Il prato maledetto/XIII
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Capitolo XIII.
Idillio comitale.
La cavalcata dei militi seguì il conte Anselmo, dopo aver lasciati passare innanzi gli arcieri coi cani a guinzaglio e i falconieri coi falconi sul pugno.
Rainerio vide sparire l’ultimo uomo dietro una piega della collina, e sospirò. Gli parve in quel punto che il conte Anselmo, a mala pena veduta la figliuola di Dodone, potesse invaghirsene egli, e rapirgliela.
Ah maledetta furia, che gli aveva fatto abbracciare così ciecamente il primo partito suggeritogli dalla passione! Che pazza idea gli era venuta, di consigliare quella gara, e di chiederne l’editto al conte, per fargli poi nascere nell’animo la curiosità di vedere la fanciulla?
Elena troiana! Così l’aveva chiamata il suo signore. E perchè immaginava di trovare una Elena, si era messo in caccia quel giorno. L’avrebbe dunque veduta, e si sarebbe invaghito di lei; ed ella avrebbe formato tosto nel suo cuore il disegno di piacere al conte Anselmo, di farsi rapire da lui.
Perchè egli la conosceva bene, oramai. Le ambizioni che covavano nel cuore di Getruda e che egli aveva riscaldate con tanta arte di seduzione, sarebbero divampate alle prime lusinghe di Anselmo.
Il conte aveva un bel dire che egli non cedeva all’invito di simili amori, volendo essere amato per sè stesso, e non per lo splendore della sua condizione. In fondo, siamo un po’ tutti amati per qualche cosa, che ci rende, o ci fa parere superiori alla piccola schiera di uomini che s’aggirano intorno ad una donna, e rappresentano agli occhi suoi tutto il mondo conosciuto.
L’essenziale è di sapere qual sorte di superiorità colpisca meglio la fantasia d’una donna; ma si può credere, fatte le poche eccezioni, che la superiorità della potenza e della ricchezza sia sempre la più efficace, poichè le altre non la valgono, ed essa basta a dar l’apparenza di tutte.
Qualcheduno vorrebbe mettere la bellezza alla pari con la potenza, ignorando che alla donna basta di posseder lei quel pregio, e che anzi, per questo rispetto, ella non soffre rivalità, neanche nell’idillio.
Aspetto piacente val perfezione di forma; e se ad un aspetto piacente s’aggiunge l’aureola della potenza, e della ricchezza che serve a conquistarla, poco importa il rimanente. Sia pure uno sciocco, il potente; di cento che l’ascoltano, i novanta lo stanno a sentire come un oracolo; nove non ardiscono, e uno non cura di dirgli che è un falso oracolo. Tirate le somme: son cento uomini che gli lasciano passare tranquillamente ogni cosa. E figuratevi poi le donne, se quell’oracolo d’uomo non ha occhi che per loro!
Il conte Anselmo non era solo un potente; era il più potente, anzi l’unico, nel giro di ottanta miglia: ciò che per Getruda poteva essere il sommo di ogni ambizione. E non era un dappoco; e nessuno lo vinceva nella amabilità del discorso. Il castellano Rainerio doveva tremare, vedendo il conte Anselmo avviarsi al podere di Croceferrea. E ben più avrebbe egli tremato, se avesse indovinato che Dodone non era in casa quel giorno.
Il vecchio aldione, offeso da quel chiasso che si faceva intorno a sua figlia, aveva presa la sua scure ed era andato a smaltire la rabbia nel bosco, lasciando Getruda padrona di sognar castelli e corti a sua posta.
Giunto al manso di Croceferrea, il conte Anselmo aveva tosto rinunziato alla caccia. Andasse pur chi voleva; anzi gli avrebbero fatto un gran piacere a levarglisi di torno, e falconieri ed arcieri. Quanto a lui, voleva fermarsi un tratto e visitare il bel podere di Croceferrea; perciò avrebbe mandato un famiglio in traccia del vecchio; frattanto, si tratteneva a discorrere con la bianca Getruda. Ed ella, dal canto suo, non doveva darsi pensiero di un così ragguardevole visitatore; seguitasse pure a filare; filava con tanta grazia!
Anche Berta, la nobile sposa di Carlomagno, filava, e quel grazioso ufficio domestico le dava occasione di mettere in mostra due belle mani; non così belle, affediddio, come quelle di Getruda.
Al canonico Ansperto, o il diavolo, o un pensiero del suo capo, aveva giustamente notato che la bianca Getruda, non somigliava punto a nessuno de’ suoi.
La bellezza di lei non era solo la fiorente e sgargiante di certe figliuole dei campi; ma la elegante e superba di un più chiaro legnaggio. Vedendola a tutta prima, si poteva credere di essere al cospetto di una figlia di re, nascosta nelle umili vesti di una contadina. Così, e non altrimenti, doveva apparire quella figliuola dell’imperatore Costantino di cui correva allora la leggenda, che fosse fuggita dal palazzo imperiale di Bisanzio, per seguire un amato cavaliere in Italia, e vivere con lui, ignorata nei boschi, intenta alle cure della povera casa, mentre egli, lo splendido cortigiano, si adattava all’umile mestiere di carbonaio.
Cosìi dovevo apparire, ripeto, la figliuola di Costantino, ma col sorriso della felicità sul volto; perchè un amor vero, a cui tutte le ambizioni del mondo son lietamente sacrificate, non lascia a desiderare più nulla, e meno ancora quelle grandezze di cui troppo si è sperimentata la vanità.
Alla bianca Getruda le ambizioni non soddisfatte, le grandezze sognate e non raggiunte, dipingevano una superba mestizia sul viso e accendevano un fuoco di desiderio negli occhi.
Così composta nell’aspetto, ma non serena, tranquilla, ma non modesta negli atti, Getruda teneva in rispetto il piccolo mondo de’ suoi giovani aldioni, costretti a sospirar da lontano; destava le fiamme della passione nei cuori, ma non ispirava i confidenti discorsi alle labbra.
Bene sapeva il povero giovane degli Arimanni, quanto avesse dovuto penare, innanzi di esprimere con qualche timida parola il suo grande amore per lei. C’erano volute lo veglie di tutto un inverno, lunghe veglie, in cui egli, narratore ascoltato, era apparso primo fra tutti i giovani della brigata, per fargli prender animo, per fargli interpetrare come una tacita esortazione lo sguardo attento e più lungo del solito, che a lui rivolgeva la figliuola di Dodone, sotto il fioco lume della lanterna sospesa al trave della tiepida stalla. E il povero Marbaudo non aveva mica immaginato cosa che fosse disforme o lontana dal vero. Per allora, la bianca e superba Getruda non vedeva che lui. In quell’umile ceto di innamorati egli solo regnava; doveva essere notato egli solo. Ma su tutta la sua classe imperava, per l’autorità avuta dal conte, il castellano Rainerio. Felice castellano, se nessun’altra autorità comparisse, superiore alla sua! Ma su lui, e su tutti i castellani della Langa, che amministravano la giustizia in nome del conte, e cavalcavano gloriosi e superbi lungo le valli, imperava un uomo più giustamente glorioso, più giustamente superbo: il conte Anselmo, su cui stavano due sole autorità, egualmente lontane ed invisibili.
Getruda non lo aveva veduto mai da vicino; e da lungi a mala pena due volte, mentre egli passava in mezzo allo stuolo dei suoi militi, nelle grandi cacce di Millesimo, e di Rocca Vignale, al suono festoso dei corni, preceduto da mute impazienti di cani da giungere.
In quei momenti era un barbaglio di colori, uno scintillio di armi, uno sventolio di mantelli e di penne, tra cui si smarrivano le figure dei cavalieri.
Getruda non ardiva ancora pensarci, ma già sentiva confusamente in cuor suo che quella era la vita, e tutto l’altro un invecchiare, aspettando la morte.
E si paragonava allora ad un vecchio rovere che sorgeva da una balza, dietro la casa di Dodone; rovere solitario, condannato dal caso a nascer colà, mal nutrito dall’arido galestro dove aveva profondate le sue negre radici, triste al soffio gelato dell’inverno, malinconico ai primi tepori dell’estate.
Così dunque avrebbe ella dovuto vivere, radicata nella terra di Croceferrea, senza speranza di liberarsene mai!
Peggio ancora, quando suo padre l’avesse data in moglie ad alcuno di quei rustici aldioni. Sarebbe stata confermata per tal modo la sua dolorosa sentenza; la bianca e superba Getruda avrebbe dovuto consumare su quel colle solitario la sua gioventù, sfiorire, nascondendo la sua bellezza, dopo averla concessa a tale che non fosse capace d’intenderla, nè disposto a farla risplendere, ma piuttosto a distruggerla, nelle cure di quella triste fra tutte le maternità, che condanna altre vite a proseguire una tradizione di servitù e di miseria.
E quella bellezza sua piaceva tanto a Marbaudo! Gran mercè, che un tant’uomo l’avesse notata e prescelta! Ma chi era costui, finalmente? Forse da più di tutti quei contadini, che apparivano gentili a stento nella breve stagione degli amori, per ridiventare di punto in bianco i villanzoni di prima, quando la donna prescelta sospirata varcava la soglia della nuova casa, dove le era necessario, vivere modesta e male in arnese, allattar figli, invecchiare e morire? Se almeno, come aveva detto di amarla, così avesse potuto impalmarla Rainerio!...
Il castellano era perdutamente invaghito di lei; la cosa non lasciava alcun dubbio; egli, sicuramente, libero, le avrebbe offerta la sua mano.
E infine, perchè no? Il destino, che stende le fila e le rompe, il destino poteva anche favorirla a tal segno.... Ma che necessità, poi? Era quegli lo sposo dei sogni di Getruda?
Rainerio stesso l’aveva educata a non mettere il cuor suo in quella povera speranza; bensì le aveva fatto brillare davanti agli occhi una sorte più degna. In quegli accenni agli splendori d’una corte, la bianca e superba Getruda aveva sentito fremere la sua vocazione.
E come avviene che, quando si parla a noi di cosa ignota, noi amiamo figurarcela subito in qualche modo, prendendo norma da altre cose conosciute, così accadeva a Getruda di raffigurarsi la fortuna fatta balenare a’ suoi occhi dall’astuto Rainerio, nella persona a mala pena intravveduta del conte Anselmo, del nobile cacciatore, che solo due volte era passato sotto i ciglioni di Croceferrea, come una gloriosa visione.
Ora, quel nobile cavaliere, quel conte Anselmo, su cui non era più nulla e nessuno, tranne l’imperatore e Dio, aveva posto piede nella casa di Dodone, aveva veduta la bella figliuola di lui, e tosto si era affrettato a congedar la sua gente. E seduto davanti all’ambiziosa filatrice, non sapeva spiccar gli occhi da lei, mentre, con la voce più soave e con l’accento più carezzevole ch’ella avesse udito mai, le diceva:
— Sei tu, dunque, Ingetruda, la figliuola del nostro buon amico Dodone, decantata nei miei dominii per maravigliosa bellezza? Non arrossire, ti prego. La fama non mi aveva recato neanco la metà del vero, che oggi riconosco ed ammiro con gli occhi miei proprii. E mi meraviglio ancora di me, che ho potuto ignorare fino a quest’oggi l’esistenza di una creatura così divinamente bella, in queste valli che mi ha lasciate in retaggio il valor di Aleramo. Vedi, Ingetruda? Io vo’ dirti sinceramente ogni cosa. L’altro dì, passando sulla sponda di un torrente, là dalle parti di Spigno, mi avvenne di vedere una giovane donna che lavava i suoi pannilini in un borro. Era bellissima; ed io pensai che non fosse possibile immaginarne un’altra più vezzosa di lei. Ora vedi come il giudizio umano è fallace, poichè guardo te, mille volte più bella di lei.
— Mio signore, — rispose Getruda, abbassando la fronte e chiùdendo gli occhi, come se volesse schermirsi dai fumi di un incenso che pur le era così grato — ancora pochi dì e poco spazio di paese, e t’imbatterai in un’altra donna che sarà mille volte più bella di me. Io valgo così poco, del resto!
— Ah no, Getruda! non lo dire! Non sarà possibile; e tu vuoi ora farti giuoco di me.
— Tolga il cielo, mio signore! Io son la tua umile serva.... una povera montanina, come vedi.... e piuttosto che lasciarti credere che io possa prendermi giuoco del signor mio, voglio lasciarmi dire da lui...
— Che egli ti avrebbe volentieri per sua regina! — gridò il conte Anselmo, compiendo la frase a suo modo. — Ma in fede mia, qual regina potrebbe vantarsi d’esser più bella di te?
— Fredegonda fu bellissima, per quel che si narra — disse Getruda.
— Ah! bene! — esclamò il conte Anselmo. — Ecco una cosa che non m’aspettavo di sentir ricordata a Croceferrea. Tu conosci anche le istorie, Getruda? E quando penso che tutto ciò andrà perduto in balla d’un falciatore!...
— Tu l’hai voluto, mio signore, — mormorò Getruda. — L’editto è tuo!
Anselmo trasse un profondo sospiro; quindi rispose:
— Sapevo io forse che si trattasse di tanta bellezza? Il mio castellano si guardò bene dal dirmelo. Se lo avessi saputo, ben altro sarebbe riescito l’editto. Abbia la divina Getruda in moglie, avrei comandato, abbia la divina Getruda colui che sarà andato lassù, a spiccare la stella Diana dalla vòlta azzurra del firmamento. —
La lode era smaccata; ma nella più parte dei casi sono le lodi smaccate quelle che giovano. Getruda nascose la faccia, arrossendo di piacere.
— Ora, pur troppo, — soggiunse Anselmo — quel che è fatto è fatto. Quattro falciatori sono in gara per ottenerti, poichè il quinto non si è presentato a sostenere i suoi vanti. Vincerà sicuramente la prova Marbaudo, che tu forse conoscerai, poichè mi dicono che abiti nella Casa degli Arimanni, non lungi di qua. —
A quel nome Getruda torse il volto con piglio sdegnoso.
— Perchè? — riprese il conte. — È, se io ben giudico, il più bello dei contendenti; è un forte lavoratore, che piacerà molto a tuo padre; finalmente, ti ama.
— Ami pure a sua posta - disse Getruda. — Io non posso amar lui. Mi è odioso, con la sua persecuzione. L’ho già detto a mio padre; piuttosto che sposare quell’uomo, sposerei il diavolo. —
Il conte Anselmo non seppe trattenersi dal ridere.
— Ecco un personaggio — diss’egli — che si terrebbe superbo e lieto della tua preferenza. Ed è strano che lo citino tutti, senza averlo mai visto. Ma se poi fosse brutto, come.... chi dobbiamo dire?... come me, per esempio? —
Getruda levò su occhi per guardare il conte, e in quegli occhi maliziosi brillò un raggio di speranza.
— Debbo dirti, mio signore, — balbettò ella, con istudiata timidezza di accento — che mi sembri un bel sole?
— Se questo è veramente il tuo pensiero, non mi dispiacerà — disse il conte, posando una mano su quella di Getruda, che lasciò cader subito il fuso. — Ma non è bene che dove sono un uomo e una donna a colloquio, la dolce lode sia data all’uomo, mentr’essa è l’omaggio dovuto alla donna; e più — soggiunse egli, avvicinandosi, fino a bisbigliarle il resto della frase nell’orecchio, — quando la donna è Ingetruda.
— Gisla è così bella,mi dicono! — esclamò la giovane astuta. — Tu devi amarla molto, la nobile signora!
— Gisla è bella, si, — rispose Anselmo — e sarebbe ingiustizia il negarlo. Ma chi ha veduto te, può dire di aver perduta la pace dei suoi giorni e il riposo delle sue notti. Ah, come sognerò ad occhi aperti, Ingetruda!
— E accanto alla tua donna, mio signore?
— Che vuoi tu farci? Sarà il destino che avrà voluto così. Tu non ami Marbaudo; lo hai detto. Ma potresti essere obbligata, a sposarlo. Ebbene, non avverrebbe lo stesso anche a te. di posare accanto ad uomo, e di pensare ad un altro? Ingetruda, ascoltami. Non mettiamo fra te e me queste immagini incresciose. Vuoi tu che facciamo un bel sogno?
— Facciamolo; — disse languidamente Getruda, abbandonando la testa contro la spalliera del seggiolone di quercia, e restando là, con le braccia prosciolte, nell’atteggiamento di una bella dama che ascolti la canzone di un paggio.
— Tu sei mia.... — incominciò soavemente Anselmo. — Non devi sdegnartene, bella! è il sogno che lo vuole. —
Getruda non pensava punto a sdegnarsi. Il moto improvviso della persona, con cui aveva risposto all’esordio del conte, e che a lui era parso di sdegno, o di timore, significava ben altro.
— Tu sei mia — ripigliò il conte — ed io ti ho donato un castello. Quale? Saliceto, o Ponte Invrea? Merana, o Mombaldone? Scegli quel che vorrai, tra quanti ne ho avuti in retaggio da Aleramo mio padre; purchè non sia di confine, dove è ben altro ritrovo che d’amori flici, e dove il regno della bellezza si accomoderebbe male con le necessità della guerra. In quel castello, che tu hai scelto, sei contessa e signora. Nè ti dispiaccia che t’abbia impalmata la mia mano sinistra, o Ingetruda. Questa mano stringe più ardentemente dell’altra; poichè essa è dalla parte del cuore. Là, dunque, ripeto, sei contessa e signora; ti obbedisce il castellano; pendono da un tuo cenno castaldi ed armigeri, esecutori fedeli delle tue volontà. Il tuo servo d’amore, il felice Anselmo, è spesso in volta per i suoi vasti domimi; ma de’ suoi vasti domimi preferisce quel tratto dove non è più egli il padrone.
— Che dici tu. mio signore? — interruppe Getruda, sorridendo. — Perchè non dire quel tratto dov’egli è più padrone che altrove?
— Ah, fosse vero, Ingetruda! — esclamò il conte Anselmo, avvicinandosi ancora.— Ed egli sarebbe così spesso colà, accanto alla dama del suo cuore! Essa gli farebbe oneste ed amorose accoglienze, non è vero? e in quella pace si amerebbero tanto! e non farebbero altro che dirselo! Perchè l’amore è così fatto, Ingetruda; basta esso a riempire tutte le ore del giorno. Ogni cosa annoia; l’ambizione e la potenza, la guerra dopo la pace, la pace dopo la guerra, il convito e la canzone, il volto ridente dell’amico e le curve spalle del nemico. Solo l’amore non sazia, non viene mai a fastidio.
— Ma qualche volta — disse Getruda — la donna che troppo s’è amata; non credi? —
Anselmo rimase un istante pensoso. E non perchè cercasse la risposta, ma perchè voleva mostrare di averla cercata. La sua risposta era pronta. Le donne son così facili ad esprimere quel dubbio, che un uomo in simili casi non dee più trovarsi impacciato a risolverlo.
— E uomini e donne in gran numero possono credere cosi; — diss’egli, dopo quell’istante di raccoglimento. — Amore è capriccioso, più ancora che non sia cieco; e quando amore ci prende per una creatura che non lo ineriti, succede quel che tu dici, il fastidio. Si è amato ardentemente, per un errore dei sensi; ma presto cade dagli occhi la benda. Quella donna, di cui c’eravamo invaghiti, non era poi così bella, come l’aveva fatta apparire a noi il desiderio di un’ora. Quell’uomo a cui avevamo creduto, non era così nobile d’animo e così gentile di modi, come a tutta prima ci si era mostrato. Ora consentimi di dire, Ingetruda, che se a te sarà possibile di giudicare più severamente che ora non faresti il tuo innamorato vicino, a lui non sarà più possibile di mutar cuore e pensiero per te. Sei così bella!
Perchè temeresti tu del futuro? E poi, senti; co’ tuoi dubbi, non bisognerebbe più cedere ad un sentimento d’amore. Facciamo dunque assai meglio. Amiamo, quando amiamo, e sia l’amor nostro senza timore, come senza ritegno. Fuoco vivo ed intenso, che consuma tutto e sè stesso in breve ora, val più che eterno ma fiacco. Signora di Merana, o di qual altro castello ti piaccia diventare l’ospite adorata, il mio fuoco è intenso; speriamolo eterno; e non badiamo al futuro.
— Son figlia d’aldioni; — disse Getruda; — e tu mi vuoi signora di castella. Come sarà possibile ciò?
— La tua bellezza ti assicura ogni privilegio più grande; — rispose Anselmo. — Fredegonda, che tu hai ricordata poc’anzi, era assai meno di te, non pure per bellezza, ma ancora per condizione. Figlia di servi, divenne regina, e regnò molt’anni dopo il marito sul reame di Neustria. Ah, perchè non posso io offrirti un trono, Ingetruda? Tu ne saresti degna, per questa tua forma divina. Come hai potuto nascere così bella in questo umile luogo? Certamente, in quella stessa guisa che nasce un fiore meraviglioso nel prato, in mezzo a cento erbe selvatiche. Un felicissimo germe, portato dai venti e deposto colà da un provvido caso, ha operato il prodigio. —
Getruda aveva chiusi gli occhi e rimaneva là, immobile, con Uà testa arrovesciata contro la spalliera di quercia.
— Che pensi, Ingetruda? Non mi rispondi tu nulla?
— Bel conte, — mormorò ella, senza dischiudere gli ocelli, — si sogna così bene, con te! Non mi destare, ti prego. —
Anselmo si appressò ancora, chinò il volto sul volto di lei, e la baciò sulle labbra.
Il fuso era caduto da un pezzo, lo sapete. Cadde anche la rocca. A qual pro’ sarebbe rimasto ritto al fianco della giovine donna quell’inutile arnese? Berta, oramai, non voleva più filare.
Ah, povero castellano Rainerio! i tuoi consigli fruttavano, ma non a te; l’ambiziosa aveva conquistato ben altro. E sapeva la sua forza, quella figlia d’aldioni, che sognava un trono; meglio assai che dallo specchio di Gerberga, ne aveva la testimonianza credibile dalle pazzie di tutti quegli uomini che s’incontravano in lei, aldioni e censuarii, castellani e conti. Ma sì, conosceva i suoi pregi, la rustica sirena; ed era forse più disposta ad esagerarne il potere, che non a giudicarlo nella giusta misura; nè, dato il caso, si sarebbe fermata a quel punto con le sue ambizioni. Se fosse capitato da quelle parti, e magari in quell’ora, un re di Neustria, o lo stesso imperatore di Lamagna, povero conte Anselmo! sarebbe andato a tener compagnia al castellano Rainerio.
Ma imperatori e re, per fortuna d’Anselmo, erano lonlan di là. Anselmo vinceva; e, felice della vittoria, non pensò di svegliare la figliuola di Dodone dal suo sogno ambizioso.
Aveva tuttavia steso il braccio, per avvinghiarla dolcemente. Ma dolcemente ella si liberò dalla stretta.
— Perchè non mi lasci sognare? — gli disse, con un filo di voce.
— In due; — rispose il conte. — Ti dispiace egli che sogniamo in due?
— No, — replicò l’astuta, — ma tu devi pensare ad altro, bel conte. È da uomo savio e potente, come tu sei, il provvedere al futuro. Io voglio esser tua; te lo giuro. Ma sarò tua.... — soggiunse, abbassando la voce, — nel stel di Merana. E innanzi di condurmi colà, tu devi pensare a liberarmi da questo vincolo, che il tuo editto mi ha imposto.
— È vero; — disse il conte. — Ma nessuno, ti avesse pur guadagnata, nessuno si attenti di prenderti al tuo signore. —
Così parlava, risoluto; quando venne al suo orecchio un suono confuso di trombe e di grida festanti.
— Ah! — esclamò ella, fremendo. — Cosi presto han dichiarato il vincitore?
— E non t’avrà, ti ripeto, non t’avrà! — disse il conte, balzando in piedi sollecito.