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Ora, quel nobile cavaliere, quel conte Anselmo, su cui non era più nulla e nessuno, tranne l’imperatore e Dio, aveva posto piede nella casa di Dodone, aveva veduta la bella figliuola di lui, e tosto si era affrettato a congedar la sua gente. E seduto davanti all’ambiziosa filatrice, non sapeva spiccar gli occhi da lei, mentre, con la voce più soave e con l’accento più carezzevole ch’ella avesse udito mai, le diceva:

— Sei tu, dunque, Ingetruda, la figliuola del nostro buon amico Dodone, decantata nei miei dominii per maravigliosa bellezza? Non arrossire, ti prego. La fama non mi aveva recato neanco la metà del vero, che oggi riconosco ed ammiro con gli occhi miei proprii. E mi meraviglio ancora di me, che ho potuto ignorare fino a quest’oggi l’esistenza di una creatura così divinamente bella, in queste valli che mi ha lasciate in retaggio il valor di Aleramo. Vedi, Ingetruda? Io vo’ dirti sinceramente ogni cosa. L’altro dì, passando sulla sponda di un torrente, là dalle parti di Spigno, mi avvenne di vedere una giovane donna