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chi e neri di lana filata, e un pezzo di carne cruda. La donna si diede subito a cucinarla, e le ospiti uscirono a girovagare per il villaggio.

Nessuno riconosceva più in Cicchedda la piccola e stracciata mendicante di tre anni prima; essa ne era contenta e se Costanza la presentava come olianese, negava recisamente d’esserlo.

Pareva che una nuova coscienza si destasse in lei, facendola arrossire del suo misero passato.

Non sapendo come passar la mattina, padrona e serva se n’andarono in una vigna della tessitrice, poco distante dal villaggio, sulle falde della montagna. Il luogo era quanto mai pittoresco, olezzante di timo e di verbasco; l’ombra delle bianche dolci montagne pioveva sulle fresche vigne, dove l’uva era già matura, dove le susine violette spiccavano sul verde lucente degli alberi snelli. Nelle pendici dell’ultimo orizzonte soleggiato si vedeva Nuoro.

— Che starà facendo zia Agada? — domandò Cicchedda, guardando lassù con nostalgia.

— Starà facendo il pranzo! — disse Costanza, lavandosi in una fontana; e aggiunse con malizia: — Dove ti piace più, qui o a Nuoro?

— A Nuoro! — disse la ragazza.

— Che mi uccidano con una fucilata! Cicchedda è innamorata! — pensò Costanza cogliendo le susine violette. — Ma di chi? Purchè non si rompa l’osso del collo! — E scosse la testa, sembrandole che la servetta fosse male avviata, e