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L'UOMO PRUDENTE | 207 |
SCENA VIII.
Segue notte.
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Beatrice e Colombina.
Colombina. Così è; sì, signora, l’ho sentita co’ miei propri orecchi quella pettegola di vostra figliastra a dir male di voi. Ne ha dette tante a vostro marito, ne ha dette tante! Cantava come un rosignuolo di maggio. Gli ha riportate tutte le parole che avete dette contro di lui, ed oltre al vero ha aggiunto ancora molto del suo. Se l’aveste veduta, come vi burlava bene. Contraffaceva tutti i vostri gesti, tutte le vostre maniere, la vostra voce, e si torceva di qua, e si voltava di là. Mi veniva voglia di pigliarla per quei capelli mal pettinati, e su quel viso patetico darle una dozzina di schiaffi spiritosi.
Beatrice. Basta, basta, Colombina, non ne posso più. Sento che la rabbia mi rode, la collera mi divora. Voglio che costei me la paghi; voglio a tutto costo metterla in digrazia di quel babbeo di suo padre. L’invenzione che abbiamo trovata per farla credere di mal costume più che non è, sarà ottima ed opportuna, e spero che riuscirà, come abbiamo fra di noi concertato. Chiamami Arlecchino. Facciamo ch’egli vada subito a ritrovar il signor Lelio ed il signor Florindo, e con bel modo facciamoli venire questa notte qui in casa. Tu eseguirai quanto abbiamo stabilito, e se la cosa riesce secondo il disegno, mi leverò dinanzi agli occhi questa impertinente che mi perseguita.
Colombina. E pure è vero, bisogna guardarsi da’ nasi dritti e da’ colli torti. Ora chiamo Arlecchino. (parte)
SCENA IX.
Beatrice sola.
In casa mia voglio poter fare quello che voglio. Ho preso un vecchio per questo, che per altro non mi sarebbe mancato un giovi-