Il tesoro (Deledda)/Capitolo VII
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VII.
Zia Agada restò grandemente mortificata ed afflitta per le risposte date dalla maga a Costanza. Tirò dal suo fuso un filo lungo come la disperazione e disse:
— È inutile! Non siamo nati per aver fortuna! — E avvolse il filo sospirando.
— Eppure nessuno mi leva di testa che Elena sappia qualche cosa. Abbiamo fatto male.
Costanza comprese ciò che avevano fatto male, e chinò la testa, guardandosi il grembiale e rimpiangendo quello dato alla sorella della maga.
Da quel momento le due donne caddero in una profonda melanconia; era troppo doloroso perdere ogni speranza. Che il tesoro esistesse ne erano ormai più che sicure, ma di ritrovarlo non speravano più; pure, in fondo, una speranza vaga, insensata, ricacciata e non confessata, restò: era la speranza dell’ignoto, di ciò che poteva accadere se non un giorno l’altro. Chi sa mai?
Dopo tutto Elena Bancu non era cattiva, ma religiosa e sincera. E poi le Brindis potevano tener d’occhio ogni avvenimento di casa Bancu. Un giorno Costanza, per consiglio d’Agada, disse ad Elena della sua visita alla maga.
— Credi tu a queste cose? — domandò Elena ridendo. — Io non so: eppure tu non sembri tanto ignorante. È anche peccato, sai? Se non ci procuriamo fortuna d’altra parte, stiamo fresche! — e aggiunse, fissando i grandi occhi in Costanza: — Ma già, tu fra poco non avrai bisogno di nulla. È vero che vai sposa ad Alessio?
— Macchè! — disse Costanza con aria contrita. — Chi te l’ha detto? Che sciocchezze si dicono! Come vuoi che Alessio pensi a riprender moglie se Maria è morta da sei mesi? Chi te lo ha detto? — insistè tuttavia con interesse.
— Chi? — fece Elena, come interrogandosi. — Aspetta. Chi me l’ha detto? Ah, Cicchedda!
— La nostra serva?
— Sì, l’altro giorno ch’è venuta qui.
— Ma guardate che matta! — disse Costanza arrossendo. — Ti giuro che non è vero! Ma tu pure dicono che vai sposa con un presidente. Non ricordo come si chiama.
— Non è vero. Sciocchezze — disse Elena con semplicità.
Appena rientrata, Costanza se la prese con Cicchedda; si bisticciarono, e se ne dissero di cotte e di crude. Ora la servetta rispondeva, s’inalberava ad ogni osservazione, assumeva un contegno stravagante; non lavorava più con la muta rassegnazione di prima, e perdeva in bontà e pazienza quanto sembrava acquistasse in intelligenza e bellezza. Eseguiva ancora e puntualmente le sue faccende, ma guai a dirle una parola di rimprovero. E ora Agada temeva di perderla; avendole la sua coscienza suggerito finalmente che il lavoro della fanciulla meritava un compenso, le assegnò cinque lire al mese, ma siccome sapeva, a tempo opportuno, fare della speculazione, un giorno tenne a Cicchedda questo discorso:
— Senti. Tu ora sei una ragazza che deve comportarsi con decoro e decenza....
Cicchedda lo sapeva di già, e fece una graziosa smorfia.
— ....ora, allorchè vai in chiesa, occorre che sii vestita di tutto punto, con le scarpe....
— Le ho!
— ....e il corsetto allacciato....
— Mi pare che non mi abbiate mai veduta in chiesa col corsetto slacciato!
— Eh, non ci vai molto in chiesa!
— Perchè non mi lasciate andare.
— No, perchè ti piace andar in giro. Ma lasciamo ciò. Dunque bisogna che tu sia decente, che li procuri il giubbone e la tunica.
— Se mi anticipate i denari!
— Non ne ho, ma tu sai che ho un giubbone ed una tunica che vorrei vendere perchè mi sono stretti. Te li do in conto della tua paga...
Cicchedda accettò, e così ebbe quasi un anno di paga anticipata, perchè Agada, con tutta la sua coscienza, glieli cedè a prezzo doppio del valore.
Con tutto questo temeva che qualche giorno la ragazza la lasciasse, e la trattava bene perchè difficilmente ora avrebbe trovato una domestica più esperta per quel prezzo vile. Oramai Cicchedda conosceva tutti gli angoli della casa, sapeva gli affari di famiglia, era agile, fedele, esperta, non tradiva il segreto, non rubava, mangiava e dormiva poco. Poi in certe ore era d’un buon umore invadente, che cacciava la melanconia dall’anima severa di zia Agada. Diceva ingenuità stravaganti e verità che facevano ridere, tanto erano profonde; portava dalle vie, dalle case, da tutti i buchi dove penetrava, un mondo di notizie, di pettegolezzi, di cose meravigliose ed emozionanti.
Le Brindis facevano vita ritirata, ma piaceva loro di conoscere i falli altrui, e godevano assai per le buone qualità di cronista di Cicchedda.
Poi Domenico s’era affezionato alla servetta con tutta la tenacia degli affetti infantili; senza di lei, che sembrava ammaliarlo, non mangiava, non dormiva, non stava tranquillo; e quando ella dovea allontanarsi per intere giornate, diveniva melanconico, inquieto e cattivo. Se si ammalava, il che spesso accadeva per i vizi che gli permettevano in assenza del padre, solo Cicchedda riusciva a curarlo e a fargli prendere medicine.
Ora Domenico, coi begli occhi verdi indifferenti, con le fossette delle guance fresche e rosate, col suo riso di uccellino, coi suoi cavallini e fucili di canna, con le sue monellerie, col suo fracasso che benchè minuscolo metteva sottosopra tutta la casa, coi suoi discorsetti strani e le parole che Salvatore Brindis gli insegnava, era l’idoletto domestico che guai a toccare!
Invece d’esserne gelosi, i Brindis si compiacevano della predilezione del bimbo per Cicchedda. Pareva loro un segno d’intelligenza: non era già tutto giusto e meraviglioso ciò che pensava, provava e balbettava il fraticello?
— Lasciandolo dunque affezionarsi a chi più gli pare e piace, contentiamoci che Cicchedda lo sappia pigliar per il suo verso, fargli ritirare il musino, prender le medicine, lasciarsi lavare e pulire, e insegnar le preghiere e le parole graziose. —
L’argomento era logico, non faceva una piega; era anzi quanto di più liscio si possa immaginare. E per tutte queste cose Agada temeva che Cicchedda l’abbandonasse col suo anno di paga anticipata.
Ma la ragazza non ci pensava neanche per sogno: voleva soltanto esser rispettata; sentiva una specie di fiera e selvaggia dignità, risvegliatasi a un tratto, per cui ora gli scherzi di Salvatore Brindis la pungevano come spilli arroventati. Che ella diventasse di giorno in giorno più alta e ben fatta, e pulita e bianca, che il modo con cui si tirava le maniche della camicia sulle bretelle del corsetto le desse un’eleganza tutta speciale, che restasse a testa nuda e la sua treccia attortigliata fosse bionda come la stoppia del grano, poco importava a Salvatore Brindis. Egli continuava a scherzare; egli, sempre per burla, diceva le più curiose ingiurie a tutti i suoi conoscenti; e prima di tutti a sua moglie; ma Cicchedda non voleva persuadersi che ciò era un segno di affetto, e pensava sempre fissamente al modo di procurarsi una ciocca viva dei capelli d’Alessio, per bruciarla e farla bere al padrone.
Veramente aveva un pensiero più fisso e tormentoso di questo, ma il desiderio di riuscire a far l’intruglio magico per zio Salvatore non era poca cosa.
Ora, grandemente difficile era l’impresa dei capelli. Alessio si pettinava ogni giorno, e sarebbe stato facile raccogliere i capelli che gli cadevano; ma no, bisognava che quelli destinati alla bella bevanda, fossero tagliati appositamente, con la precisa intenzione d’adoprarli a tal uso, e con desiderio, tacito od espresso, che riuscissero a buon effetto.
Ma perchè i capelli d’Alessio e non di altri? Era egli veramente la persona che Salvatore Brindis amava di più?
Cicchedda, per tre giorni e tre notti di seguito, aveva diligentemente esaminato la questione. Chi era la persona più amata dal padrone? Alessio, Agada, Domenico o Costanza? O qualcuno dei numerosi amici? Nicola Noina, per esempio, che amava come un fratello?
Per un momento ella pensò anche a Domenico; ma tosto le parve che un bimbo non potesse venir amato con la forza con cui s’ama un grande. Scartò poi decisamente Agada e Costanza; Salvatore Brindis non le sembrava un uomo capace d’amare sovra tutti una donna, fosse pure sua moglie o la sua figlia adottiva.
Restava Alessio; a lui bisognava tagliar i capelli, ed ella tremava a questo pensiero; ma appunto perchè Alessio non sentisse più gli orribili scherzi dello zio, la cosa era nacessaria ed urgente. Da qualche tempo poi ella si accorgeva che Costanza aiutava Salvatore a perseguitarla con insulti, specialmente in presenza d’Alessio.
— Padrona — disse un giorno in cui si trovava sola con Agada — mi fate un piacere?
— Vuol forse che le cresca la paga? — pensò Agada.
— Sentite — disse l’altra, sedendosi per terra ed estraendosi una spina dal piede, come se n’estraeva una dal cuore. — Io non so perchè il padrone e Costanza mi parlino sempre così male. Non faccio forse il mio dovere? Li offendo io?
— Tu pure sei linguacciuta.
— Linguacciuta! Linguacciuta! Quando mi rompono la pazienza! Altrimenti non molesto nessuno. Io vi do l’anima e il corpo, e voi, anzi voi no, ma Costanza mi tratta e mi parla così male! Mi dispiace perchè alla fine non sono più una ragazzina. Pare che non siate più contente di me! Potete dirmelo e me ne vado, non c’è bisogno di parlarmi male, e mettermi in caricatura. Sono come Dio mi ha fatta!
— Sei anzi una bella ragazza — disse Agada per lusingarla. — Prima non dico, ma ora....
— Bella o brutta, poco importa! Io riconosco tutto il bene che mi avete fatto, ma non c’è bisogno che nessuno mi rinfacci il modo con cui m’avete raccolta! L’elemosina l’han chiesta persino dei re, e la povertà non è viltà. Del resto, nel mondo nessuno deve fidarsi, perchè chi non ha mendicato da giovine, può farlo in vecchiaia. Eh, non guardatemi così, non dico per voi! Quello che più mi dispiace — aggiunse dopo un momento d’esitazione — è che mi prendono per una ragazzina, e dicono che ho le gambe di rana!
Agada rise suo malgrado.
— E poi — disse infine Cicchedda, mettendosi un dito in bocca e sfregando un po’ di saliva sul piede — vengono a dirmelo davanti agli uomini, che perciò mi rivolgono delle insolenze!
— Fa una cosa — disse Agada ridendo — mostra a tutti le gambe, e vedranno ch’è calunnia!
Ella sollevò vivamente il capo, guardò scandolezzata la padrona e disse con dispetto:
— Sentite, se non fate il piacere di finirla, voi e loro, vedrete la burla che vi faccio io!
Agada, temendo ch’ella se ne andasse, pregò Costanza e Salvatore di lasciarla in pace.
— Oh, va al diavolo! — esclamò Salvatore. — Ti occupi di queste cose? O sei gelosa?
Gelosa? Agada non sorrise neppure, tanto la cosa le parve sciocca.
— Che intendi dire, Salvatore Brindis?
— Voglio dire se ti salta in testa l’idea che tuo marito s’occupi sul serio della sua domestica, che il diavolo la scortichi!
— Ma non è questo che volevo dirti io!
— Sì, lo capisco, ma del resto faccio quel che mi pare e piace!
La sera infatti, mentre finivano di cenare, interruppe un grave discorso per dire:
— Vieni qui, Cicchedda, l’olianese mendicante, cosa sono i pettegolezzi che sei andata a raccontare alla tua padrona?
La fanciulla arrossì e provò un principio di spasimo.
— Io? nulla! — rispose.
— Nulla? Te lo do io il nulla! Ecco ora che la tua padrona è gelosa perchè crede che io mi occupi di te!
— Come siete matto! — esclamò la ragazza. — Fate venire il riso giallo! (sardonico).
— E proprio fai venire il riso giallo! — disse Costanza con disprezzo.
Ella, che cominciava a odiar la padroncina, provò un brivido di dispetto.
— Lasciatemi in pace — disse — io non vi cerco!
— Ma ti cerchiamo noi! — gridò Salvatore; e vistala metter il broncio, e respinger la cena, disse: — Mangia, mangia, che ti si mangi la polvere; e non tormentar più mia moglie!
Alessio e Costanza ridevano, e Cicchedda, con gli occhi velati di lagrime, si sentiva roder le viscere da quel riso.
— Non voglio nulla! — disse ad Agada che la lusingava. — Lasciatemi stare la testa.
— La testa e i piedi; ma mangia, altrimenti la rabbia ti rovinerà.
— Sempre, sempre così! — disse Costanza ridendo. — Io non so cosa diavolo hai. Diventi insopportabile ch’è un piacere!
— Dovresti star sempre allegra! — disse Alessio con la sua bella voce. — Cosa ti manca? Pensi forse a pagar le imposte?
— Le imposte ai ricchi, che perciò non hanno il diritto d’insultare i poveri! — disse Cicchedda fieramente.
Alessio ne restò così colpito che non rispose, e chinò gli occhi su Domenico, che appoggiato alle sue ginocchia si succhiava tranquillamente un dito.
Cicchedda mise sul fornello il paiolino dell’acqua per pulire i piatti, e uscita nel cortile si sedette sotto il portico.
La notte era oscura, troppo fresca; un vento leggero e melanconico gemeva, frusciando sul fico nero, dove cantava l’ultimo grillo: la fanciulla a testa nuda, provò un brivido di freddo, e si sentì triste, triste fino alla morte.
Si mise a singhiozzare piano, piano, amaramente, e non rispose ad Agada, che la chiamò dalla cucina.
Dopo un poco uscì Alessio e avvicinandosele disse con dolcezza:
— Perchè non entri? Domenico dorme; va e mettilo a letto. Fa da buona, lascia cantar zio: tu sai com’è fatto lui!
Ella si sentì alleggerire il cuore: avrebbe voluto disfarsi in lagrime, cadendo ai piedi d’Alessio, e singultò forte, ma di ineffabile dolcezza.
— Ma sai che sei una ragazza sciocca! — diss’egli, ancor più dolcemente. — E perchè piangi ora? Alzati, e va in cucina...
— Tutti mi vogliono male — singhiozzò essa — ma me ne andrò.... me ne andrò....
— Macchè! Nessuno ti vuol male; io almeno ti voglio bene! — disse Alessio, e per provarglielo le passò una mano sui biondi e freschi capelli.
Scherzava o diceva sul serio? La trattava da bimba o da fanciulla? Ella non se lo spiegò, ma sentì tutte le verdi stelle del cielo cader nel cortile, il fico ballare, il freddo cambiarsi in un calore delizioso e inebbriante; e senza accorgersene si trovò in cucina, ridendo silenziosamente e beatamente. Prese Domenico fra le braccia e tornò nel cortile.
Alessio non c’era più, ma ella lo vide lo stesso, e quando spogliò Domenico e lo mise a letto, e gli accomodò delicatamente la testina e le manine sul guanciale, facendogli il segno della croce, nascose il volto sulle coltri, e rise e gemette che pareva impazzita....
Il giorno dopo Alessio e Salvatore Brindis salivano a cavallo sulla montagna, recandosi a stimar le ghiande degli elci d’un’alta tanca, che dovevano prender in affitto per i loro porci.
A un certo punto, in un luogo d’una bellezza selvaggia e solenne, dove alte roccie di granito chiudevano il bosco meraviglioso, presero a parlar di Cicchedda.
I cavalli, un po’ ansanti e lucenti di sudore, camminavano silenziosamente sulle foglie morte, tra le felci secche e l’erba autunnale; Alessio diceva che Cicchedda era una bella ragazza, e la sua voce perdevasi stranamente nel silenzio profondo dell’alta foresta.
— Vi ricordate? Pochi mesi fa era così stupida e brutta! Io non so certi cambiamenti delle donne! Ora è bella, e lo diventerà di più. Ha i capelli che sembrano seta....
— Diavolo! Glieli hai toccati? — domandò Salvatore ridendo.
— Forse! — disse Alessio.
Salvatore, con quel suo grosso corpo un po’ abbandonato sulla sella, ansava, e ogni tanto si tirava sulla fronte la berretta che scivolava indietro, guardando in viso il nipote con occhi torvi e iniettati di rosso.
Alessio invece guardava innanzi a sè, continuando a parlar di Cicchedda; nelle sue labbra e nella espressione del suo volto, Salvatore scorgeva qualche cosa che non gli garbava.
— Senti — disse a un tratto, chinandosi sul cavallo per passare sotto le fronde basse d’un elce — mi pare che tu abbia guardato molto la ragazza.
— E perchè no? — rispose Alessio ridendo.
Ma Salvatore non aveva voglia di ridere.
— Ascoltami bene. Tua moglie è morta quest’anno, ciò non t’obbliga a sotterrarti subito dopo di lei. Sei giovane e forte, lo capisco benissimo, ma sarebbe una bellissima cosa se tu non guardassi tanto Cicchedda.
— Oh, diavolo! — gridò Alessio sbirciando maliziosamente lo zio. — Mi pare che la guardiate anche voi! — Ma Salvatore restò così duro e composto che il nipote, prendendo la cosa sul serio, aggiunse con disprezzo: — Non abbiate paura, no!
— Cicchedda io la considero come una figlia di famiglia — disse Salvatore, passando curvo sotto un altro elce; — è cresciuta in casa, non la manderò mai via....
Alessio ebbe un gesto come per dire: — Che me ne importa!
— Non voglio che in casa mia le succeda nessuna disgrazia; non voglio, capisci?
— Purchè non le accada altrove! — disse Alessio. — Essa è bella ed allegra, e non sono io solo a guardarla. La guardate anche voi, mi pare!
— Eh, diavolo, lascia questi discorsi! — gridò Salvatore, che diventava livido per la stizza. — Del resto faccia quel che le pare e piace!
Il discorso pareva finito; ma poi Salvatore fermò il cavallo, attese Alessio e disse recisamente:
— È una bambina, è anche un po’ sciocca, e può commettere qualche pazzia senza accorgersene. Voglio che tu faccia da savio, capisci? Potresti rischiare....
— Ma — esclamò Alessio, seccato — perchè ve la pigliate così? Ho forse detto qualche cosa, io?
— Vedi là il monte Palas de Casteddu? Ricordati ciò che oggi ti dico qui. Divertiti dove vuoi, fuorchè in casa mia, con quella ragazza. Altrimenti ti farò pagar caro ogni danno. Ricordatene!
E Salvatore allargò le braccia quasi chiamando a testimone la montagna.
Il bosco s’apriva in una verde radura, donde si godeva un immenso panorama, fino alle cerule montagne del Gennargentu; chine verdi e rocciose salivano fino agli estremi boschi della montagna; il mattino era fresco e splendido, il paesaggio meraviglioso nella dolcezza autunnale. Prima di riprender la salita, i cavalli si abbeverarono ad una fontana, presso una capanna addossata alle rocce, donde uscì un uomo armato di fucile. Era un bandito, che salutò, intrattenendosi fiduciosamente coi due passanti. Oltrepassata la fontana, essi presero a parlar del bandito, di ghiande, di porci e di tancas e la bionda Cicchedda parve completamente obliata.
Ma da quella sera Alessio entrò con lei nella più benevola relazione, cordiale e senza malizia, che non insospettì nessuno, fuorchè Costanza.
Questa ragazza, fredda e ambiziosa, contava dei diritti sul cugino, benchè non l’avesse mai realmente amato.
In un tempo lontano i parenti, gli amici ed i vicini glielo avevan designato come sposo; ma Alessio aveva sposato Maria, ed ella si era rassegnata, tanto più che essendo giovanissima non le mancava la speranza di sposare un altro principale. Non aveva mai fatto l’amore, nè probabilmente aveva mai amato. Come tutte le paesane nuoresi di buona famiglia, era in fatto d’onestà d’una delicatezza puritana; sarebbe morta di dolore, se qualcuno avesse trovato che ridire sulla sua condotta.
Intanto però, a venticinque anni, nessuno dei pretendenti, più o meno veri, di cui si vantava, si degnava di sposarla.
Ora, nonostante il lutto recente, i parenti, gli amici ed i vicini tornavano a combinar fra loro il matrimonio di Alessio con la cugina. Ed essa ci credeva, oh, se ci credeva! tanto più che ora Alessio era più ricco di prima, e i famosi pretendenti si lasciavano desiderare.
Tre mesi prima ella, insieme al sogno del tesoro, avea accarezzato la stolta speranza di sposar nientemeno che Cosimo Bancu: segretamente, nel suo sogno ambizioso, di cui, non conoscendo bene Cosimo, non poteva misurare l’impossibilità, aveva pregustato la voluttà di entrare in una famiglia signorile, di aver salotto, di indossare vesti ricamate e guanti; ma il luminoso sogno era caduto insieme alla speranza di ritrovare il tesoro, e la presenza d’Alessio, giovane e vigoroso, che portava il lutto con disinvoltura, l’avea consolata.
Tutti le chiedevano: «È vero che sposi Alessio?» Ella si stizziva, rispondeva di no, se la prendeva con Cicchedda, che confermava e propagava la diceria, ma in fondo si sentiva felicissima di tale domanda.
Circondava Alessio di cure e di gentilezze; davanti a lui si mostrava operosa e prudente, savia ed accorta, e benchè egli pensasse a tutt’altro che a corteggiarla, sperava assai.
Ma un giorno s’accorse dei grilli che Cicchedda aveva per la testa, e se ne indispettì, e cominciò a esserle ostile. L’avrebbe mandata via a spintoni cento volte al giorno, se non fosse stata la protezione che ora la ragazza godeva di Agada Brindis e dello zio Salvatore.
Nonostante certe sue malignità, Agada era troppo fatta all’antica per accorgersi di certe cose, e il padrone restava sempre fuori di casa; d’altronde, la condotta di Cicchedda pareva irreprensibile: ella era d’un tratto diventata seria e pensierosa, lavorava alacremente sopportando con pazienza la persecuzione di Costanza. Ogni volta che Alessio tornava dalla campagna, ella, che riconosceva da lontano il passo della cavalla, prendeva Domenico in braccio e usciva sulla via: appena sull’angolo della viuzza spuntavano le orecchie nere della cavalla, il bimbo agitava le piccole braccia, e il volto di lei s’illuminava. Andava incontro al giovane e gli porgeva il bimbo, che strillava di gioia; e Alessio, mettendo Domenico sul davanti della sella, le diceva qualche buona parola, e le sorrideva, guardandola profondamente. Ella lavorava come una schiava, soffriva tutte le pene e le umiliazioni possibili, e avrebbe ogni giorno dato un anno della sua miserabile vita, per quello sguardo e quel sorriso.
Tante volte aveva pensato di confidare ad Alessio le sue pene, la persecuzione di Costanza unita a quella di zio Salvatore. Pensava anche di pregarlo di darle anche una ciocca dei suoi capelli, per comporre la magica bevanda; e dopo questa decisione si sentiva tranquilla, quasi allegra; ma arrivato il momento di parlare si vergognava, arrossiva d’averci persino pensato.
E la magia era più che mai necessaria, occorrendo anche per Costanza, che ella credeva innamorata di Alessio; ma appunto per la sua muta ed astiosa sorveglianza, la faccenda riusciva impossibile.
Di rimpetto alla camera delle ragazze, per una porta che s’apriva e chiudeva col semplice segreto d’un saliscendi manovrato da una cordicella, c’era una stanzetta ove eran riposti tutti gli utensili per fare il pane: di là s’entrava nella camera d’Alessio, la cui finestra dava sul cortile.
Egli dormiva a porta aperta, e era facile introdursi da lui e, durante il sonno, tagliargli i capelli; ma a Cicchedda riusciva impossibile levarsi di notte, perchè Costanza la vigilava, e chiudeva la loro porta tenendosi la chiave.
Ma una sera si decise.
Si era agli ultimi dell’anno. Alessio e zio Salvatore salirono all’ovile per visitare i porci che ingrassavano a vista d’occhio, e dalla cui vendita si sperava assai. Dacchè era in casa il nipote, gli affari non andavano male come prima, ma neppur bene quanto si desiderava. Salvatore giocava a carte, usava con donne, era splendido con gli amici, e le rendite non potevano bastare. Agada si lamentava di continuo e diceva ad Alessio, col viso bianco e stirato per la mortificazione:
— Sgridalo tu, sgridalo tu, figlio mio, digli che lasci i vizi, che è tempo di finirla con tutti questi pasticci, questi imbrogli, queste pazzie. Oramai è vecchio, dovrebbe andar più bene....
Alessio faceva quel che poteva. Salvatore lo lasciava dire o si seccava.
— Ficcati nei fatti tuoi! — gli disse un giorno, con la sua voce sonora, che faceva tremar Cicchedda. — Io faccio quel che mi pare e piace!
Quel giorno trascorsero una deliziosa giornata sulla montagna: soffiava una tramontana tagliente, la nebbia incappucciava le cime, ogni tanto volteggiava un nembo di nevischio al di sopra dei boschi; i pastori accesero un gran fuoco nella capanna, e arrostirono un porchetto, raccontando storie piacevoli. Poi venne un amico da una tanca limitrofa, portò una zucca di vino d’Oliena, e cantarono e risero, parlando di banditi e di donne.
Riparlarono anche di Cicchedda, e Alessio lasciò capire ch’ella era innamorata di lui. Salvatore aggrottò le sopracciglia e diventò pavonazzo.
— La mando via, la mando via.... o piuttosto mando via te.... Ricordati ciò che ti ho detto tre mesi fa... passavamo laggiù! — gridò, tendendo il braccio verso il monte Palas de Casteddu.
Alessio, che fumava semisdraiato per terra, strinse le labbra intorno al cannello della sua pipa elegante, con atto di derisione e di suprema noncuranza, ma, in una specie di sogno, continuò a pensare alla fanciulla. Era un desiderio indefinito che lo pungeva e lo dominava da parecchio tempo: ma egli non si curava neppure di esaminarlo o combatterlo, tanto si riteneva superiore ad una simile passione. Non curava di più le avvertenze e le minacce di Salvatore; e non si divertiva con Cicchedda, non per onestà o indifferenza, ma perchè credeva di degradarsi abbassandosi a lei.
Quando però le stava vicino, e la sentiva palpitare e smarrirsi sotto il suo sguardo, e la vedeva così bella e fresca, così piena di passione per lui, molte tentazioni lo assalivano, il suo occhio diventava fondo, e gli occorreva una fredda potenza di volontà per dominarsi.
Mentr’egli pensava a lei nell’ovile della montagna, ella puliva la farina d’orzo sognando di lui. Ogni tanto, invitata dal monotono volteggiar dello staccio, si provava a cantare, ma la voce le moriva in gola: aveva freddo, era triste, presentiva cose ignote ed amare, e il pensiero di lui non bastava a calmarla.
— Stanotte entrerò — pensava. — Stasera dobbiamo lievitare il pane; a mezzanotte io devo levarmi per rimescolare la pasta; Costanza resta a letto, ed io entro....
Ma pensando così gli occhi le si smarrivano come dietro una visione apocalittica. Una volta singhiozzò e pensò eroicamente: — Me ne vado, me ne vado; mi vogliono persino in casa Bancu e mi pagano meglio di qui. Cosa ci faccio io qui? Se resto ancora divento pazza!...
Per qualche istante, passando la farina nel vaglio, accarezzò la buona idea. Ma come poteva andarsene, se la sua vita era attaccata ad ogni angolo, ad ogni oggetto della casa? Come poteva abbandonare, oltrechè le persone, gli animali che amava intensamente? Come poteva viver senza veder l’asinello, la cavalla d’Alessio, il cavallo di zio Salvatore, il gallo, le galline, il cane e i gatti? Amava il fico, il pozzo, la mola, sorrideva ad ogni cantuccio della casa; tutti gli oggetti, dal paiolino alle forbici, le parlavano un linguaggio speciale. Come poteva viver senza veder ogni giorno i verdi uccelli scintillanti nei piatti, senza macinare il caffè nel macinino di ferro, il cui rumore la invitava a cantare, senza attinger acqua dal pozzo stretto ed oscuro, con la pesante secchia, senza spazzare il cortile grigio e freddo, senza chiuder il portone, la cui serratura aveva una strana fisionomia che sogghignava o sorrideva a seconda delle ore?
E piangeva, piangeva pensando a tutte queste cose, e mentre una voce interna la consigliava di andarsene, di fuggire i tormenti e le tentazioni, un’altra voce, più intima, più forte e potente, le diceva che nonostante tutto, ella doveva restare e operare secondo come voleva il suo destino.
Verso le due pomeridiane la farina era pulita; e venuta zia Franzisca, fra una storiella e l’altra, mentre la caffettiera brontolava sul fuoco, con gran voluttà della comare, fu lievitato e impastato il pane d’orzo, rimesso entro grandi recipienti di sughero, disposti accanto al focolare, e ben coperti con sacchi di lana. La fermentazione doveva cominciare nelle prime ore della notte; a mezzanotte Cicchedda doveva rimescolar la pasta entro i recipienti, e qualche ora dopo cominciar il pane.
Intanto ella si sentiva triste ed inquieta, perchè i padroni tardavano a ritornare; temeva che passassero la notte in montagna, ed ogni tanto usciva sul portone.
— Ah lo aspetti? — pensò Costanza, accorgendosene. — Ma stasera non uscirai sulla strada a far la pazza, parola che ti do io!
Infatti al cader della notte Cicchedda sussultò udendo il passo dei cavalli, e prese Domenico fra le braccia gridando:
— Senti, senti, cuoricino mio! Senti il babbo e zio Salvatore..... andiamo ad incontrarli! Portano un porcellino a Domenico, non è vero? Senti, senti, il porcellino ti chiama!
— Senti, senti, porcellino chiama Domenico — gridò il bimbo aggrappandosele al collo.
Ma mentre ella stava per uscire, Costanza le si slanciò sopra e le tolse il bambino.
— Vado io; tu resta qui! — disse aspramente.
Ella sentì come una pugnalata; restò muta e stecchita, quasi spaventata, e in quel momento s’accorse che l’astio di Costanza s’era fatto odio.
— Stanotte entrerò — pensò — non ne posso più; se la magìa non riesce, me ne vado.
— E Cicchedda? — domandò vivamente Alessio, vedendo Costanza col bimbo che strillava:
— Porcellino, porcellino mio, dov’è?
Era quasi notte; una notte fredda, nebbiosa, umida e piena di vento.
— È malata.... perchè credeva che stasera restavate fuori di casa — rispose Costanza con un tristo sorriso.
Anche Alessio sentì qualche cosa nella voce della cugina, e vedendo Cicchedda pallida e seria ne provò pietà: per confortarla la guardò, e le mise egli stesso il bimbo fra le braccia. Ella riprese un po’ di buon umore, non rispose alle querimonie di Costanza e attese.
Andata a letto, non chiuse occhio; sentì Alessio uscire e rientrare verso le undici, e con gli occhi spalancati, nell’oscurità animata dal russare infantile del bimbo, seguì mentalmente ogni movimento del giovane. Si calmò quando le sembrò addormentato; ma lo era profondamente? In quel momento ella non lo amava; pensava a lui come al prediletto di Salvatore e di Costanza, di cui le occorreva una ciocca di capelli. La paura e l’ansia la paralizzavano; e rimaneva con gli occhi aperti e le orecchie tese.
A un tratto le parve che Alessio si addormentasse profondamente, ma che Alessio fosse ella stessa, che cadeva in un leggerissimo sonno. E ne provò una infinita dolcezza; le parve d’esser felice, di amare tutti, compresa Costanza. In questo stato, nè sonno nè veglia, rimase quasi un’ora; poi si levò rabbrividendo di freddo, indolenzita dal riposo tormentoso, e provò una vertigine intensa, nella quale le tenebre della camera si fecero più dense e profonde. Si vestì silenziosamente e uscì con le scarpe in mano, fermandosi sul portico per calzarsele, investita dal vento, il cui soffio le diede quasi una sensazione piacevole, ridonandole un po’ di vita e di coraggio.
Fu così che tirò la cordicella del saliscendi, e la porta s’aprì con leggero stridìo. Ma ella non entrò ancora: lasciò la porta semiaperta e attraversò il cortile in punta di piedi. Nella cucina tiepida, dal fuoco coperto di cenere saliva una tenue fiammella azzurra e trasparente, che pareva sospirasse per il cigolìo del tronco. Ella, superstiziosa e paurosa, si spaventò, e alla livida luce della fiammella, che irradiava appena le pietre del focolare, cercò tremando la candela. Ora, mentre tendeva la mano destra, con la sinistra si strofinò leggermente l’angolo di un occhio, e tosto, per il fenomeno semplicissimo che a tutti accade, vide un grande occhio splendente passarle rapidamente dinanzi. Diede un salto e un grido doloroso.
Poche volte ella aveva veduto quell’occhio — qualche volta due in pari tempo — con indicibile terrore; era lo sguardo d’uno spirito occulto e terribile, che l’avvertiva di misteriose disgrazie. E ogni volta, ella diceva, le era accaduta qualche cosa malaugurata: l’ultima volta, per esempio, Costanza aveva cominciato a perseguitarla!
Tremando nervosamente, accese il lume e rimuginò il fuoco, ma neppure la luce ed il calore dissiparono la sua cupa apprensione. Nonostante il suo angoscioso terrore pensava sempre ai capelli di Alessio: ravvivò il fuoco, e soltanto dopo aver cercato le forbici nel cestino del cucito, guardò se il pane fermentava. La pasta, d’un color grigio livido, era gonfia, ma non ancora in grado di essere rimescolata; ed ella si sedette accanto al fuoco con le mani intrecciate davanti alle ginocchia, e cadde in profondi pensieri, aspettando e tremando.
Verso l’una Alessio, che pure s’era addormentato pensando ad altro, sognava d’essere nell’ovile della montagna. A un tratto vide Cicchedda correr disperata verso di lui, inseguita da un pastore che le gridava: — Ti uccido, ti uccido!... Mi hai rubato il porchetto! — Salvami, salvami, Alessio Piscu! — gridò ella. Avea i bei capelli biondi sciolti, e Alessio, che col suo gusto di paesano civilizzato e raffinato amava assai quei capelli, fu assalito dalla subitanea passione che sempre provava accanto a lei: quindi la salvò con entusiasmo, accogliendola fra le sue braccia; e senza darsi pensiero del pastore, cominciò a baciarla appassionatamente, pensando:
— Ma che ciocco ero io a non corrisponder prima a questa ragazza!
Però la ragazza pareva pensarla diversamente, perchè si mise a gridare e per difendersi brandì un paio di forbici e gliele passò in fronte.
Ei si svegliò rabbrividendo, e sulle prime credè che il sogno continuasse: in un filo di luce, che penetrava per la porta semiaperta, vide la fanciulla sognata china su lui, e sentì che gli tagliava i capelli. Provò una strana sensazione di spavento, di stupore e piacere; i polsi gli tremarono, ma rapidamente percepì la realtà e pensò che Cicchedda gli rapisse i capelli per comporne qualche filtro amoroso, e sentì svanire il suo spavento più fisico che morale.
— Che stai facendo? — domandò con voce sommessa, spalancando gli occhi.
Ella lasciò la ciocca già tagliata, e tutto il sangue le salì alla testa: volle fuggire, ma non potè: egli le teneva vigorosamente stretta una mano, e nell’influsso quasi magnetico lasciatogli dal sogno, nonostante la scossa fisica provata nello svegliarsi, sentiva d’amar vertiginosamente la fanciulla, dimenticando completamente, in quell’ora e in quello strano momento psicologico, tutta la sua superiorità, nonchè gli avvertimenti di Salvatore Brindis.
E Cicchedda, a cui la veglia tormentosa, la fatica e il terrore provati, ed ora l’umiliazione e il dolore di non esser riuscita nella sua impresa, toglievano il sentimento della realtà, in quell’oscurità che le gravava sulla testa dolente, che le stringeva il cuore con ineffabile angoscia, non poteva fuggire, nè gridare, mentre l’occhio dello spirito maligno, l’occhio d’oro, verde, violetto, rosso, radioso e spaventoso tornava a passarle davanti, ingrandendosi immensamente.