Il tesoro (Deledda)/Capitolo V
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V.
Elena uscì scuotendo la testa; Giovanna nervosa e triste sedeva davanti alla finestra, mettendosi una sedia al fianco, e abbandonandovisi con stanchezza. Non si svestì, sperando che Cosimo tornasse coi concertisti della sua musica, e restò presso la finestra.
Il vento s’era calmato, ma grandi nuvole umide e tetre oscuravano il cielo, rendendo la sera desolata e triste.
Anche Maria stava alla finestra, più pallida del solito, e Giovanna vedendola pensava con cattiveria:
— Giacchè ella è alla finestra Cosimo non larderà a rientrare: ella lo sa.
Ma Cosimo non rientrava, e ad un tratto la testina di Maria si ritirò vivamente:
— Che c’è? — pensò Giovanna, sporgendosi sul davanzale. — Ah, è Peppina che passa. Viene forse in casa? Sì, viene in casa. Che noia.
Si ritirò anch’essa, per non esser veduta, ma restò presso la finestra, e vide che Maria, passata la signorina Marchis, si affacciava timidamente.
— Quella sì ch’è innamorata! pensò Giovanna, tra il beffardo ed il pietoso. — E di chi poi, povera Maria. Se tu sapessi che razza d’uomo è il tuo ideale? Eppure mi piace più di Peppina, benchè sia povera. Io la preferirei. Mi è simpatica, le voglio bene. Ah, vengono qui le Marchis. Che noia. Meno male che Paolo è andato via.
Pensando a Paolo il volto le si rabbuiò; per un momento restò incantata, con gli occhi smarriti, ma poi, nonostante la sua tristezza, s’allontanò dalla finestra saltellando, e giunta alla porta, si volse e fece un cenno ironico d’addio verso Maria:
— Addio, gelosina!
Quella sera donna Francesca ebbe tempo di mettersi un po’ in toeletta; quando entrò in salotto la signora Marchis le fece un mondo di feste, squadrandola maliziosamente, ma Peppina restò fredda e rigida, pur ridendo graziosamente e ventilando il suo splendido ventaglio ricamato.
Indossava un ricco vestito azzurro e sembrava più bella, più gelida e sostenuta del solito. Quanti anni aveva? Fors’era più vicina ai trenta che ai venti, ma la guancia bianca e fresca ne dimostrava diciotto al più; pareva una infantile statua, pura e gelata, senza vita, nè passioni, ed era impossibile che questa splendida e fredda creatura avesse avuto tutti gl’innamorati e le avventure che le lingue maligne le affibbiavano.
Elena la guardava con una certa tristezza ed umiliazione; pensava che gli amici di Cosimo quella sera l’avrebbero trovata accanto a Peppina più insignificante del solito.
Infatti fu così. I tre amici che Cosimo introdusse rumorosamente nel salotto, vista la signorina Marchis, parvero non accorgersi delle padroncine e dimenticarono anche il galateo.
Cosimo invece sembrò contrariato di trovare le Marchis e solo quando fu seduto davanti al piano domandò alla signora come stava.
— Bene. E lei, vedo che sta bene.
— Grazie a Dio, si sta benone — diss’egli con indifferenza, affaccendato nel frugare le sue musiche.
Chiamò Elena e le disse qualche cosa con voce sommessa: ella uscì, e rientrando vide il signor Ciriaco, colui che doveva accompagnare col violino, ritto presso Cosimo; gli altri due amici assediavano Peppina, e Giovanna avea lor rivolto graziosamente le spalle, dal momento che anch’essi non s’occupavano di lei. Elena si assise anch’ella vicino alla madre, rivolta alla signora Marchis, e credè di vedere questa rispettabile madama rallegrarsi perfidamente perchè i cavalieri s’occupavano soltanto di sua figlia. Allora, per reazione, Elena si sentì superiore a queste piccole miserie, e trovò ridicoli i due giovanotti. Lo erano infatti oltre ogni dire. Uno era avvocato in erba, l’altro impiegato: l’avvocato portava occhialini ed era uno sciocco numero uno; faceva la corte, anzi, s’innamorava di tutte le ragazze, belle e brutte; però, trovandosi fra molte, preferiva le belle, o almeno le floride, dimenticandole appena sparivano. Si rivolgeva poi subito ad altre; il suo cuore non rimaneva vuoto un momento, forse perchè la sua testa era ciò che di più vuoto si possa immaginare. L’impiegato, un continentale biondo e scipito, con certi occhi color di lavagna, stretto amico del l’avvocato, gli contrastava spesso le conquiste amorose. Accadeva talvolta che la vittoria restasse al biondo, e l’avvocato allora si rivolgeva altrove.
Il signor Ciriaco, invece, alto, magro, con balli da uomo disperato, posava da scettico, da personaggio importante, appassionato solo per le arti belle. Temeva d’esser messo in caricatura da Cosimo, e ne parlava male; ma lo seguiva da per tutto, gli rendeva servigi e lo adulava. E con tutta la sua serietà e la sua falsa distinzione — si credeva distintissimo — diceva insolenze e impertinenze anche davanti alle signore; inoltre, nei momenti di buon umore, esercitava l’ottima virtù d’imitare per beffa molte rispettabili persone, come il pretore, il presidente, certi avvocati, certi preti, ed altri individui che non lo molestavano. Coglieva a meraviglia il lato ridicolo d’ogni persona e lo riproduceva perfettamente; inoltre faceva il gatto, il cane, il gallo ed altri animali.
E niente si può immaginare di più ameno di Cosimo Bancu che faceva la caricatura del signor Ciriaco imitatore degli altri!
Quella sera il Ciriaco, avvicinatosi a Cosimo che frugava fra gli spartiti, guardava acutamente l’impiegato e l’avvocato, fissandone lutti i contorcimenti, i gesti, per poterli certo imitare l’indomani.
Peppina, fredda ai complimenti dei due amici, muoveva ogni tanto la sua poltrona per mettersi in vista di Cosimo; ma egli non le badava, intento sempre a ragionar col Ciriaco, che restava con le mani sulla schiena e appoggiato alla parete. A un tratto, addensandosi l’ombra, Bancu accese le steariche del piano, e nella luce gialla che illuminò tutto l’angolo della parete, mentre nel resto del salotto s’indugiava l’ultimo chiarore della sera grigia, il suo volto apparve più pallido e fatale del solito. Il Ciriaco lo guardò rapidamente, osservandogli le bianche mani scarne, dalle unghie lunghe lievemente scanalate, e ancora una volta pensò che quel tipo era inimitabile. Avea molte volte provato a contraltare quella fisionomia seria, sarcastica, e la voce e il gesto di quelle aristocratiche mani nervose: invano, non ci riusciva. Invece Cosimo, quando imitava il Ciriaco che lo contraffaceva, destava la più viva ilarità.
A un certo punto il Ciriaco si mise ad osservare la signora Marchis, trovando in lei un soggetto adattissimo per caricatura. Ella, al solito, parlava fitto, fitto, ed anzi non lasciava parlar nessuno: si intendeva di tutto, fuorchè di cose ragionevoli, e se i suoi interlocutori non le tenevano dietro, o l’interrompevano, o non osando tanto, stavano zitti, essa li qualificava per stupidi.
Era brutta, vaiuolata, con una grossa testa e un corpo mingherlino: guardava fisso, vestiva con stravaganza e faceva l’aristocratica: aveva l’eccellente abitudine di far capire ogni tanto ch’era ricca, che faceva cucinar ogni cosa al burro, che sedeva sempre in poltrona, che molte persone dovevano dei bei denari a suo marito: siccome poi era imparentata con due o tre persone altolocate, se ne vantava con ogni nuova conoscenza. Appena presentata diceva: — Io sono nata in tal paese, mio marito è il tal dei tali e copre tal carica. — Era un grosso impiegato. — Ah, lei è il tale? Già, l’ho sentita nominare da mio marito. Conosce lei mio zio, capo-sezione al Ministero delle finanze? Mia madre è sorella del tale, il quale fa la tal cosa, e mio cugino, che vive a Lione, ha sposato un’inglese milionaria.
Poi non chiudeva più bocca; entrava in particolari intimi, faceva capire che sua figlia aveva pretendenti a sacchi.
Cosimo non la poteva soffrire, e quella sera ritardava il concerto colla speranza di vederla andar via. Svanita questa speranza, fece un cenno al Ciriaco, come per dirgli: Cominciamo, fingiamoci che questa gente non ci sia! L’altro si assise, accomodando alla meglio le sue lunghe gambe e i suoi piedi enormi, e abbracciò appassionatamente il suo strumento, chinando la testa a destra, e tendendo un orecchio grande e rosso come una foglia di pampino secco.
Da quel momento egli non fu più di questo mondo; non vide, non pensò più d’imitare nessuno; i suoi baffi si rallentarono, gli occhi strizzandosi si allungarono, le mascelle si sporsero, e tutta la sua fisionomia prese un’aria giapponese.
Il concerto cominciò: l’avvocato fece un salto, ed esclamando:
— Oh, oh, cominciamo? — andò ad appoggiarsi al piano.
L’impiegato, evidentemente commosso, raddrizzò la schiena, e disse con sentimento:
— Dopo io canterò!
— Qualche cosa bella? — chiese Peppina.
— Oh — fece il biondo, con modestia — una mia poesia, musicata da Bancu.
Intanto Peppina colse l’occasione per spinger la sua poltrona ancor più in là, e sorrise ad Elena e Giovanna, quasi non le avesse ancora vedute.
Ma esse rimasero fredde, e Giovanna, per dimostrarle che non si curava di lei, com’essa le avea trascurate, s’avvicinò ad Elena, e appoggiandosele lievemente sopra, le attirò una mano e gliela strinse. Ma Cosimo le disse: Perchè non accendi i lumi? — Allora la giovane si rizzò subito sulla punta dei piedi, s’avviò e urtò una poltrona contro l’avvocato.
— Oh, scusi! — esclamò egli, e Giovanna gli rise in faccia, perchè veramente toccava a lei scusarsi.
— Ah, — disse Peppina, col suo riso di cristallo rotto, — perchè fai luce, Giovanna? Si vede ancora: è più poetico così!
— Ah! — fece fra sè Giovanna, imitando beffardamente il riso dell’amica. — Perchè sarebbe più poetico?
E accese tutti i lumi. Nella finestra tremolava ancora il crepuscolo, e in lontananza, su una striscia di cielo rischiarato, si delineavano nitide e oscure le ultime montagne dell’orizzonte. Giovanna si fermò a guardare, e fu ripresa da una grande, intensa tristezza.
Cosimo e l’amico attaccavano con violenza il preludio dei Cacciatori, le note del piano e i trilli dei violini si fondevano in un fragore speciale che pienava il salotto fin dentro i cassettoni dei tavolinetti. In questo preludio si doveva sentire il solenne e selvaggio paesaggio delle montagne del Gennargentu, ove i mufloni, i cervi ed i cinghiali abbondano: il violino doveva specialmente profilare le alabastrine cime nivali, riprodurre l’acuto profumo dei rododendri: la nota pedale del cembalo dare la sensazione dell’immenso ed arcano silenzio.
In realtà non riproducevano nulla, e Giovanna scorgeva il Gennargentu solo dai vetri della finestra, nell’estremo orizzonte che s’oscurava.
La signora Marchis taceva finalmente, profittando del generale raccoglimento, per fare studi di critica sui varii personaggi: Peppina sorrideva, sfolgorante di bellezza, ed anche Elena, leggermente abbandonata sulla spalliera della sua sedia, come immersa in un sogno, pareva bella alla vivissima luce dei lumi. Era rosea, coi capelli tutti rialzati sulla fronte purissima. L’avvocato si degnava finalmente di guardarla dall’alto, e pensava, vivamente colpito:
— Ecco una ragazza che deve pensar profondamente. Com’è seria e pura!
I suonatori eseguivano la prima parte: l’entrata dei cacciatori a cavallo, coi cani, di cui si distinguevano benissimo i latrati. Gli occhi del signor Ciriaco toccavano obliquamente la radice dei capelli delle tempia, e l’arco del violino sembrava una bacchetta magica. Peppina lo guardava meravigliata, poi guardava le mani di Cosimo, più eburnee dei tasti, e senza l’incanto di quelle mani, tutta la musica le avrebbe fatto l’effetto d’un tuono con relative saette. Il biondo intanto, col gomito sul ginocchio e il mento sulla mano, ripassava fra sè la sua poesia, e la signora Marchis lo qualificava per un uomo intelligente, poichè faceva la corte a Peppina.
Com’è seria e pura! — pensava l’avvocato con le gambe accavallate, guardando Elena. — Quanti anni ha? Venti forse.
Si volse e guardò Giovanna: ma ella gli voltava le spalle, fissando sempre in lontananza un punto misterioso. La sola che seguiva con qualche intuizione la suonata era Elena; con animo cortese cercava di percepire tutte le cose belle della musica di Cosimo, e la sua buona volontà dava qualche valore ad ogni nota. Nella seconda parte credette sentir gli spari, scorger i cacciatori fermi alla posta, dietro i dirupi, e veder il cervo passar cauto e leggero, poi saltellante e rapido, ferito al fianco e inseguito dai cani. La suonata si chiudeva col ritorno dei cacciatori, che cantavano lietamente, scendendo per le balze, nei montuosi sentieri rocciosi al cader della sera.
I cani dovevano latrare giocondamente, e per accennare la sera si doveva sentir in lontananza il rintocco dell’Ave Maria. Fu veramente l’unica cosa che riuscì bene: s’udì distintamente il rintocco melanconico e vibrato d’un’ave lontana: ad Elena si illuminarono meravigliosamente gli occhi, perchè provò la sensazione di un paesaggio alto e deserto, ove splendeva il gran vespero delle montagne.
S’applaudì, si volle il bis del finale; e il signor Ciriaco, sudato e tremante, parve destarsi da un sogno. Poco dopo entrò la domestica col caffè e vini prelibati: poi le Marchis parlarono d’andarsene.
— È tardi — disse Peppina guardando verso la finestra ormai buia.
— Ma no, aspettino. Le accompagneremo noi — disse il biondo, cui premeva aver gli applausi di Peppina, per la sua romanza le Belle mani.
A un certo punto s’appoggiò al muro, e accompagnato di mala voglia da Cosimo, cominciò. Che voce era la sua? Una voce d’asino, signori miei!
La romanza narrava il fascino delle belle mani, che leniscono ogni dolore con le lor carezze.
— Pare invece che lo stiano pigliando a pugni! — disse piano l’avvocato, chinandosi dalla parte di Elena.
Ella alzò gli occhi su lui, un po’ meravigliata, ma non potè trattenere un sorriso. Anche Giovanna, sedutasi, sorrideva col fazzolettino sulla bocca.
Il biondo continuava a cantare: teneva il respiro fino a diventar rosso, si sosteneva i fianchi con le mani, s’allungava e si restringeva come un serpe.
Incoraggiato dal sorriso d’Elena, l’avvocato si avvicinò, chinandosi sulla spalliera della sua sedia, e disse scherzosamente:
— Osservi come Ciriaco lo sta fissando. Sarà curioso quando lo imiterà.
Elena fu per dire: — Ma possibile che Ciriaco non sappia far altro che la marionetta? — ma sorrise e tacque.
— Se avesse veduto la caricatura di De-Cerere! — disse l’avvocato. Poco dopo capitò il giudice, e quasi quasi succedeva uno scandalo.
— Ma io credo che De-Cerere non meriti alcuna caricatura! — esclamò Elena con qualche fierezza, che confuse il giovine.
Giovanna, avendo udito il nome di Paolo attraverso il canto disperato del biondo, s’alzò inquieta e s’avvicinò ad Elena. Sentì l’avvocato che diceva:
— Sa che è traslocato?
— Chi?
— De-Cerere.
— Oh! — esclamò Giovanna stupita. — Se era qui stasera! E non ci disse nulla.
— Il decreto è arrivato stasera — disse il giovane cortesemente. — Certo egli non lo sapeva ancora. È stato nominato presidente. Sarà lietissimo.
Elena e Giovanna si guardarono.
— E per dove?
L’avvocato nominò una piccola città meridionale del continente.
In quel punto finì la cantata dell’impiegato, ma, cosa triste, nessuno l’applaudì: il Ciriaco per invidia, Peppina per non scomporsi, donna Francesca e la signora Marchis per la stessa ragione, l’avvocato e le signorine Bancu perchè parlavano di Paolo.
— Cosimo — disse Giovanna sporgendosi sul piano. — De-Cerere è nominato presidente.
— Lo sapevo — rispose Cosimo tranquillo; ma grandi oh! di sorpresa sorsero da parte degli altri, che subito cominciarono a parlar di Paolo.
L’avvocato rimase presso Elena, e l’impiegato, indispettito per l’affare degli applausi mancati, s’avvicinò e chiese se la signorina suonava:
— Ma no! — diss’ella.
— Ma sì! — esclamò il biondo con galanteria. — So che le signorine suonano benissimo: ci daranno la fortuna di sentirle.
E cominciò a far mille complimenti, tanto che la signora Marchis, visto che non corteggiava più Peppina, lo qualificò per uno sciocco.
Poco dopo le Marchis se n’andarono, e non permisero d’essere accompagnate: ma, porgendo la mano a Cosimo, Peppina lo guardò rapidamente, come comandandogli qualche cosa, ed egli, fattosi gentile all’improvviso, volle accompagnarle per le scale.
E nel pianerottolo (la signora Marchis precedeva) Cosimo strinse forte la mano di Peppina, e le disse:
— Verrò alle undici....
Nella via, mentre la madre sparlava delle Bancu e dei loro amici, la figlia s’immerse in un sogno, pensando che il colloquio di quella notte avrebbe deciso Cosimo a chiederla in isposa.
Otto giorni dopo Paolo De-Cerere venne dalle Bancu a congedarsi.
Non mostrava nè letizia, nè rimpianto: era di una cortesia aristocratica e gelata e ripeteva le solite cose.
Promise di scrivere, di mandare libri e giornali alle sue piccole amiche, per dimostrare loro che non le dimenticava, e ripetè più volte:
— Forse non ci rivedremo mai più!
Giovanna rimase sorridente e indifferente, mentr’egli trovava il modo di dire molte cose insignificanti col miglior garbo del mondo. Alla vigilia della sua partenza egli dimostrò ancora interesse per avvenimenti e persone che sparivano per sempre dal suo circolo d’esistenza, ma che restavano in quello delle sue piccole amiche; e raccontò ancora molti episodi del suo passato.
Rifece i soliti auguri, e nel congedarsi si mostrò un po’ profondo, quasi commosso. L’accompagnarono fino alla porta.
— Addio! — ripetè egli, stringendo ancora la mano di Giovanna, che non cessò di sorridere.
— Arrivederci — disse Elena.
Fuori della porta egli s’inchinò con gli occhi a terra, e s’allontanò senza voltarsi.
— Addio! — ripetè Giovanna quasi allegramente, chiudendo la porta. E risalì le scale saltellando, mentre Elena restava seria, quasi triste per la partenza di Paolo, che forse davvero non avrebbero riveduto mai più.
— Meglio così — disse Giovanna; e attraversò il pianerottolo sempre saltellando. Lyly e Lisbet giuocavano sempre, rincorrendosi e raspando gli usci.
Lyly precedè Giovanna fino alla porta, e rizzandosi quant’era lungo, raspò e miagolò: ella ricordò come l’aveva maltrattato un giorno, alla presenza di Paolo, e sorridendo lo allontanò col piede.
— Vuoi un’altra lezione? — gli chiese. Ma affacciatasi alla finestra del salotto si sentì improvvisamente triste.
Imbruniva. Al di sopra delle ultime montagne stava come sospesa una lunga nuvola, nera sullo sfondo glauco e liquido dell’orizzonte. Nell’alto del limpidissimo cielo una sola stella, Venere, color d’oro, fissa e radiosa, proiettava il suo raggio ineffabile sulla lunga nuvola, che pareva un’aerea foresta lontana, col suo profilo d’alberi e macchie e cespugli tremolanti sull’orizzonte.
Giovanna, col mento sulle mani intrecciate, guardò e sentì una infinita ed arcana tristezza: le parve che Paolo De-Cerere non l’avesse mai amata; sentì come sarebbe stata infelice se si fosse lasciata illudere fino all’ultimo, e ripetè fra sè: — Meglio così!
Ma perchè gli uomini eran fatti così? Eran buoni o cattivi? Eran buoni e cattivi; e le parve che Paolo fosse, fra le altre cose, un grande egoista. Tuttavia sentì che la sparizione del vecchio amico lasciava un vuoto nella sua giovine vita: un vuoto nella sua ingenua vanità. Per confortarsi pensò ancora che Paolo era vecchio per lei, che non l’avrebbe mai amato volentieri; ma queste considerazioni, anzichè diminuire, accrebbero la sua infantile melanconia.
E fu così che, come ultimo tributo al suo primo amore nato morto, si lasciò cader due grosse lagrime, risplendenti come perle al riflesso del raggio di Venere stella.