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casette rovinate, sotto il gran cielo luminoso e caldo, nella viva luce del pomeriggio.
Davanti alla casupola della maga, la tristezza dell’ambiente raggiungeva un grado di disperazione, che s’infiltrava anche nell’anima delle due fanciulle, poco adatte tuttavia a ricever l’impressione dei luoghi e delle cose.
Non si vedeva nessuno; il viottolo s’allargava in un piazzaletto pieno di fossi, invaso d’ortiche e d’altre male erbe secche.
Da un muro in rovina sporgeva un melanconico caprifico polveroso, e un cane grigio, magro e silenzioso, frugava tra i rifiuti della strada.
— Zia Marta, zia Marta? — chiamò Cicchedda da una porticina aperta. E siccome nessuno rispondeva, le ragazze s’avanzarono per una cucina buia, dove in un canto si scorgeva una mola in disuso e un forno in rovina. In fondo c’era un’altra porticina; Cicchedda l’aprì con disinvoltura ed entrarono in un cortiletto dello stesso genere della strada, invaso d’erbe secche e di pietre.
All’ombra d’un caprifico — quello stesso che sporgeva sulla strada — una donna ritta, lacera e consunta, filava, circondata da sei galline sonnolenti. La tristezza aumentava, Costanza esitava ad avanzarsi.
— Vieni — disse Cicchedda, incoraggiandola: e si diresse verso la donna, salutandola a voce alta. Dal movimento ch’ella fece, Costanza s’av-