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tappeti da preghiera del Daghestan con i loro simboli, i tappeti del Kurdistan chiazzati, per cosí dire, di fiori sbocciati; finalmente, in un canto, un mucchio di tappeti di Gheurdes, di Cula e di Kircheer, dati quasi per nulla, dai quindici franchi in su. Pareva una tenda da pascià; ed era ammobiliata di poltrone e divani fatti con sacche da cammello, alcuni variopinti a losanghe, altri con rose, disegnate e colorite con piacevole ingenuità. La Turchia, l’Arabia, la Persia, l’India, s’eran date convegno; dovevano avere votato palazzi, devastato moschee e bazar. Nei tappeti antichi sbiaditi predominava il colore dell’oro rosso; ma pur nelle loro tinte impallidite conservavano un calore cupo, quasi di fornace spenta, e un bel colore da ceramica di antico maestro. E visioni orientali ondeggiavano sul lusso di quell’arte barbara, tra gli odori acri che le vecchie lane avean portati seco dalla terra degl’insetti e del sole.

Quando Dionisia, alle otto, traversò la sala orientale per cominciare la sua prima giornata, dallo stupore non riconobbe piú l’ingresso del magazzino, e tra quell’addobbo da harem, proprio lí sulla porta, finí col perdere la testa. Un garzone la condusse nelle soffitte, e la consegnò alla signora Cabin, addetta alla pulizia e alla sorveglianza delle camere: fu messa al numero 7, dove già avevan mandata la sua valigetta.

Era una stanzuccia che dava sul tetto per una finestra a botola, con un letticciuolo, un armadio, una toeletta e due seggiole. Altre diciannove camere simili a quella stavano, come nei conventi, in fila sul corridoio tinto di giallo: là dormivano le venti ragazze del magazzino che non avevano famiglia a Parigi; le altre quin-


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