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LIBRO DECIMO | 359 |
74
Or più non posso; ond’io morrò dogliosa;
Nè so veder che di morir mi tene,
Vedendo, o sposo, tua vita angosciosa
Istar per me, ed in cotante pene;
Oimè isventurata, dolorosa,
Quanto mal vidi, e tu ancora Atene,
E quanto mal per te mi riguardasti
Il giorno che di me t’innamorasti.
75
Oimè che i fiori che allora coglieva,
E ’l canto, anzi fu pianto, ch’io cantava,
Erinni, lassa, tutto ciò moveva;
Ed io il sentii, che talora tremava
Pavida, e la cagion non conosceva,
Nè le future cose immaginava:
Or le conosco, che son nel periglio,
Nè posso ad esse porre alcun consiglio.
76
Ed ora, caro sposo, mi comandi
Che tu mancato, i’ prenda Palemone?
Certo le tue parole mi son grandi,
E debbo quelle per ogni ragione
Servar, più che gli eccelsi e venerandi
Iddii ch’ora m’offendon, nè cagione
Non n’hanno; ed io così le serveraggio
In quella guisa che io ti diraggio.