga l’onestà e la ragione. Se vi mortifica lo stato vostro, fate uso della virtù, e prevaletevi dell’amicizia e della interessatezza di una dama d’onore, che non v’insulta con prepotenza, ma con amore vi parla, e a vostro pro vigorosamente s’impegna. (s’alza)

Aurelia. Ah! donna Giulia, ah! mia amorosissima amica, mi raccomando alla vostra bontà. Sono una povera figlia, sono nelle vostre braccia.

Giulia. Sì, rasserenate il vostro spirito. Non vi abbandonerò mai, e penserò io a procacciarvi una conveniente fortuna.

Aurelia. Sì, donna Giulia, disponete di me come di cosa vostra.

Giulia. Prima di tutto, promettetemi di licenziare immediatamente don Alesandro.

Aurelia. Subito ho da licenziarlo?

Giulia. Sì, subito.

Aurelia. Aspetterò ch’egli venga da me, e gli dirò... davvero io non so come fare.

Giulia. Vi compatisco. Se vien da voi, non avrete cuore di licenziarlo. Fate così, licenziatelo con un viglietto.

Aurelia. E come ho da fare a mandarglielo?

Giulia. Scrivetelo qui da me, lasciatelo nelle mie mani, e penserò io a fare che gli pervenga.

Aurelia. Benissimo: farò tutto quello che voi volete. Perchè mia madre non istia in pensiere, mandate subito un servitore.

Giulia. Ora sono tutti impiegati. Non dee venire a prendervi don Ridolfo? Manderemo lui.

Aurelia. Sì, manderemo lui.

Giulia. Favorite di venir meco a formare il viglietto che dovete [p. 239 modifica] scrivere a don Alessandro. Può essere ch’egli venga da me, e che glielo possa dare colle mie mani.

Aurelia. Io non so come concepirlo.

Giulia. Se vi contentate, ve lo detterò io.

Aurelia. Sì, mi lascierò regolare da voi.

Giulia. Andiamo. (partono)

SCENA XII.

Camera di don Properzio.

Don Properzio ed Orazio.

Properzio. Proverò; vedrò quel che sapete fare, e a misura di quello che saprete fare, vi darò il salario.

Orazio. Come comanda V. S. illustrissima.

Properzio. Per oggi vi darà l’animo di cucinare?

Orazio. Per obbedirla.

Properzio. E di preparare la tavola?

Orazio. Per obbedirla.

Properzio. E ricevere qualche imbasciata?

Orazio. Per obbedirla.

Properzio. (Se costui fosse buono per tutto questo, mi risparmierebbe tre o quattro salari almeno). Andate subito in cucina; troverete la spesa fatta. Troverete un pollastro. Siamo in due; un pollastro in due non si mangia, ed io nel mangiare son delicato, e non voglio roba rifatta. Tagliate a mezzo il pollastro, e cucinatene mezzo oggi, mezzo domani. Troverete dell’erbucce; fatemi con esse una buona zuppa; co’ rottami del pollastro fate un intingolo, e di due fette di fegato che ci sono, dividetene una in due, e cucinatela per arrosto. Avete capito?

Orazio. Per obbedirla.

Properzio. Andate.

Orazio. Perdoni. E per me, che cosa ci resta?

Properzio. Voi non dovete entrar colla mia cucina. Alla servitù do danari. [p. 240 modifica]

Orazio. Perdoni. Favorisca qualche cosa dunque.

Properzio. Siete senza un baiocco?

Orazio. Per obbedirla.

Properzio. Io non do niente a nessuno, se non ho provata l’abilità.

Orazio. Pazienza.

Properzio. Andate a lavorare. Avvertite di essere pontuale. Non vi usurpate niente di quel del padrone. Il brodo lo voglio tutto per me, e non ardiste di schiumare il grasso. Non consumate legna più del dovere. Non caricate le vivande di sale. Spezierie non ne voglio; butirro pochissimo, e quel che avanza di tavola, riponetelo per la sera. Avete capito?

Orazio. Per obbedirla.

Properzio. Andate, e portatevi bene.

Orazio. (Oh! sì, che ho ritrovata la mia fortuna). (parte)

SCENA XIII.

Don Properzio, poi Orazio.

Properzio. Costui è un uomo che mi piace, perchè sa fare di tutto, e perchè ha poche parole; e poi è in bisogno, è in estrema necessità, e per campare, si contenterà d’ogni cosa. Il punto sta che la mia signora se ne contenti. È diventata soffistica al maggior segno.

Orazio. (Col grembiale da cuoco ed un pollo in mano) Signore.

Properzio. Cosa volete?

Orazio. Un’imbasciata.

Properzio. E così si va a ricevere le imbasciate?

Orazio. Come vuole ch’io faccia?

Properzio. E chi è?

Orazio. Non so niente. Ho sentito salir le scale, e chiamare nell’anticamera.

Properzio. Vi hanno veduto?

Orazio. Non signore.

Properzio. Presto; date qui quel pollastro. [p. 241 modifica]

Orazio. Per obbedirla. (dà il pollastro a don Properzio)

Properzio. Cavatevi quel grembiale.

Orazio. Subito.

Properzio. Non lo strapazzate.

Orazio. Perdoni.

Properzio. Andate a veder chi è.

Orazio. Per obbedirla. (parte e poi ritorna)

Properzio. Poh! è pur magro arrabbiato questo pollastro! È vero che costa un paolo; ma per un paolo si poteva avere qualche cosa di meglio.

Orazio. È il signor don Alessandro.

Properzio. Che vuol da me il signor don Alessandro?

Orazio. Domanda della padrona.

Properzio. Sciocco! E sono io la padrona? Ho la gonnella io? Ho la cuffia in capo? Che vada dalla padrona.

Orazio. (In atto di partire.)

Properzio. No, aspettate, ditegli che venga da me.

Orazio. Per obbedirla. (va per partire, poi torna indietro) Il pollastro? (a don Properzio)

Properzio. Sciocco! Volete andargli incontro col pollastro in mano?

Orazio. Perdoni. (Si cucinerà questa sera). (parte)

SCENA XIV.

Don Properzio, e poi don Alessandro.

Properzio. Non sanno niente costoro, non sanno niente. (nasconde il pollastro)

Alessandro. Faccio umilissima riverenza all’amabilissimo don Properzio.

Properzio. Servitor suo divotissimo.

Alessandro. Perdoni se con tanta frequenza ardisco d’importunare il di lei veneratissimo domicilio.

Properzio. Anzi... anzi... l’abbondanza delle di lei grazie empie di estremo giubbilo la mia casa. [p. 242 modifica]

Alessandro. Ella è il prototipo della gentilezza.

Properzio. Io sono... io sono... suo divotissimo servitore.

Alessandro. Potrei aver l’onore di umiliare l’ossequio mio alla di lei gentilissima sposa?

Properzio. Ella è più che padrone; anzi padronissimo.

Alessandro. Se avesse disoccupato alcuno de’ suoi domestici, potrebbe onorarmi di far preceder l’annunzio.

Properzio. Subito, immantinente. Ehi? chi è di là? Presto, servitori.

SCENA XV.

Orazio col grembiale ed una cazzaruola in mano, e detti.

Orazio. Comandi.

Properzio. Che maniera è questa?

Orazio. Perdoni.

Properzio. Non chiamo il cuoco; chiamo il cameriere, lo staffiere, il lacchè.

Orazio. E dove sono?

Properzio. Cercateli dove sono, e che portino l’imbasciata alla padrona. Sciocco, ignorante, alla padrona. M’avete capito? Subito, alla padrona.

Orazio. Ho capito, per obbedirla. Vado subito, per obbedirla. (parte)

SCENA XVI.

Don Properzio e don Alessandro.

Properzio. Chi ha troppa servitù, è mal servito. Sarebbe meglio averne un solo. (a don Alessandro)

Alessandro. Ottima riflessione!

Properzio. Favorisca di grazia. Che intendeva ella dir questa mane, volendomi onorare dello specioso titolo di mediatore?

Alessandro. Ah! signore. Io sono una vittima del Dio Cupido.

Properzio. E chi è la Venere chi vi ha ferito?

Alessandro. Donn’Aurelia è la bella fiamma che m’arde.

Properzio. E che cosa c’entra mia moglie? [p. 243 modifica]

Alessandro. Ella, per un impegno d’onore, legatomi a donn’Aspasia, minaccia ruine alla mia unica felicità.

Properzio. (È tutto vero dunque quel che diceva la lettera).

Alessandro. Deh! impietosite il cuore della vostra sposa. Fate voi ch’ella discenda dal puntigio alla compassione. Sono acceso, sono afflitto, sono disperato.

Properzio. Sì, non temete, m’interesserò io.

Alessandro. Caro amico. (vuol abbracciarlo)

Properzio. Che cosa fate?

Alessandro. Un trasporto di gioia. (come sopra)

Properzio. Lasciatemi stare. (si difende, e cade in terra il pollastro)

Alessandro. Oh cieli! (osservando il pollastro)

Properzio. (Maladetto!) (da sè)

Alessandro. Un araldo felice de’ miei amori.

Properzio. Sarà caduto dal soffitto.

Alessandro. Vieni, o colomba di pace. (lo prende)

Properzio. Non è una colomba, è un pollastro.

SCENA XVII.

Orazio e detti.

Orazio. Perdoni. Dice la dama, che favorisca il cavaliere nelle sue camere, e aspetti un poco che vi sarà ancor essa, per obbedirla.

Alessandro. Volo colla mia rispettosa obbedienza. (parte)

Properzio. Il pollastro. (dietro a don Alessandro) Che tu sia maladetto. (ad Orazio)

Orazio. Io?

Properzio. Sì, tu.

Orazio. Perdoni.

Properzio. Va, corri. Fatti render quel pollastro.

Orazio. Per servirla.

Properzio. Va al diavolo.

Orazio. Per obbedirla. (parte) [p. 244 modifica]

Properzio. Mia moglie è la rovina della mia casa. Ho dovuto prendere quest’ignorantaccio di servitore per causa sua. Tutto male. Io spendo le viscere, e non son servito. Mantengo la casa, e non son padrone. Ho il peso del matrimonio, e non c’è altro per me che il peso. Madama s’interessa per tutti, e non può vedere il marito. In casa mia flusso e riflusso; chi va, chi viene. Consumano le scale, rovinano i pavimenti, e guai se parlo; e guai a me, se apro bocca. E di più, e per giunta, ho da pagar dieci scudi il mese? No, non glieli vo’ più pagare, non glieli pago più se mi castrano.

Fine dell’Atto Secondo.