Il tesoro (Deledda)/Capitolo VI

Capitolo VI

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Capitolo V Capitolo VII
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VI.


Una mattina di settembre Costanza Brindis e Cicchedda si recavano per tempissimo ad Oliena, cavalcando entrambe sullo stesso cavallo. Non era il famoso cavallo nero di Salvatore, ma la placida acchetta castana di Alessio. Salvatore non cedeva mai, neppure alle sue donne, il cavallo favorito, mentre il nipote prestava con buona grazia la sua cavalla. Egli possedeva una specie d’allevamento equino: ogni anno vendeva due o tre cavalli, tenendo gli altri al pascolo delle sue tancas, e, oltre la sua acchetta favorita, li prestava volentieri agli amici ed ai parenti. [p. 103 modifica]

Ogni mattina Cicchedda sellava l’acchetta, la caricava di due alti cesti di canna, ficcati entro un’enorme bisaccia, e scendeva alla valle per coglier fichi d’india nel chiuso dei padroni. Il bestiame ed anche il personale di casa Brindis faceva un gran consumo di queste frutta: specialmente Cicchedda e Domenico da qualche tempo non vivevano d’altro.

Scendendo alla valle la ragazza trottava allegramente sulla cavallina, sferzandola con una fronda di sambuco: qualche volta l’acchetta galoppava sì bene che la dama andava a gambe per aria. Ma siccome, nell’ora mattutina e nel deserto stradale, nessuno assisteva al capitombolo, ella si ricomponeva subitamente, e senza confusione risaliva in sella imprecando la cavalla. Giunta al chiuso, spiccava i fichi d’India con una lunga canna e cantava ad altissima voce i mutos più appassionati. Ne componeva ella medesima con meravigliosa voce poetica; aveva una bella voce tremolante, e in campagna, o quando in casa puliva la farina, al rumor cadenzato dello staccio, o lavando nel ruscello, cantava a perdita di fiato. Ora pronunziava perfettamente il nuorese (aveva stretto relazione con molte ragazze allegre) e nell’ultima estate aveva subito una specie di trasformazione morale e materiale. Non più sonno negli occhi. Non più sorrisi stupidi. Pretendeva d’esser vestita bene e [p. 104 modifica] cominciava ad adottar tutte le civetterie e le grazie delle ragazze nuoresi.

Non saltellava più, ma il padrone continuava a dirle quel tale motto; e quando Alessio era presente e lo udiva, ella diventava rossa come il melograno e piangeva segretamente.

Ma aveva un progetto col quale sperava di por fine al tormento. Più volte, visto che Costanza non si recava più ad Oliena, invocò il permesso d’andarvi da sola, a piedi.

— Tre ore, tre ore sole, padrona mia!

Ma Agada rispondeva di no.

— Eh, c’è tempo! Andrai con Costanza quando sarà filata tutta la lana che dovete portar alla tessitrice di Oliena. — Ma questo non era che un pretesto, e la gita di Costanza veniva rimandata di giorno in giorno, in attesa della risposta alla lettera di Elena Bancu.

Ma in settembre la risposta non era giunta. Ormai le Brindis diffidavano; s’erano pentite d’aver rivelato la storia del tesoro; sentivano che, arrivasse o no la risposta, fosse vera o falsa la cosa, poco conto dovevano farci.

Un solo filo di speranza le univa ancora al caro sogno perduto; e un giorno, essendo filata tutta la lana, Costanza e Cicchedda montarono sulla cavalla di Alessio e s’avviarono ad Oliena. La servetta non stava in sè dalla gioia; col viso in aria diceva una sciocchezza ad ogni passo della cavallina, e Costanza, guardando innanzi a [p. 105 modifica] sè seria e composta, ancora un po’ assonnata e pallida, taceva o rispondeva con indifferenza.

L’aurora rosseggiava ancora dietro le alture della Solitudine, e solo nello sfondo della valle le montagne d’Oliena apparivano rosee sul cielo purissimo e luminoso, nelle prime irradiazioni del lontano sole nascente. Ma il versante occidentale dell’Orthobene e lo stradale e la sottostante vallata restavano nell’ombra freschissima del primo mattino: nelle fratte roride, fra i grigi olivi sognanti, era un allegro cinguettìo di uccelli; freschi profumi di erbe aromatiche, di lentischi e di roccie bagnate di rugiada scendevano dalla montagna.

Il sole era già alto quando sbucarono dalla pianura d’Oliena, in faccia alle montagne color di lilla, e fra i campi privi d’alberi e biondissimi per le fitte stoppie rase. Cominciarono ad incontrare paesani a cavallo e paesane a piedi, che, con le scarpe in mano, si recavano a Nuoro per vender frutta.

Cicchedda, riconoscendo le sue compaesane, le chiamava a nome, dimenandosi sulla cavallina e ridendo altamente. Le olianesi si fermavano meravigliate, non riconoscendola nel suo costume nuorese, e le dicevano insolenze. A un certo punto Costanza, seccata, rivelò l’essere della sua compagna.

— Oh, oh, è Cicchedda Brontu! Guardate, [p. 106 modifica] guardate, è Cicchedda Brontu! — gridarono le olianesi, circondando la cavallina.

Una ragazza lacera disse: — Oh, oh, ti sei levata la crosta?

— Io sì. Levatela tu, ora! — gridò Cicchedda.

Le donne risero, ma quando si furono allontanate, la fanciulla lacera si volse e gridò:

— Ma io non vado a Nuoro per mendicare!

Cicchedda arrossì; voleva scendere e lanciar una pietra all’insolente, ma Costanza, temendo uno scandalo, spinse la cavalla al galoppo. La servetta dovette aggrapparsi forte, gridando per la paura di cadere, e quando l’acchetta riprese il solito passo, disse:

— Le vedi! Le vedi le olianesi che non possono veder nessuno a camparsi la vita! Meglio sarà — aggiunse dopo, pensandoci — meglio se mi vedranno maritata!

— Diavolo! — esclamò Costanza. — Che idee hai! Pensi di pigliar marito? È per questo che da qualche tempo stai diventando....

— Cosa sto diventando? Cosa sto diventando? — gridò ella rossa e stizzita.

— Eh, stai diventando viva! Hai grilli per la testa? Zia Agada te li caverà col manico della scopa.

Cicchedda rise, con occhi splendenti; rise anche Costanza, e un paesano dalle vesti bianche di calce, che passava in quel punto, le guardò e disse: [p. 107 modifica]

— A poco, a poco, belline mie, altrimenti cascate da cavallo.

Ma esse non risposero, per non provocare insolenze, e continuarono a ridere nella frescura proiettata dagli alberi degli orti verdi e irrigati.

— Quando tu sposerai con Alessu — disse Cicchedda — mi regalerai lo scarlatto e l’orbace d’una veste, ed anch’io allora mi procurerò l’innamorato....

— Alessu non pensa a riprender moglie, e in tal caso non penserebbe a me. La vuol ricca e buona massaia. Tu gli converresti! — disse l’altra con ironia.

— Io? Io non son degna neppure di legargli le scarpe! — esclamò Cicchedda arrossendo, fattasi seria. — Non occorre che tu ti burli di me, perchè son povera. Ma tu che sei ricca....

— Ma che ricca d’Egitto! — disse Costanza.

Tacquero, come immerse entrambe in un sogno, e così fecero il loro ingresso in Oliena. Cicchedda non provò alcuna forte commozione nel rivedere le prime case rovinate del suo paese, e le donnicciuole che uscivano sulle porticine per guardar curiosamente, ma pareva colta da una vaga tristezza, e i suoi grandi occhi sognavano dietro un pensiero ineffabilmente dolce e doloroso.

Smontarono in una casetta di misera apparenza, presso una parente di Cicchedda, tessitrice, a cui Costanza consegnò i grandi gomitoli [p. 108 modifica] bianchi e neri di lana filata, e un pezzo di carne cruda. La donna si diede subito a cucinarla, e le ospiti uscirono a girovagare per il villaggio.

Nessuno riconosceva più in Cicchedda la piccola e stracciata mendicante di tre anni prima; essa ne era contenta e se Costanza la presentava come olianese, negava recisamente d’esserlo.

Pareva che una nuova coscienza si destasse in lei, facendola arrossire del suo misero passato.

Non sapendo come passar la mattina, padrona e serva se n’andarono in una vigna della tessitrice, poco distante dal villaggio, sulle falde della montagna. Il luogo era quanto mai pittoresco, olezzante di timo e di verbasco; l’ombra delle bianche dolci montagne pioveva sulle fresche vigne, dove l’uva era già matura, dove le susine violette spiccavano sul verde lucente degli alberi snelli. Nelle pendici dell’ultimo orizzonte soleggiato si vedeva Nuoro.

— Che starà facendo zia Agada? — domandò Cicchedda, guardando lassù con nostalgia.

— Starà facendo il pranzo! — disse Costanza, lavandosi in una fontana; e aggiunse con malizia: — Dove ti piace più, qui o a Nuoro?

— A Nuoro! — disse la ragazza.

— Che mi uccidano con una fucilata! Cicchedda è innamorata! — pensò Costanza cogliendo le susine violette. — Ma di chi? Purchè non si rompa l’osso del collo! — E scosse la testa, sembrandole che la servetta fosse male avviata, e [p. 109 modifica] che si destasse troppo fatalmente dal suo stupido sonno infantile.

Ritornando, mentre percorrevano un viottolo chiuso da muricciuoli assiepati di rovi, Costanza domandò:

— Dunque, andremo dalla maga?

— Sicuramente! — disse Cicchedda, e pensò: — E non siamo venute per questo?

— E cosa le chiediamo? — fece l’altra con falsa ingenuità.

— Eh, lo sai tu cosa vuoi chiederle! — pensò Cicchedda. Poi disse: — Io le chiederò se mi devo maritare....

— Non pensi ad altro! Sei innamorata? Ti han veduta discorrere con un convittore....

Cicchedda rise, scuotendo le spalle come per dire: Che sciocchezza! ed esclamò:

— È uno studente d’Oliena: ogni volta che mi vede mi ferma, ma io non bado a lui!

— Non badi a lui? E dunque a chi badi? Con chi fai l’amore?

— Col pane! — disse l’altra ridendo. Poi s’infastidì. — Ma lasciamo questi discorsi e andiamo da zia Marta Fele.

— Bisogna esser sole ad interrogarla?

— Te l’ho detto mille volte. Hai paura tu?

— Fa del male? Mi toccherà? — domandò Costanza impensierita. — Nessuno vedrà?

— Macchè! Nessuno. [p. 110 modifica]

— Sai cosa voglio chiederle? — disse Costanza, pensando che bisognava cercar una scusa.

— Se l’innamorato ti tradisce?

— Io non ne ho e non penso a queste pazzie. Senti, ma giura che non dirai a nessuno....

— In coscienza dell’anima!

— Senti, mia nonna era una donna danarosa. Ora, quando morì, non le trovarono un centesimo, e tutti dicono che ha nascosto molto denaro, e che la morte non le diede tempo di dir dove. Ora io voglio domandare alla maga se ciò è vero, e se il denaro si può ritrovare e dove. Ti pare che risponderà?

— E perchè no? — rispose Cicchedda mangiando la foglia. Per tutto il resto della via tempestò Costanza di domande, colta da una nuova tristezza. — Può esser molto il denaro?

— Eh altro! Più di diecimila scudi.

— Dio mio, Dio mio! Allora sì che sarai ricca, e se sposerai Alessio sarete i più ricchi di Nuoro!

— Oggi è domenica — disse Costanza passando davanti alla chiesa — e non siamo state neppure a messa. Se zia lo sapesse!

La chiesa era chiusa, e per quanto aspettassero nessuno venne ad aprire: si contentarono di guardare e pregare attraverso i fori della porta corrosa, poi ripresero la via verso la casa della tessitrice.

— Ti pare sia peccato consultare la maga? — disse Costanza, colpita. [p. 111 modifica]

— Sì, certo! — disse Cicchedda, colpita anch’essa da questo pensiero, o fingendo d’esserla. — Se zia Agada viene a saperlo ci rompe le costole!

— Non lo saprà, se tu non glielo dici.

— Io? Dio me ne liberi, ma può saperlo, ci vedranno entrare, e son così curiose le olianesi. Finchè non trovano il filo della matassa strappano.... — disse Cicchedda, e con grande eloquenza cercò di convincer Costanza a non visitar la maga. Quanto prima desiderava di andarci, altrettanto ora parea le ripugnasse il pensiero.

L’avrebbero saputo a Nuoro, ed era una gran vergogna consultar la maga; lo avrebbe saputo zia Agada e guai! Bisognava portar qualche regalo alla maga, che non accettava denari e non avevano che cosa regalarle. E poi, chi sa se indovinerebbe, chi sa se non s’approfitterebbe lei del segreto.

E poi era peccato, e mille altre storie.

Evidentemente rinunziava al suo tanto vagheggiato consulto, purchè Costanza non avvicinasse la maga; ma l’altra seppe vincere ogni difficoltà, ogni dubbio, e, per non destar sospetti, ella dovette guidarla dalla Fele.

Eran le due: il sole ancor ardente di settembre bruciava le misere viuzze; e a misura che si avvicinavano alla casa della maga, il quartiere diventava più desolato, coi viottoli sporchi, le [p. 112 modifica] casette rovinate, sotto il gran cielo luminoso e caldo, nella viva luce del pomeriggio.

Davanti alla casupola della maga, la tristezza dell’ambiente raggiungeva un grado di disperazione, che s’infiltrava anche nell’anima delle due fanciulle, poco adatte tuttavia a ricever l’impressione dei luoghi e delle cose.

Non si vedeva nessuno; il viottolo s’allargava in un piazzaletto pieno di fossi, invaso d’ortiche e d’altre male erbe secche.

Da un muro in rovina sporgeva un melanconico caprifico polveroso, e un cane grigio, magro e silenzioso, frugava tra i rifiuti della strada.

— Zia Marta, zia Marta? — chiamò Cicchedda da una porticina aperta. E siccome nessuno rispondeva, le ragazze s’avanzarono per una cucina buia, dove in un canto si scorgeva una mola in disuso e un forno in rovina. In fondo c’era un’altra porticina; Cicchedda l’aprì con disinvoltura ed entrarono in un cortiletto dello stesso genere della strada, invaso d’erbe secche e di pietre.

All’ombra d’un caprifico — quello stesso che sporgeva sulla strada — una donna ritta, lacera e consunta, filava, circondata da sei galline sonnolenti. La tristezza aumentava, Costanza esitava ad avanzarsi.

— Vieni — disse Cicchedda, incoraggiandola: e si diresse verso la donna, salutandola a voce alta. Dal movimento ch’ella fece, Costanza [p. 113 modifica] s’avvide che la filatrice era sorda; credendola la maga, fece una smorfia, ma Cicchedda disse:

— È la sorella di zia Marta.

A furia di gesti la servetta riuscì a farsi riconoscere, ed a spiegare il motivo della visita.

— Dov’è zia Marta? — gridò accostando la bocca e le mani all’orecchio della sorda.

La donna, che guardava fissamente Costanza, sorridendole, additò in fondo al cortile una casetta ad un piano; bisognava arrampicarsi su una vecchia scala a piuoli per arrivare ad una porta che s’apriva quasi sotto il tetto.

La sorda fece capire che la maga, invasa dagli spiriti, era lassù.

— Da molto? — domandò Cicchedda additando la casetta.

— Da poco.

— Presto, Costanza, sali per la scala ed entra. Quando stanno per venirle gli attacchi zia Marta ha cura di ritirarsi là.

Ma Costanza esitava, e domandò guardando la porta:

— Ma è aperta? Non può cadere di là?

— È in una stanzetta attigua. Va.

— Ho paura — disse piano Costanza.

— Che sciocca! Non ti farà nulla. È una vecchia che un pugno può atterrare.

— Ma gli spiriti? — Quasi tremando Costanza s’avviò verso la scala, e mentre Cicchedda gliela sosteneva, s’arrampicò lesta, fingendo di ridere, [p. 114 modifica] ma con gran freddo in cuore. Arrivata all’altezza della porta la spinse, e guardò prima di entrare. Era una stanzetta sotto il tetto, con un vecchio e misero letto di legno, un’arca antica, una brocca per terra, e tele di ragni negli angoli.

Aguzzando gli occhi Costanza vide, per la porta socchiusa, la maga coricata nell’attigua cameretta: era vecchia e pareva dormisse.

— Ho paura, ho paura! — pensò la fanciulla, tremando davanti al mistero, che l’idea del peccato rendeva più profondo: ma entrò egualmente, lasciando le porte aperte.

Guardò curiosamente ed a lungo la maga immersa in una specie di sonno catalettico; vestiva di nero, scalza e lacera, magra e dalla pelle bruciata; il volto però, contornato di capelli bianchi, raccolti entro una lunga cuffia nera, era chiaro, pallido, con lineamenti simpatici e profonde occhiaie violacee.

Costanza si rinfrancò, ma infastidita dal suo sonno, tornò sulla porta della prima stanza, e chinandosi disse:

— Dorme.

— Eh, aspetta finchè cominci a parlare; poi interrogala subito — le disse Cicchedda.

Ella chiuse la porta e ritornando presso il giaciglio della maga le vide, con nuovo terrore, il collo magro e nero gonfiarsi lentamente, e le sue mani contorcersi. [p. 115 modifica]

La povera vecchia fu assalita da orribili convulsioni epilettiche; Costanza credè che gli spiriti le invadessero e contorcessero il corpo.

Suggestionata la Fele diceva nelle sue convulsioni cose orribili e straordinarie, cambiando ogni tanto accento, riproducendo la voce di molti animali; parlava strani linguaggi, con accenti gutturali e striduli, che passavano per latino e spagnuolo, e che invece potevano essere ostrogoto. Questa virtù costituiva il suo maggior pregio e la sua più alta fama: ma per fortuna rispose in semplice olianese alle timide domande di Costanza.

E non disse nulla di preciso. Fra improperi, bestemmie e grida dell’altro mondo, rispose che il tesoro esisteva realmente, ma che bisognavano dati precisi per trovarlo.

— Diavolo! — pensò Costanza con rispetto della maga. — Se avessimo indicazioni precise non sarei venuta qui a spaventarmi.

Facendosi coraggio, incalzò con le sue domande.

— Sforzatevi, sforzatevi a indovinare il luogo, guardate bene, cercate....

La maga cercava, cercava, ma rispondeva sempre:

— C’è, c’è; ma bisogna aver le indicazioni. Portamele e ti condurrò....

— Se ho le indicazioni non occorre che mi conduciate voi! — pensò Costanza stizzita. [p. 116 modifica]

La maga, spaventosa, col viso, le mani ed il collo gonfi enormemente, si avvoltolava, aggrappandosi tenacemente al letto, contorcendosi tutta. Costanza temeva di vederla cadere, e spaccarsi il cranio nei furiosi colpi di testa che dava al letto, ma parea che la vecchia avesse l’istinto di non farsi del male. A momenti, per reazione o per dispetto. Costanza pensava se tutto non era una finzione, ma quando la maga emise una strana voce, simile al canto del gallo, rabbrividì di terrore, e fu per andarsene.

— Fermali, fermati; sei nuorese? — domandò la maga, con voce naturale e dolce.

— S’è svegliata? — si domandò Costanza; e si meravigliò scorgendo gli occhi della vecchia sempre chiusi, sempre le sue membra contorte dalle convulsioni.

— Io sono il più piccolo — disse la voce dolce della maga — quello che proteggo Marta Fele dagli altri sei demoni.

— Oh, oh! — esclamò fra sè Costanza, e arditamente domandò:

— E allora, perchè non mi rispondi tu?

Lo spiritello si stizzì, e mentre zia Marta si rizzava sul letto (Costanza si rifugiò nell’altra cameretta) gridò:

— E chi ti ha risposto se non io?

— Mi hai risposto un corno! — pensò la ragazza; poi, vedendo la maga ricader sul letto, battendosi forte la testa, disse: [p. 117 modifica]

— Be’! allora a rivederci.

— Ricordati del piccolo, del piccolo buono: bisogna fargli parte del tesoro, quando lo ritrovi, o la nuorese, o la nuorese — gridò un’altra voce della maga, fioca e rauca.

— Sta fresca! — rispose fra sè Costanza, scendendo rapidamente la scaletta.

Cicchedda le venne incontro correndo, e quasi non aspettava che ella fosse scesa del tutto per salire lei.

— Che furia! — disse Costanza, ridendo suo malgrado. Poi s’avvicinò con malumore alla sorda, e provando, nonostante la delusione sofferta, una gran pietà per le due misere creature, le mostrò del denaro, accennandole se l’accettava.

— No — disse la sorda, recisamente.

Non accettavano denaro per timore della polizia, e non si fidavano mai.

— E allora, cosa vi do? — esclamò l’altra, stendendo le mani aperte per significare che non aveva nulla.

— Hai visto com’è spoglia, e anch’io? — domandò la sorda, guardando le sue vesti lacere.

— Siamo quasi nude. Mandaci degli stracci da Nuoro.

— Sì — accennò Costanza con la testa.

La sorda le fissò ostinatamente il grembiale d’indiana turchina.

— Sta a vedere che lo vuole! — pensò la ragazza. — Glie lo do? No, è ancor troppo nuovo. [p. 118 modifica]

— Buona roba questa! — disse la sorda toccandoglielo.

— Eh, dicevo io!

Intanto Cicchedda, salita speditamente dalla maga, la toccava e le gridava:

— Zia Marta, zia Marta! Come state, non mi riconoscete? Sono Cicchedda, sono vostra nipote. Come siete invecchiata!

La maga, un momento immobile, muta e stecchita, riprese a batter forte il piede e la mano destra: diede dieci o dodici pugni al letto, poi molinò in alto il braccio, e se Cicchedda non si fosse tirata indietro, l’avrebbe colpita in viso. Ripresa dalle convulsioni, ricominciò a ringhiare, imprecando.

— Zia Marta — disse Cicchedda cogliendo il momento — sono vostra nipote, e sono venuta a farvi una domanda. C’è una persona che mi vuol male e mi sta sempre insultando. Ogni giorno. Cosa devo fare perchè non m’insulti più?

— Va al diavolo! — gridò la maga. — Va al diavolo!

— Andateci voi! — gridò Cicchedda. — Voglio che mi rispondiate. Eh, non siete con quella nuorese, ora, siete con me, con Cicchedda Brontu, vostra nipote. Rispondetemi, altrimenti vi batto!

— Bisogna far così, poveretta! — pensò. — Con la minaccia di batterla il piccolo risponde. Altrimenti no.

Infatti, per un fenomeno suggestivo, la maga [p. 119 modifica] parve sottomettersi al comando imperioso; anzi tremò e si acquietò.

— Eh — disse, come parlando in sogno — tiragli un morso al piede sinistro!

Cicchedda rise, per la volgarità e la difficoltà della ricetta, e intanto si pose a sedere su una seggiola sfondata, guardando pietosamente la misera stanza.

— È impossibile, cosa mi venite a dire? state per impazzire? Pensateci bene, è una sciocchezza! Sarei curiosa io, mordendogli il piede! E poi non è uomo da lasciarsi fare simili faccende. Alzerebbe lo stesso piede, e mi scaccerebbe da casa sua. Ed io non voglio andarmene, ora specialmente che la padrona mi ha promesso cinque lire al mese. Cinque o sei, lo vedremo poi. Avanti, dite. Qualche bibita, meglio, qualche scongiuro.

— Ah, giusto, una bibita! — rispose la maga.

— Gettagli nel vino un po’ di capelli bruciati.

— Null’altro?

— Nulla.

— Ma di chi?

— Della persona a cui vuol più bene.

— Alessio! — gridò fra sè Cicchedda, pensando istantaneamente ch’era una cosa difficilissima averne i capelli. Ripetè:

— Nient’altro?

— Nulla, nulla.

— Ah, ora — disse poco dopo — guardate [p. 120 modifica] questa cosa. — Trasse di tasca un fazzoletto di colore, e lo mise in mano alla maga, che lo strinse nel pugno.

— È un fazzoletto — disse, pur tenendo gli occhi chiusi.

— Di chi è?

— D’un uomo.

— Mi vuol bene quest’uomo? — chiese la fanciulla, arrossendo.

— Quanto ne vuole a me!

La risposta rattristò Cicchedda. Riprese il fazzoletto e, chinandosi sulla maga, che s’agitava e gemeva quasi cercando di sottrarsi alla suggestione, domandò timidamente:

— Chi sposerà?

— Non lo so.

— Chi sposerà? Rispondetemi!

— Una ragazza povera.

— Molto?

— Molto.

— Dio, Dio mio! — sospirò la fanciulla.

— Sarò io? — domandò.

— Non lo so, non lo so. Vattene.... — disse zia Marta con stanchezza, e non fu possibile a Cicchedda di saperne oltre: ma credeva saperne abbastanza, e un profondo sentimento di dolore e speranza la vinceva tutta.

— Addio! — disse, e pensando a quanto Costanza non avea pensato, mise qualche moneta di rame sotto il guanciale della zia. [p. 121 modifica]

Appena fu uscita sentì la maga rifare il canto lugubre del gallo.

— Un malaugurio? — pensò tristemente.

Scesa nel cortile, Costanza le disse che la sorda desiderava il suo grembiale.

— E daglielo dunque! Ne hai tanti!

— Volevo darle denari....

— Ma che denari. Dà il grembiale a queste poverette.

Costanza se lo lasciò prendere, ma giunta sulla via se ne dolse; e si avviarono entrambe silenziose, come pentite della visita fatta.

All’imbrunire zia Agada le attendeva ancora, seduta sotto il portico con in grembo il piccolo Domenico, a cui voleva insegnar l’Ave Maria. Ma il bimbo le badava poco; aveva un’allegra parlantina e non stava fermo un minuto.

— Dov’è andata Cicchedda! — domandava ogni tanto. — Voglio Cicchedda e il pulcino e la tortorella.

— Sta quieto e impara: altrimenti vai all’inferno. Dio ti salvi, o Maria....

— Il pulcino, la tortorella....

— Ma che pulcino, ma che tortorella. Sta fermo e impara. Dio ti salvi....

— Nossignore! — esclamò alfine il bimbo con tono imperioso. — Voglio il pulcino, Cicchedda mi ha detto di portarmi un pulcino e una tortorella. Dov’è Cicchedda, perchè non ritorna?

— Ritornerà subito, cuoricino mio, non far da [p. 122 modifica] cattivo, altrimenti vengono le bestie cattive e ti mangiano....

— Dove sono le bestie cattive? — disse Domenico con spavalderia. — Se vengono Alessio prende il fucile e le spara! — Chiamava il babbo col suo nome e gli dava del tu, come spesso usava con gli altri. Agada s’ostinava ad insegnargli l’Ave, ma non ci era verso; alfine egli chinò la testina sul seno della zia e disse:

— Dov’è Cicchedda, quando ritorna? Se non ritorna ancora vado io a cercarla....

— Senti, senti, vengono! — esclamò Agada, come accennando ad un rumore lontano.

— Vuoi più bene a me, a Costanza o ad Alessio?

— A Cicchedda! — diss’egli vivamente; — e non si chetò finchè non rivide la ragazza: le si aggrappò alle gambe, emettendo grida di gioia, e chiedendo il pulcino e la tortora.

Ella gli portava invece un passerotto mezzo morto di fame e di spavento.

— Ecco la tortorella, uccellino mio, — disse prendendo il bimbo in braccio e baciandolo; — il pulcino non l’ho portato perchè le galline nostre l’avrebbero ammazzato per gelosia.

— Che sciocchezze dici al bimbo — disse Agada. — Perciò sta diventando matto come te!

— Matta sei tu, Agada Brindis! — gridò Domenico stringendo l’uccellino nel pugno. Le donne risero; e Cicchedda gridò: [p. 123 modifica]

— Non si dice così a zia, non si dice così!

Rientrando, Alessio trovò le donne che ridevano ancora, ma egli non rise, udendo i prodigi di Domenico, che, legato un filo alla zampina dell’uccello, cercava di farlo svolazzare. Gli si volse serio, e disse:

— Ripeti davanti a me le parole dette a zia Agada! — Domenico chinò la testina. — Chi te le insegna queste belle cose? Cicchedda forse?

Cicchedda arrossì e chinò anch’essa il capo. Alessio conchiuse:

— Se provi a dirle un’altra volta guai!

— E non ha detto che più di me, di Costanza e di te vuol bene a Cicchedda! — disse Agada con finta serietà.

— Sì, sì, vi piaccia o non vi piaccia, è così! — gridò Domenico con la vocina stridente.

Una risata alta ed allegra partì dal fondo della cucina, dove Cicchedda appendeva la sella ad un chiodo, e Domenico, temendo che il babbo lo picchiasse, si rifugiò laggiù tirando il filo del passerotto.

Ma il babbo pensava a tutt’altro che a picchiarlo: si sentiva anzi altero per la sua vivacità, e l’attribuiva a svegliatezza di mente: voleva però educarlo bene, e s’adirava sul serio quando il bimbo ripeteva inconsciamente certe impertinenze insegnategli da Salvatore Brindis, che ne rideva a più non posso. In Alessio era [p. 124 modifica] una specie di delicatezza signorile, che spiccava vieppiù accanto alla ruvidità di Salvatore. In fondo lo zio era più di buon cuore, ma si mostrava duro, insolente e volgare, mentre Alessio odiava la volgarità.