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— Tu sei mia — ripigliò il conte — ed io ti ho donato un castello. Quale? Saliceto, o Ponte Invrea? Merana, o Mombaldone? Scegli quel che vorrai, tra quanti ne ho avuti in retaggio da Aleramo mio padre; purchè non sia di confine, dove è ben altro ritrovo che d’amori flici, e dove il regno della bellezza si accomoderebbe male con le necessità della guerra. In quel castello, che tu hai scelto, sei contessa e signora. Nè ti dispiaccia che t’abbia impalmata la mia mano sinistra, o Ingetruda. Questa mano stringe più ardentemente dell’altra; poichè essa è dalla parte del cuore. Là, dunque, ripeto, sei contessa e signora; ti obbedisce il castellano; pendono da un tuo cenno castaldi ed armigeri, esecutori fedeli delle tue volontà. Il tuo servo d’amore, il felice Anselmo, è spesso in volta per i suoi vasti domimi; ma de’ suoi vasti domimi preferisce quel tratto dove non è più egli il padrone.
— Che dici tu. mio signore? — interruppe Getruda, sorridendo. — Perchè non dire quel tratto dov’egli è più padrone che altrove?