Il prato maledetto/XIV
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Capitolo XIV.
Dove i falciatori in gara, di quattro che erano rimasti, ridiventano cinque.
Il castellano Rainerio, veduto partire il suo signore alla volta di Croceferrea, si era ridotto con gli scabini davanti alla chiesuola di San Donato, dove stavano i falciatori, aspettando il segnale di dar principio alla gara. La chiesuola, o cappella di San Donato, era un modesto edifizio, innalzato sulle rovine di un antico sacello dedicato a Diana.
Avveniva un po’ da per tutto la medesima cosa; dovunque il vecchio costume sacrificava agli Dei pagani, si era fatto un mucchio di rovine dei sacelli, dei tempietti, delle are compitali; ma poco dopo, dove tutto non era rovina, le mura maestre si riprendevano da artefici cristiani, per rifabbricare una cappella, che il vescovo consacrava al nuovo culto; e dove la rovina fosse intiera, gli stessi ruderi servivano a edificare quella cappella cristiana dalle sue fondamenta.
Non era poi infrequente i! caso che il nuovo patrono fosse scelto tra i nomi del martirologio cristiano, che più somigliavano al nome del titolare antico.
Ma perchè le divinità dell’Olimpo pagano, una volta cacciate di seggio, erano relegate tra i diavoli, non era neppure infrequente che si vedesse qualche diavolo aggirarsi nei luoghi dove un tempo aveva egli regnato, quasi non sapesse spiccarsi dalla sua vecchia dimora, nè adattarsi a vederla occupata da un nuovo padrone.
Perciò, nelle ore notturne, non era piacevole trovarsi laggiù, col pericolo d’imbattersi nel visitatore importuno, così facile a presentarsi sulla svolta di un sentiero, con le corna aguzze e coi piè forcuti di un immondo caprone; E la. cosa non era neanche piacevole, per la tetra solitudine dei luoghi.
Dal borgo di Cairo, per esempio, andando verso mezzodì, non era traccia d’uomini che alla cappella di San Donato; e di là bisognava andare un lungo tratto per ritrovare quell’altro edifizio rustico che era la casa degli Arimanni (domus Arimannorum, nelle carte del Mille); donde occorreva poi di fare un altro miglio di strada deserta, attraversando incolte boscaglie, costeggiando forre e varcando letti di torrenti, prima di giungere al ceppo di case che dicevasi le Càrcare, sul territorio della vecchia Calanico, o Caralico, dei tempi romani imperiali.
No, davvero, non c’era bisogno del timore d’imbattersi nel diavolo in persona, per evitare l’occasione di una notturna passeggiata in quei luoghi, dove spesso, in cerca di preda, scorrazzavano i lupi delle macchie vicine; quei lupi famelici che le fantasie popolari trasformavano anche volentieri in lupi mannari, in lupi umani, cioè a dire uomini per virtù di sortilegio tramutati in lupi.
Misera condizione di tempi era quella, che a breve distanza dall’abitato non fosse più sicuro un povero cristiano; nè solo dovesse tremare per la salvezza del corpo, ma ancora, e peggio, per quella dell’anima!
Ma non tremava più tanto, quella mattina, il castellano Rainerio; poichè Legio, il misterioso falciatore, non si era presentato alla gara, e gli altri competitori stavano aspettando i suoi cenni sul sagrato della chiesuola, dove certamente il maligno non avrebbe ardito mettere il piede.
Bene cuoceva al castellano, che il conte Anselmo fosse andato o Croceferrea; ma questo era un guaio non potuto evitare, e Rainerio non aveva altro, per consolarsene, fuorchè il ricordo, accennato dal conte, di una scena recente nelle vicinanze di Spigno. Se il conte Anselmo aveva veduta laggiù una giovane donna, che diceva bellissima, e tuttavia non aveva perduta la testa, bisognava sperare che non la perdesse neanche a Croceferrea, dopo aver visto Getruda. Misera speranza, veramente, era quella di Rainerio; ma anche dove il sostegno è poco, la mancanza del meglio fa sì che ci contentiamo del poco; tanto è vero che chi sdrucciola sull’orlo di un precipizio si aggrappa per disperato a un fil d’erba.
Ma infine, c’era altro da fare che crucciarsi. Bisognava per allora assegnare i posti ai falciatori che aspettavano.
Uno di essi, il Matto, aveva tre falci, niente di meno: segno che non voleva perdere, nella cura molesta di affilare il taglio, un tempo destinato nella sua mente a fornire il lavoro di tre uomini.
Un po’ meno armato di ferri, poichè aveva due falci soltanto, ma più armato di coraggio e di risoluzione, appariva Marbaudo; e due falci per ciascheduno portavano anche gli uomini messi in gara dal castellano Rainerio.
Tranquilli, che non pareva affar loro il vincere o il perdere; veri mercenarii, che non si riscaldavano il sangue per nulla; barattavano parole tra loro, ed anche motteggiavano col Matto, spirito bizzarro che già conosciamo abbastanza. Marbaudo rimaneva in disparte e taceva.
Assegnare i posti donde ognuno dei contendenti aveva da incominciare, pareva una cosa da nulla; e gli scaldili lasciarono che a ciò provvedesse Rainerio, bastando loro di seguitare il castellano e di assistere a quella distribuzione di posti.
Raineriò collocò primo Marbaudo, sullo stesso confine del prato, dove sorgeva la chiesuola.
Andando oltre, verso la collina, assegnò il suo posto al Matto; andando ancora più oltre, collocò a giuste distanze le sue creature. Agli scabini parve che ciò fosse bene; e perciò, com’egli ebbe collocati quei due, accettarono il suo consiglio di correre indietro, per avvisare Marbaudo e quell’altro, che oramai potevano incominciare il loro lavoro.
— A voi, dunque! — disse Rainerio, appena fu solo. — il fieno è alto, e per un pezzo nessuno si accorgerà di nulla. Tu Ermenfredo, lavori per conto tuo, quanto basta, per far vedere che avevi incominciato di buona voglia; poi pianti lì e vai a dare una mano al compagno. Appena senti che noi ci avviciniamo per invigilare il lavoro (e di questo ti darà segno uno squillo di corno) corri subito al tuo posto, che gli scabini non abbiano ad avvedersi di nulla. Siamo intesi? —
Con quest’artifizio si confidava il castellano di soverchiare il povero Marbaudo. Quanto al Matto, non se ne dava molto pensiero; ma ad ogni modo, quel che valeva contro Marbaudo, poteva servire anche per quell’altro competitore.
Fatte le sue ultime esortazioni ai due scherani, Rainerio andò verso la chiesuola di San Donato, a raggiungere gli scabini.
Trovò laggiù che i due falciatori si erano messi alacremente a lavoro.
Marbaudo, a occhi veggenti, faceva più svelto del Matto; in capo a mezz’ora si era già posto davanti dugento e più bracciate di fieno. E la sua falce andava, andava via recidendo a semicerchio, ch’era una maraviglia a vederlo.
Maraviglia per gli scabini, s’intende; non per il castellano Rainerio, che n’aveva in quella vece gran noia.
Per un diavolo che non si era presentato, ecco gliene capitava un altro che lavorava per due. E se in mezz’ora aveva già fatto il doppio di quello che in eguale spazio di tempo faceva il Matto, suo vicino di destra, ben poteva anche vincere in celerità i due scherani; uno dei quali, aiutando a tutta possa il compagno, doveva pure in qualche intervallo, e per non dar sospetto ai giudici, lavorare un pochino per sè.
Un pensiero di quella fatta venne anche nella mente degli scabini; quantunque, non sapendo nulla degli artifizi di Rainerio, non partecipassero punto alle paure di lui.
— Andiamo a vedere che cosa fanno quegli altri; — disse uno di loro.— Assai probabilmente non fanno più strada del Matto. —
Rainerio scrollò il capo, quasi in atto di assentire; ma nel fatto non si mosse. Voleva far guadagnar un po’ di tempo agli scherani, che proprio allora dovevano lavorare in comune.
Ma in quel punto, da quel medesimo sentiero ch’egli avrebbe dovuto percorrere seguendo l’invito degli scabini, Rainerio vide venire a passo lento, e dondolandosi sulla persona, un coso lungo e smilzo, con una capperella gittata alla scapestrata sull’òmero, o la berretta a sghimbescio sul capo, sormontata da due penne di gallo.
Zufolava, il nuovo personaggio; e quello zufolo acuto e monotono diede sui nervi al castellano Rainerio, che subito riconobbe il falciatore di cui non aspettava già più la venuta.
Bisognava fare buon viso alla mala ventura.
E il castellano corrugò le ciglia, ingrossò anche la voce, per dire al nuovo arrivato:
— Ah, sei qua, tu?
— Son qua, io; — rispose Legio, beffardo.
— Non sei buon levatore; — soggiunse Rainerio.
— Che! — replicò quell’altro. — Figurati che dormo appena da un occhio. Ma questa mattina ci ho avuto parecchie faccende da sbrigare. E di queste, sebbene m’abbiano condotto un po’ per le lunghe, non sono affatto scontento.
— Questa, per altro, ti va male; — ripigliò il castellano. — Venuto così lardi, non puoi essere ammesso alla gara.
— Chi lo dice?
— Io, e gli scabini che mi assistono.
— Sentiremo anche l’opinione degli scabini; — disse Legio. — Ma si può sapere perchè non avrei più il diritto di entrare in gara, dopo aver fatto iscrivere il mio nome?
— Perchè la gara incominciava ad una stessa ora per tutti. Questo era il patto; e ai patti....
— Lo so, — interruppe Legio; — lo so; ai patti ci sta anche il diavolo. Ma io non intendo di mutarli; io intendo di mettermi a lavoro, mentre gli altri lavorano, e voglio che mi si computi la mia giornata come se l’avessi incominciata con gli altri. Trattandosi di una gara a far presto, il ritardo dell’arrivo è tutto a mio danno. Io non mi lagno neanche di certo modo di lavorare che ho veduto dianzi.... Debbo io dir tutto?
— Entra in gara come vuoi, — disse Rainerio, confuso. — Se gli scabini permettono, io non dico di no.
— Permetteranno, vedrai, permetteranno. Non è egli vero, clarissimi viri? Voi dovete intendere che chi tardi arriva male alloggia. Trovo già molto lavoro fatto; gareggio in cattive condizioni....
— E perderai, — dissero gli scabini.
— Questo ho da vedermelo io.
— E neanche hai la falce. Che vuoi tu mietere?
— Con questo, — disse Lcgio. — Non è forse un ferro di falce? —
Così dicendo, traeva di sotto alla cappa il suo ferro di falce, niente dissimile da quello degli altri falciatori.
— Sta bene, — dissero gli scabini. — Ma senza il manico?
— Ah, il manico!... è vero, non l’ho portato. Ma il manico è là.
— Dove?
— Là, sulla riva del fiume. Me lo daranno quei salci.
— E perderai un’altra ora a scegliere il tronco adatto, a tagliarlo, a rimondarlo....
— Che farci? — interruppe Legio, stringendosi nelle spalle. — Sceglierò, taglierò, rimonderò, adatterò, lavorerò, raggiungerò.... E se anche non raggiungerò gli altri, perderò. Non sarà la prima volta, nè l’ultima.
— Dio voglia! — mormorò il castellano Rainerio, che per la prima volta, e senza avvedersene, si rivolgeva per soccorso a così alta autorità.
Legio dette una guardata di traverso al castellano Rainerio, e sogghignando gli passò davanti, per andarsene verso la riva del fiume.
Nè volle affrettare il passo; tenne quella andatura trascurata che già conosciamo, dondolandosi sui fianchi, come un uomo che ha tempo e non vuole riscaldarsi il sangue per le faccende sue, nè per quelle degli altri. Era quella una canzonatura che Legio dava al castellano; e Rainerio la intese benissimo. Ma a quel personaggio non si poteva farla pagare, come ad ogni altro che avesse osato anche meno di lui; e il castellano trangugiò la sua rabbia.
Giunto sulla riva del fiume, Legio andò ancora un tratto, col naso in aria, guardando i salci e gli ontàni della riva.
Finalmente. ritrovò il fatto suo in un bel tronco di salcio, lungo e diritto come una lancia, e lo tagliò con quattro colpi di un pennato, che portava alla cintola; quindi, svettatolo e levatine d’un colpo netto i ramoscelli minori, si pose il tronco sotto il braccio, per ritornarsene verso la chiesuola.
Così rifacendo lemme lemme il cammino, seguitava a rimondare il tronco, a scortecciarlo, a levarne i nodi, per adattarlo poi alla staffa della sua falce.
Quando giunse davanti a Rainerio, il suo lavoro era quasi finito.
— Ecco qua, — diss’egli, volgendosi agli scalimi, — un bel manico di falce.
— Legno troppo fresco! — osservò uno di loro. — Ti si piegherà tra lo mani.
— Eh, ci vorrà pazienza; — rispose Legio. — Non si può mica aver tutto.
— Ed anche è troppo lungo; — notò l’altro scalano. — Dovete lavorar tutti con falci della medesima lunghezza.
— Contentiamo questo degno scabino; — disse Legio, troncando d’un colpo una buona metà della sua lancia. — Va bene cosè? — Va bene; — rispose quell’altro. — Ma che diavoleria è questa mai? — soggiunse tosto, osservando il tronco rimasto nelle mani di Legio. — Eccolo da capo allungato.
— Non badare, o scabino. È una virtù del salcio, quando ò reciso di fresco. La pianta è in succhio, e il succhio lavora, non avvedendosi di ciò che ò accaduto da un capo e dall’altro del tronco. Animo, via! e correggiamo questa soverchia vitalità del succhio. —
Così dicendo, Legio diede un altro colpo del suo pennato al tronco di salcio, facendone cader mezzo sul terreno.
Per quella volta il succhio non fece più miracoli, e il manico della falce non crebbe.
— Ditemi ora, — rispose Legio, — donde avrò da incominciare.
— Da dove vorrai; — dissero gli scabini, dopo aver guardato Rainerio, e veduto che non voleva aprir bocca.
— Bene; — rispose il falciatore. — Allora sceglierei di piantarmi nel bel mezzo del prato.
— Correrai il pericolo d’incontrarti questa sera col lavoro degli altri; — replicarono gli scabini.
— Capisco, clarissimi viri, capisco. Ma io lavorerò prima voltato dall’altra parte, e poi mi volterò verso i miei competitori.
— Ci sarà tempo, allora! — dissero gli scabini.
— Andiamo dunque a segnare il punto donde comincierai tu, poichè ti piace attaccare dal mezzo.
— Andiamo; — rispose Legio, mettendosi la falce in ispalla.