La Teseide/Libro decimo
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LA TESEIDE
LIBRO DECIMO
ARGOMENTO
Nel decimo l’uficio funerale
Fanno li greci re a’ morti loro:
Teseo chiama Itinon senza dimoro,
Il qual d’Arcita il mal dice mortale.
Poi Arcita a Teseo racconta quale
Dopo la morte sua del suo tesoro
Il testamento sia; e poi con ploro
Quasi con Palemon fa altrettale.
Poscia presente Emilia seco stesso
Del suo morir si duole, e poi con lei:
Ed ella dopo lui, porgendo ad esso
Gli stremi baci con dolenti omei:
Quindi a Mercurio lita, e piagne appresso,
Poi l’alma rende agl’immortali iddei.
1
Il gran nido di Leda ogni bellezza
In molte luci di sè dimostrava,
E propinqua a sua maggior cortezza
Tacitamente la notte n’andava,
Forse due ore vicina all’altezza
Dov’ella il suo mezzo cerchio toccava:
Quando da corte i Greci si partiro,
Ed agli proprii loro ostier reddiro.
2
Ed acciocchè per lor non s’impedisse
La lieta festa della nuova sposa,
Anzi che più della notte sen gisse,
Presa con loro ciascheduna cosa,
Degna pira di far, ciaschedun disse
A’ suoi: mentre la gente si riposa
Piano al teatro grande ve n’andate,
E quivi con silenzio ci aspettate.
3
E’ morti corpi delli nostri amici
Tutti con diligenza troverete,
Ed acciocchè non sien forse mendici
D’onor di sepoltura, laverete
Lor tutti quanti, e roghi fate lici,
Ne’ qua’ con degno onor li metterete,
Po’ venuti seren: ma chetamente
Si vuol far ciò, che nol senta la gente.
4
Mossersi allor co’ lumi i servidori,
E ’n verso il gran teatro se n’andaro;
E, come avien comandato i signori,
Li morti corpi tutti ritrovaro,
E que’ con odoriferi liquori,
E con lacrime molte ancor lavaro:
Poi fatte pire per sè a ciascheduno,
Sopra catune d’esse poser uno.
5
Vennervi i regi, e la turba dolente
Con tristo suono fu apparecchiata,
Ed intorniarle tutte con lor gente;
E poi ch’egli ebber ciascuna onorata
E d’arme e di grillande e di lucente
Porpora, fu la tromba comandata
A sonare, e dier voce ai tristi guai
De’ dolenti, che quivi erano assai.
6
Allora i regi addimorati un poco,
Dentro alle pire fatte con dolore
Al morto suo ciascuno accese il foco,
E poi a Giove Stigïo di core
Fer sagrificio, acciocchè in pio loco
Ponesse que’ che per lo lor valore
Erano il giorno morti combattendo,
L’anime lor per altrui offerendo.
7
I grossi fuochi e grandi e bene ardenti
Consumar loro i corpi lor donati;
Li qua’ con vino dalle greche genti
Pietosamente fur mortificati:
E ricolte le ceneri cadenti,
Ne’ vasi furon messe apparecchiati
Con mano pia e con dolente verso,
Durante ancora assai del tempo perso.
8
E quante Niobe in Sifilone,
Allorchè i figli di Latona fero
Vendetta della sua alta orazione,
Ne portò urne, ed ivi in sasso vero
Si trasmutò, cotante è openione
Di quivi al tempio del gran Marte altero
Segnate gisser del nome di quelli,
Le ceneri de’ quai fur messe in elli.
9
Poi ricercarono i lasciati ostieri,
Siccome bisognosi di riposo,
E a dormire i regi e’ cavalieri,
E qualunque altro, al tempo tenebroso,
Tutti quanti ne giro volentieri,
Infino al nuovo giorno luminoso:
Quindi levati a corte ritornaro,
Dove Teseo levato già trovaro.
10
Tutti li Greci i quali avien difetto
Eran con somma cura medicati,
E lor donato sollazzo e diletto,
E ne’ bisogni lor bene adagiati:
Talchè di morte e d’ogni altro sospetto
Furono in pochi giorni liberati;
E come prima si rifecer sani
Così i cittadin come gli strani.
11
Ma solo Arcita non potea guarire,
Tanto era rotto dentro pel cadere:
Fevvi Teseo il grande Ischion venire
D’Epidauro, ed Arcita vedere,
Il qual si mise segreto a sentire
Del mal che Arcita in sè potesseFonte/commento: Milano, 1964 avere;
E senza fallo se n’avvide tosto
Come Arcita dentro era disposto.
12
Perchè a Teseo rispose di presente
In cotal guisa: nobile signore,
Il vostro Arcita è morto veramente,
Nè luogo ci ha di medico valore:
Giove potrebbe in vita solamente
Servarlo, se volesse, ch’è maggiore
Che la Natura, e puote adoperare
Assai più che Natura non può fare.
13
Ma lasciando i miracoli in lor loco,
Io dico ch’Esculapio non varrebbe
Per sanità di lui molto nè poco;
Nè ’l chiaro Apollo ancora, che tutta ebbe
L’arte con seco, e seppe il ghiaccio e ’l foco
E l’umido e ’l calore, e che potrebbe
Ciascun’erba o radice: però ch’esso,
Per lungo e per traverso è dentro fesso.
14
Dunque fatica per sua guarigione
Saria perduta, per quel ch’io ne senta:
Fategli festa e consolazione,
Sicchè ne vada l’anima contenta
Il più si può in l’eterna prigione,
Dove ogni luce Dite tiene spenta,
E dove noi di dietro a lui andremo
Quando di qua più viver non potremo.
15
Molto cotal parlar dolse a Teseo,
Perocchè Arcita sommamente amava;
Ed a chi questo udiva il simil feo,
Perciocchè ognuno alte cose sperava
Della sua vita, se ’l superno Iddeo
Vivo nelle parti attiche il lasciava:
Nè sapevan di ciò nulla che farsi,
Se non ciascun di Giove lamentarsi.
16
Adunque ciascun giorno peggiorando,
Il buon Arcita in sè si fu accorto
Che ’l suo valor del tutto gía mancando,
E che senza alcun fallo egli era morto:
NèFonte/commento: Milano, 1964 di ciò trarre il potea ragionando
Alcun giammai, e dandogli conforto:
Perchè volle di sè ciò che potesse
Disporre, sol che al buon Teseo piacesse.
17
E fello a sè senza indugio chiamare,
E cominciò con lagrime ver lui
Pietosamente in tal guisa a parlare:
O nobile signor caro, ed a cui
Mille volte morendo meritare
L’onor, del qual giammai degno non fui,
Nè potre’ mai, i’ mi veggio venire
Al passo, il qual nessun uom può fuggire.
18
Al qual s’io vegno, che vi son, contento
Ne vado, mal pensando che l’amore,
Il qual m’ha dato già tanto tormento
Per la giovane donna, che nel core
Ancora come mai per donna sento,
Lascio infinito, e te, caro signore,
Cui io appresso lei più disiava
Servir, che Giove, e più mi dilettava.
19
Ma più non posso, e farlo mi conviene:
Perch’io ti prego, per ultimo dono,
Se lungamente Iddio ti guardi Atene,
Che, poi del mondo dipartito sono,
E sarò gito a riguardar le pene
De’ miseri che pregan per perdono,
Quel che dirò tu facci sia fornito,
Se tu da Marte sempre sia udito.
20
Signor, tu sai che poi che di Creonte
Il giusto Marte ti diede vittoria,
Io che con lui t’era uscito a fronte
Per prigion preso fui, della tua gloria
Piccola parte, e certo non isponte,
E Palemone ancor, come a memoria
Esser ti dee, li qua’ festi guardare,
Forse temendo del nostro operare.
21
Ma poichè quindi fummo liberati,
Per tua bontà e per tua cortesia,
Li nostri ben, donde eravam privati,
Ci fur renduti, e ogni baronia,
Come ti piacque, avemmo, ed onorati
Fummo quali eravam giammai in pria,
De’ quali a Palemon tutta mia sorte
Ti prego doni, appresso la mia morte.
22
Similemente ancor t’è manifesto
Quanto amor m’abbia per Emilia stretto;
Il quale al tuo servigio sol per questo
Ad esser venni, nè ciò che sospetto
Mi dovea esser non mi fu molesto;
Anzi con fè serviva e con diletto;
Nè credo mai ti trovassi ingannato
Di cosa che di me ti sia fidato.
23
El m’insegnò a divenire umile:
Esso mi fe’ ancor senza paura:
Esso mi fe’ grazïoso e gentile:
Esso la fede mia fe’ santa e pura:
Esso mostrò a me che mai a vile
I’ non avessi nulla creatura:
Esso mi fe’ cortese ed ubbidiente:
Esso mi fe’ valoroso e potente.
24
Tanto mi diede ancor di pronto ardire,
Che sotto nome stran nelle tue mani
Mi misi a rischio di dover morire:
E certo a ciò non mi furon villani
Gl’iddii, anzi facevan ben seguire
I miei pensieri interi e tutti sani:
Nè mi vergogno che in tuo onore
Io ti sia stato lungo servitore.
25
Febo si fece servitor di Ammeto,
Mosso da quella medesma cagione
Che io mi mossi, e sì dolce e quieto
Servì, ch’egli ebbe la sua intenzione:
E certo io il seguiva mansueto,
Se el non fosse stato Palemone,
Nè dubito che ciò ch’io disiava
M’avessi dato, s’io mi palesava.
26
Or così va, e non si può stornare
Ciò che è stato: ond’io sono a tal punto
Qual tu mi vedi, e sentomi scemare
Ognor la vita, e già quasi consunto
Del tutto son, nè mi posso aiutare:
A tal partito m’ha or amor giunto,
A cui ho io servito il tempo mio
Con pura fede e con sommo disio.
27
Nè ’l merito di ciò che io attendea
Goder non posso, benchè mi sia dato:
Veggio di me che ciascun fato avea,
Che così fosse, in sè diliberato,
E che del mio servir voglion ch’io stea
Contento, che per merito onorato
Istato sia della data vittoria,
Che a’ futuri fie sempre in memoria.
28
Ed io perciò che più non posso avante,
Voglio aver questo per buon guiderdone:
E quel che fu così com’io amante,
E la sua vita ha messa in condizione
Di morte, e di periglio simigliante
A me, io dico del buon Palemone,
Dell’amor suo per merito riceva
La donna ch’io per mia aver doveva.
29
Io te ne prego per quella salute
Che tu a lui ed a me parimente
Donasti già, e per la tua virtute
Nota agl’iddii ed all’umana gente,
E per l’opere tue, che conosciute
Sono e saranno al mondo eternalmente,
E per la fede che io ti portai,
Mentre nel tuo servigio i’ dimorai.
30
Questa mi fia tra l’ombre gran letizia,
Che Palemone, cui molt’amo, sia
Tratto per me d’amorosa tristizia,
Possedendo egli ciò che più disia:
Pensando ancora ch’egli abbia dovizia
Di ciò ch’egli ama, per tua cortesia,
Almeno Emilia mentre fia in vita,
Vedendo lui, avrà a mente Arcita.
31
E questo detto, forte sospirando,
Tacque, cogli occhi alla terra bassati,
Tacito seco stesso lagrimando,
Nè quelli ardiva di tener levati:
Onde Teseo un poco attese, e quando
Vide ch’e’ suoi parlari eran posati,
Quasi piangendo, assai di lui pietoso,
Disse così con viso doloroso:
32
Tolgan gl’iddii, Arcita, amico caro,
Che Lachesis il fil poco tirato
Ancora tronchi, e cessi questo amaro
Dolor da me, se io l’ho meritato,
Che non si dia a tua vita riparo;
E già in ciò Alimeto ha pensato
Insiem con Ischion, e sì faranno,
Che vivo e sano a noi ti renderanno.
33
Ma pur se degl’iddii fosse piacere
Di torti a me, che più che luce t’amo,
A forza ciò ne converrà volere,
Perocchè isforzargli non possiamo:
Ciò che m’hai detto puoi certo sapere,
Che poi ti piace, siccome te ’l bramo,
E senza fallo tutto e’ fie fornito
Se tu venissi a sì fatto partito.
34
Ma tu come sì forte ti sgomenti?
Pensando che così notabil cosa,
Com’è Emilia, che farie contenti
Qualunque iddii, di tè tanto amorosa
Si fa vedere, e’ suoi occhi lucenti
Pur te disian con vista lagrimosa,
Ed essa è tua: deh prendi pur conforto,
Che ancor verrai a grazïoso porto.
35
Ben ci ha da render allo guiderdone
Delle fatiche da lui ricevute,
I’ dico al tuo amico Palemone,
Del quale a me domandi la salute:
Sol che tu sani, io ho opinione
Di porvi in parte, per vostra virtute,
Dove di voi tra voi ancor sarete
Contenti sì, che lieti viverete.
36
Arcita nulla a questo rispondea,
Sì lo strigneva l’angoscia d’amore,
Ed il suo stato assai ben conoscea,
Posto che i conforti del signore
Divoto udisse quanto più potea:
E già l’ambascia s’appressava al core
Della misera morte; onde si volse
In altra parte, ed a Teseo si tolse.
37
E poi ch’e’ fu alquanto dimorato
Senza mostrare o dire alcuna cosa,
Com’era in prima si fu rivoltato,
E ’n voce rotta assai ed angosciosa
Prega che Palemon li sia chiamato
Anzi ch’e’ lasci esta vita noiosa:
Il qual lì venne senza dimorare
Con altri molti per lui visitare.
38
Il qual poi vide innanzi a sè venuto,
E rimirato l’ebbe lungamente
Con luce aguta, quasi conosciuto
Pria non l’avesse, con voce dolente
Disse: Palemone, egli è voluto
Nel ciel che qui più i’ non ne stia niente:
Però innanzi il mio tristo partire
Veder ti volli, toccare ed udire.
39
Tanto m’ha sempre avversato Giunone
Che del seme di Cadmo solo Arcita
N’è conosciuto, e tu, o Palemone:
Or mi conviene angosciosa partita
Da te parente amico e compagnone
Far, poi le piace, che alla mia vita
Stata è invidiosa, allor ch’ella potea
Più contentarla, se ella volea.
40
In quella entrata ch’io doveva fare
Ad esser degli suoi raccomandati,
Fa ella il mondo lieto a me lasciare,
Per congiungermi a’ nostri primi andati:
Or m’avesse ella pur lasciato entrare
Per tre giornate ne’ suoi disiati
Luoghi, ed appresso in pace avria sofferto
Ch’ella m’avesse morto, ovver diserto.
41
Non l’è piaciuto, ed io non posso avanti:
Dunque tu solo, che a me se’ rimaso
Del sangue altiero degli avoli tanti,
Quando verrà il doloroso caso
Ch’io lascerò la vita e tristi pianti,
Gli occhi, e la bocca e l’anelante naso,
Pregoti che mi chiudi, e facci ch’io
Tosto trapassi d’Acheronte il rio.
42
E perchè tu, siccome io, amato
Hai lungamente Emilia grazïosa,
Io ho Teseo a mio poter pregato
Che la ti doni per eterna sposa:
Pregoti che da te non sia negato,
Perchè tu sappi che di me pietosa
Ella sia stata, ed a me porti amore,
Ch’ella ha suo dover fatto e suo onore.
43
E giuroti per quel mondo dolente,
Al quale io vado senza ritornata,
Ch’a dire il ver giammai al mio vivente
Di lei niuna cosa t’ho levata,
Se non forse alcun bacio solamente;
Sicchè tal’è qual tu te l’hai amata:
Onde ti prego, per tua cortesia,
Che tu la prenda e che cara ti sia.
44
E lei con quell’amor che tu solevi
Portarle più ch’ad altra creatura,
S’egli era vero ciò che mi dicevi,
Onora e guarda, e sì d’operar cura,
Che ’l tuo valore usato si rilevi
A ricrear la nostra fama oscura,
Per lo dolente seme ch’è già spento,
S’a rilevarlo non dai argomento.
45
Certo quest’è manifesta cagione
Che ciaschedun dell’operato affanno
Ricever deggia degno guiderdone:
Dunque sarà per merito del danno
Che hai già avuto, e desolazione,
Com’io so, ed ancor molti sanno,
Ricever lei, che credo più che ’l regno
Di Giove l’avrai cara, e senne degno.
46
E s’ella forse, per la morte mia,
Pietosa desse alcuna la grimetta,
Sì la raccheta che contenta sia;
Perocchè la sua vista leggiadretta
Fatt’ha l’anima mia di lei sì pia,
Che ’l riso suo più me che lei diletta,
E così il pianto suo più me contrista,
Onde io mi cambio com’è la sua vista.
47
In questa guisa, se l’anima sente
Po’ la morte del corpo alcuna cosa
Di queste qua, tra la turba dolente
Andrà con più d’ardire e men dogliosa
E questo detto, più oltre niente
Allora disse; d’onde con pietosa
Sembianza e voce appresso Palemone
Incominciò così fatto sermone:
48
O luce eterna, o reverendo onore
Del nostro sangue, o poderoso Arcita,
S’egli non è in te spento il valore
Usato, aiuta la tua cara vita
Con conforto, sperando che ’l signore
Del ciel soccorre a chi sè stesso aita:
Nè far ragion che ’n giovinetta etade
Atropos ora pigli potestade.
49
Cessin gl’iddii che io ultimo sia
Di tanto sangue, se tu te ne vai,
Nè che Emilia mai diventi mia:
Tu l’acquistasti, e tu per tua l’avrai;
Nè l’ufficio che chiedi fatto fia
Colla mia man, per mia voglia giammai,
Ma la tua prole e tu gli chiuderete
A me, e sopra me vivi sarete.
50
Arcita disse: e’ fie com’io t’ho detto:
Il che s’avvien, ti prego quant’io posso,
Che il mio disio in ciò mandi ad effetto,
E questo sia, ogni altro affar rimosso;
Così disio, così mi fie diletto,
Così d’ogni gravezza sarò scosso:
E quinci tacquero amendue piangendo,
E ch’ivi stava ancor pianger facendo.
51
A cotal pianto Ippolita piacente
Vi sopravvenne ed Emilia con lei;
E quando vidon sì pietosamente
Pianger gli achivi e gli duci dircei,
D’Arcita dubitarono, e dolente
Ciascuna domandò li re lernei,
Che era ciò che i Teban piangieno,
E tutti loro ancor pianger facieno.
52
E fu lor detto: ond’ognuna di loro
Più ad Arcita si fecero appresso,
E cominciaron, senza alcun dimoro,
A ragionar di più cose con esso,
Ed a dargli conforto con costoro
Insieme, che eran lì venuti adesso:
Ed egli alquanto prese d’allegrezza,
Poichè d’Emilia vide la bellezza.
53
E poi ch’Arcita l’ebbe rimirata
Con occhio attento, siccome potea,
Ed ebbe bene in sè considerata
La gran bellezza che la donna avea,
Cominciò con sembianza trasmutata
A parlare in tal guisa qual potea,
Premessi avanti dolenti sospiri,
Caldo ciascun d’amorosi disiri.
54
Piangemi amor nel doloroso core
Là onde morte a forza il vuol cacciare;
Nè vi può star, nè uscire ne può fuore,
Sì ch’io il sento in me rammaricare
Con pianti, e con parole di dolore
Accese più che non potrei narrare:
In forma che di sè mi fa pietoso,
Ed oimè lasso, oltre ’l dover noioso.
55
Gli spiriti visivi assai sovente
Mostrano a lui l’angelica figura,
Per la qual’esso nel core è possente,
Dicendo: deh fia tal nostra sciagura,
Che ci convenga teco insiememente
Abbandonar sì nobil creatura?
Esso risponde loro, e sì gli abbraccia,
Dicendo: si, che morte me ne caccia.
56
Io me ne vo coll’anima smarrita,
La quale io presi col piacer di quella
Che da voi è nel mondo più gradita;
Dunque nelle sue man ricevam’ella
Quando farò la dogliosa partita
Dalla presente vita tapinella:
E questo detto, forte lagrimando,
Gli occhi bassò in terra riguardando.
57
Queste parole gli angelici aspetti
Di quelle donne conturbavan molto,
E con dolore offendevano i petti
Dilicati, in maniera che nel volto
Si parie loro: e ben sentieno i detti
Qual’erano, e che fosse in lor raccolto,
E ben l’occulta morte conoscieno
Nel viso a lui che già veniva meno.
58
Perchè Emilia disse: o signor mio,
Poscia che tu del viver ti disperi,
Deh dimmi, o lassa, e come farò io?
I’ ne verre’ con teco volentieri,
E già questo appetisce il mio disio,
Perch’io non so che fuor di te mi speri:
Tu solo eri il mio ben, tu la mia gioia,
E senza te non spero altro che noia.
59
A cui rispose Arcita: bella amica,
Prendi conforto, e del mio trapassare
Non prender nel tuo animo fatica,
Ma per amor di me di confortare
Ti piaccia: se giammai cosa ch’io dica
Intendi nel futuro d’operare,
I’ ho trovato, a tua consolazione,
Modo assai degno e con giusta ragione.
60
Palemon caro e stretto mio parente
Non men di me t’ha lungamente amata,
E per lo suo valor veracemente
È più degno di me che isposata
Li sii, e questo vede tutta gente:
Chè posto che vittoria a me donata
Fosse l’altr’ier, non fu già dirittura,
Ma solo fu la sua disavventura.
61
Di che gl’iddii errarono, e per certo
Credetter lui atare, e me ataro;
Ma poi che ’l loro error fu discoperto,
Ciò che avien fatto indietro ritornaro,
E me recaron a sì fatto merto,
Qual ora piango con dolore amaro,
Acciocchè tu ti rimanessi ad esso,
Com’essi avien diliberato espresso.
62
Ed io che tu sii sua me ne contento
Più che d’altrui, poi esser non puoi mia:
Ferma in lui il tuo intendimento,
E quel pensa di far che el disia;
Ed io son certo ch’ogni piacimento
Di te per lui sempre operato fia:
Egli è gentile, bello e grazïoso,
Con lui avrai e diletto e riposo.
63
Io muoio, e già mi sento intorno al core
Quella freddezza che suole arrecare
Con seco morte; ed ogni mio valore
Senza alcun dubbio in me sento mancare:
Però quel ch’io dico, per amore
Farai, poi più non posso teco stare:
I fati t’hanno riserbata a lui;
Me’ sarai sua, non saresti d’altrui.
64
Ma non pertanto l’anima dolente,
Che se ne va per lo tuo amor piangendo,
Ti raccomando, e pregoti che a mente
Ti sia tutt’ora, mentre ch’io vivendo,
Qui starà sotto del bel ciel lucente,
A te contenta la verrò traendo:
Ch’i’ me ne vo, nè so se tu verrai
Là dove i’ sia, ch’i’ ti riveggia mai.
65
Gli ultimi baci solamente aspetto
Da te, o cara sposa, i qua’ mi dei;
Ti prego molto; questo sol diletto
In vita omai attendo, ond’io girei
Isconsolato con sommo dispetto,
Se non gli avessi, e mai non oserei
Gli occhi levar tra’ morti innamorati,
Ma sempre gli terrei fra lor bassati.
66
Fatti erano i begli occhi rilucenti
D’Emilia due fontane lagrimando,
E fuor gittando sospiri cocenti,
Del suo Arcita il parlare ascoltando:
E ben vedeva per chiari argomenti
Che, com’egli dicea, venía mancando;
Perch’ella in voce rotta ed angosciosa
Così rispose tutta lagrimosa.
67
O caro sposo a me più che la vita,
Non verso te son crucciati gl’iddii:
Io sola son cagion di tua partita:
Io nocevole sono a’ tuoi disii.
Quest’è vecchia ira incontro a me nutrita
Ne’ petti lor siccome già sentii,
Li qua’ del tutto lo mio matrimonio
Negano, ed io ne veggio testimonio.
68
Il gran Teseo m’avea serbata a Acate,
Col quale io giovinetta mi crescea:
Bello era e fresco nella sua etate,
E nelli primi amori assai piacea
A me: ma la mal nata crudeltate,
Che ha contro il nostro sangue Citerea,
Nel tolse, già al maritar vicina,
Benchè io fossi ancora assai fantina.
69
Questa non sazia del primo operare
Contra di me, or le veggendo mio,
Similemente mi ti vuol levare:
Adunque non t’uccide altri che io;
Io, lassa, colpa son del tuo passare:
Il mio agurio tristo e ’l mio disio
Ti noccion, lassa, ed io rimango in pene
Ed in tormento, non qual si convene.
70
Oimè! sopra di me ne andasse l’ira
Che altrui nuoce, per la mia bellezza:
Che colpa ci ha colui che me disira,
Se la spietata Vener mi disprezza?
Perch’ora contra te diventa dira?
Perchè in te discopre sua fierezza?
Maledetta sia l’ora ch’io fui nata,
Ed a te prima giammai palesata.
71
O bello Arcita mio, senza ragione
Or foss’io morta il dì che in questo mondo
Venni, poi ti doveva esser cagione
Di morte, e torti di stato giocondo:
Donde giammai sentir consolazione
Non credo in me, ma sempre di profondo
Cor mi dorrò dopo la tua partita,
Se dietro a te rimango, caro Arcita.
72
Ora conosco i dolorosi ardori
Che oscuri mi mostrò l’altr’ier Diana:
Or so qual fosser l’aure che di fuori
N’uscir con vista e con voce profana,
E quel che della fiamma li furori
A me mostravan con mente non sana:
Chè se allor conosciuti gli avessi,
Non credo come stai, tu ora stessi.
73
Io mi sarei dolorosa parata
A te allor ch’al teatro ne gisti,
E di pietà e d’amor colorata
Avrei voltati li tuoi passi tristi,
E la dolente battaglia sturbata,
Per la qual morte per me ora acquisti:
Ma io non gli conobbi; anzi sperai
Tutto ’l contrario di ciò che tu hai.
74
Or più non posso; ond’io morrò dogliosa;
Nè so veder che di morir mi tene,
Vedendo, o sposo, tua vita angosciosa
Istar per me, ed in cotante pene;
Oimè isventurata, dolorosa,
Quanto mal vidi, e tu ancora Atene,
E quanto mal per te mi riguardasti
Il giorno che di me t’innamorasti.
75
Oimè che i fiori che allora coglieva,
E ’l canto, anzi fu pianto, ch’io cantava,
Erinni, lassa, tutto ciò moveva;
Ed io il sentii, che talora tremava
Pavida, e la cagion non conosceva,
Nè le future cose immaginava:
Or le conosco, che son nel periglio,
Nè posso ad esse porre alcun consiglio.
76
Ed ora, caro sposo, mi comandi
Che tu mancato, i’ prenda Palemone?
Certo le tue parole mi son grandi,
E debbo quelle per ogni ragione
Servar, più che gli eccelsi e venerandi
Iddii ch’ora m’offendon, nè cagione
Non n’hanno; ed io così le serveraggio
In quella guisa che io ti diraggio.
77
Io so che Palemon m’ha tanto amata
Quant’uom gentil nessuna donna amasse;
Di che io non gli voglio essere ingrata,
Ed eziandio se Giove il comandasse:
Chiaro conosco che a chiunque data
Fossi, se esso di grazia abbondasse
D’ogni vivente, ch’io nel priverei,
Tanto gli angurii miei conosco rei.
78
E s’io a te son or cagion di morte
E ad Acate fui, l’aver nociuto
Al mondo tanto assai gravosa sorte
M’è a pensar; nè quinci spero aiuto
Che possa sostener mia vita forte,
Che poi lo spirto tuo sarà partuto
Che dietro a te, per soperchio dolore,
Io non ne venga seguendo ’l tuo amore.
79
E se pur fia la mia disavventura
Di vivere oltre a te, non vo’ donare
A Palemone della mia sciagura,
Là dove esso per fedele amare
Ha meritato; ma sola mia cura
Ne’ boschi fie Diana seguitare,
E ne’ suoi templi vergine vestita
Serverò sempre mai celibe vita.
80
E se Teseo vorrà pur che io sia
D’alcuno sposa, agl’inimici sui
Mi mandi, acciò che la sciagura mia
Ad essi noccia, e sia utile a lui:
E Palemon è tal, che s’el disia
D’avere sposa e’ troverà altrui
Che gli sarà più non sare’ i’ felice:
E ciò il cor manifesto mi dice.
81
Gli stremi baci, oimè, li qua’ dolente
Mi cerchi, ti darò volonterosa,
E prenderogli ancora parimente
A mio poter, dopo li qua’ mai cosa
Non fia ch’io baci più certanamente:
Ma la mia bocca sempre, come sposa
Di te, co’ baci che le donerai,
Guarderò mentre in vita sarò mai.
82
E quinci quasi furïosa fatta,
Piangendo con altissimo romore,
Sopra lui corse in guisa d’una matta,
Dicendo: caro e dolce mio signore,
Ecco colei che per te fie disfatta,
Ecco colei che per te trista more,
Prendi li baci estremi, dopo i quali
Credo finire i miei eterni mali.
83
E pose il viso suo su quel d’Arcita,
Palido già per la morte vicina,
Nè ’l toccò prima, ch’ella tramortita
In su la faccia cadde risupina:
Ma poi appresso si fu risentita,
Piangendo cominciò: oimè tapina,
Son questi i baci che io aspettava
Da Arcita, il quale più che me amava?
84
Alle nimiche mie cotal baciare,
O dispietati iddii, sia riserbato.
Arcita, che nel ciel esser gli pare,
Il bianco collo teneva abbracciato,
Dicendo: omai non credo male andare,
Tal viso al mio ho sentito accostato:
Qualora piace omai all’alto Giove
Di questa vita mi tramuti altrove.
85
Quivi era sì gran pianto e sì doglioso
Di donne di signori e d’altra gente,
Che vedean questo, onde ciascun pietoso
Era assai più che distretto parente:
Che non si crede sì fosse noioso
Allor che Febo si mostrò dolente,
Tornando addietro nel tempo che Atreo
Mangiar i figli al suo Tieste feo.
86
Ed essa allora, siccom’esso volle,
E come volle Ippolita, drizzossi,
E sè e lui aveva tutto molle
Di lagrimari da’ begli occhi mossi,
Nè più nè men come il Menalo colle
Quando che d’Ariete riscaldossi,
E consumata sua veste nevosa,
Mostrò la faccia sua tutta guazzosa.
87
E quel dì tutto quanto si posaro,
Senza più rinnovare altro dolore;
Benchè nel cor l’avessono sì amaro,
Quanto potea esser più a tutte l’ore:
E con parole assai riconfortaro
Emilia e Arcita, e il furore
Lor temperaron con soavi detti,
Lena rendendo a’ desolati petti.
88
Nove fïate s’era dimostrato
Il sole, ed altrettante sotto l’onde
D’Esperia s’era col carro tuffato,
Poi si mutaron le cose gioconde
Per lo cader di Arcita in tristo stato,
Quando nel tempo che tutto nasconde,
D’Emilia avendo il dì i baci avuti,
Parlò Arcita a’ suoi più conosciuti:
89
Amici cari, io me ne vo dicerto,
Perch’io vorrei a Mercurio litare,
Acciò che esso, per sì fatto merto,
In luogo ameno piacciagli portare
Lo spirto mio, poi che gli fia offerto;
E vorrei questo domattina fare:
Però vittime, legni ed olocausti
M’apparecchiate a lui decenti e fausti
90
Palemon ch’era a questo dir presente,
Come quel che da lui mai non partia,
Fe’ apprestar tutto ciò immantenente
Che a cotal meslier si convenia;
E sangue e latte nuovo di bidente
Gregge e d’armenti, quali all’ara pia
Si richiedean di così fatto Iddio,
Per adempire d’Arcita il disio.
91
Il giorno venne oscuro e nebuloso;
E questi Febo s’avea messi avanti
Al viso, acciocchè ’l morire angoscioso
D’Arcita non vedesse i tristi pianti
D’Emilia bella, a’ qual assai pietoso
Si mostrò il giorno, gli suoi luminanti
Raggi celando in fra le nebbie iscure,
Vedendo chiaro le cose future.
92
Allora l’ara fu apparecchiata,
E’ fuochi accesi, e gl’incensi donati,
E ciascun’altra offerta a ciò parata,
E’ sacerdoti i versi ebber cantati
Con voce assai dall’altre trasmutata,
E’ fumi furon tutti al cielo andati:
Arcita piano incominciò a dire
In guisa tal che si potè sentire:
93
O caro Iddio di Proserpina figlio,
A cui stà via l’anime portare
De’ corpi, e quelle, secondo il consiglio
Che da te prendi, le puoi allogare;
Piacciati trarmi di questo periglio
Soavemente per le tue sante are,
Le quali ancora calde per me sono,
Che a te in su quelle offersi eletto dono.
94
E quinci me in tra l’anime pie,
Le qua’ sono in Eliso, mi trasporta;
Chè se tu miri ben l’opere mie,
Non m’hanno fatto dell’aura morta
Degno, siccome fur l’anime rie
De’ miei maggiori, a’ qua’ crudele scorta
Fece Giunone adirata con loro,
Con ragion giusta a lor donando ploro.
95
Io non uccisi il sagrato serpente
Allato a Marte ne’ campi dircei,
Come fe’ Cadmo, della nostra gente
Avol primario; nè nelli baccei
Sagrificii tolsi fieramente
La vita al mio figliuol, come colei
Che dopo il danno riconobbe il fallo,
Nè potè poi con lagrime emendallo.
96
Nè siccome Semele in ver Giunone
Mai operai, nè sì come Atamante
Contra la prole divenni fellone:
Nè il mio padre uccisi, nè amante
Della mia madre fui, la nazïone
Nel sen materno indietro ritornante
Siccome Edippo; nè i miei frati uccisi,
Nè mai regno occupai, nè mal commisi.
97
Nè di Creonte l’aspra crudeltate
Mi piacque mai, nè in altrui l’usai:
E s’arme furon già per me pigliate
Incontro a Palemon, male operai,
Ed io ben n’ho le pene meritate:
Ma certo i’ non le avrei prese giammai,
Se esso non m’avesse a ciò recato;
Perch’era siccom’io innamorato.
98
Dunque tra’ neri spiriti non deggio,
O pio Iddio, ciò credo, dimorare,
E del ciel non son degno, ed io nol cheggio,
E’ m’è sol caro in Eliso di stare:
Di ciò ti prego, e di ciò ti richeggio,
Se esser può che tu mel deggi fare:
So che ’l farai, se così se’ pio
Come suogli esser, venerando Iddio.
99
Detto ch’ebbe così, con più dogliosa
Voce parole mosse, dove stava
Ippolita ed Emilia valorosa;
E i greci re e ciascuno l’ascoltava,
E Palemon con anima angosciosa,
Tanto del tristo caso gli pesava:
Ed esso con parola vinta e trista
Disse così con dolorosa vista.
100
Or mancherà la vita, ora il valore
A’ Arcita finirà, ora avrà fine
L’acerbo inespugnabile suo amore;
Ora vedrà d’Acheronte vicine
Le triste ripe, ora saprà il furore
Delle nere ombre, misere tapine;
Ora se ne va Arcita innamorato
Del mondo a forza sbandito e cacciato.
101
Ahi lasso me, che l’eta giovinetta
Lascio sì tosto, in la quale sperava
Ancor mostrar di men virtù perfetta;
Tale speranza l’ardir mi mostrava:
Oimè che troppo la morte s’affretta,
E più che in nessun altro in me è prava:
In me si sforza, in ver me la sua ira
Mostra quant’ella puote, e mi martira:
102
Dov’è, Arcita, tua forza fuggita?
Dove son l’armi già cotanto amate?
Come non l’hai, per la dolente vita
Dalla morte campare, ora pigliate?
Oimè che ella s’è tutta smarrita,
Nè più potrien da me esser guidate:
Perch’io per vinto omai mi rendo, o lasso,
E per più non potere oltre trapasso.
103
O bella Emilia, del mio cor disio,
O bella Emilia, da me sola amata,
O dolce Emilia, cuor del corpo mio,
Ora sarai da me abbandonata:
Oimè lasso, non so quale Iddio
In ciò mi noccia con voglia turbata:
Che per te sola m’è noia il morire,
Per te non sarò mai senza languire.
104
Deh che farò allora che vedere
Più non potrotti, donna valorosa?
Seconda morte i’ non potrò avere,
Benchè la cheggia per men dolorosa:
Nè so ancora che luogo mi tenere
Debba di la nella vita dubbiosa:
Ma se con Giove senza te mi stessi,
Non credo che giammai gioia sentessi.
105
Dunque angoscioso dovunque n’andraggio
Sempre sarò senza te luce chiara:
Nè mi sarà il secondo viaggio
A qui tornar concesso, o donna cara,
Come Peleo che fu mio signor maggio
Già mel concesse, allora che amara
Vita traeva in Egina, lontano
Del suo voler, bella donna, sovrano.
106
Lagrime sempre ed amari sospiri
Omai attende l’anima dolente
Per giunta, lasso, alli nuovi martíri
Ch’io avrò forse in fra la morta gente;
Gli qua’ tanti non fien, che i miei disiri
Di te veder faccian cessar nïente:
Ma sempre te nell’eterna fornace
Per donna chiamerò della mia pace.
107
Oimè dove lascio io cari amici?
Dove le feste ed il sommo diletto?
Ove i cavalli, omai fatti mendici
Del lor signore? ove quel ben perfetto
Che amor mi dava, qualora i pudici
Occhi d’Emilia vedeva e l’aspetto?
Ed ove lascio Palemon grazioso
Meco d’amor parimente focoso?
108
E Peritoo ancor, cui similmente
Più che la vita con ragione amava?
Ove li regi, e l’altra buona gente
Che loro a’ miei servigi seguitava?
Ove Teseo, nobil signor possente,
Che più che caro frate m’onorava?
Or dove lascio il reverendo Egeo?
Dove il mio caro e buon signor Peleo?
110
Certo io gli lascio dove rimanere,
S’esser potesse, vorre’ volentieri,
Ed in giuoco ed in festa ed in piacere,
Con principi con donne e cavalieri:
Sicchè del rimaner di lor mestieri
Non m’è dolermi; ma sol mi son fieri
Gli aspri pensier, che a me ne mostran tanti
Perder dovere, e me e tutti quanti.
110
Poscia ch’egli ebbe queste cose dette,
Di cor gittò un profondo sospiro
Amaramente, e di parlar ristette;
E in verso Emilia i suoi occhi s’apriro,
Mirando lei, e mirandola stette
Un poco, e poscia gli rivolse in giro:
E ciascun vide che piangeva forte,
Perocchè a lui s’appressava la morte.
111
La quale in ciascun membro era venuta
Da’ piedi in su, venendo verso ’l petto,
Ed ancor nelle braccia era perduta
La vital forza; sol nello intelletto
E nel cuore era ancora sostenuta
La poca vita, ma già sì ristretto
Eragli ’l tristo cor del mortal gelo,
Che agli occhi fe’ subitamente velo.
112
Ma poi ch’egli ebbe perduto il vedere,
Con seco cominciò a mormorare,
Ognor mancando più del suo podere:
Nè troppo fece in sè lungo durare;
Ma il mormorio trasportato in vere
Parole, con assai basso parlare,
Addio Emilia, e più oltre non disse,
Chè l’anima convenne si partisse.