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zola


— Ma, figliuola mia, in codesto vestito ce n’entrerebbero due! Bisognerà che lo restringiate... E poi non vi sapete vestire. Venite qui, che vi accomodi un po’ io.

E se la condusse davanti a uno dei grandi specchi che si alternavano con gli sportelli degli armadi dove stavan chiusi i vestiti bell’e fatti. Quella stanzona, tutta a specchi e a mobili di quercia scolpita, parata di stoffa rossa a grandi fiorami, rassomigliava alla sala d’un albergo in cui non smetta mai l’andirivieni dei forestieri. E la somiglianza era fatta maggiore dalle ragazze vestite, secondo il regolamento, di seta, e costrette ad andare sempre su e giú con una grazia che non era meno d’obbligo della seta, senza mai potersi mettere a sedere sulle dodici seggiole riservate soltanto alle clienti. Avevan tutte, tra un bottone e l’altro del giacchettino, come infisso nel petto, un gran lapis che metteva fuori la punta; e si vedeva mezzo fuori d’una tasca il bianco d’un libretto per le fatture. Alcune erano adorne di gioielli, anelli, spilloni, catene; ma la civetteria piú grande, il lusso che nella uniformità dei vestiti dava loro un modo di gareggiare, erano i capelli; accresciuti, quando non bastavano, da trecce false e chignons, sempre pettinati, lisciati, messi in mostra.

— Tiratevi un po’ giú la cintola! — ripeteva la signora Aurelia. — Non vedete che almeno ora la gobba nelle spalle non ce l’avete piú?... Ei capelli come si fa ad assassinarli in questo modo? Se li curaste, sarebbero bellissimi.

Erano veramente la sola bellezza di Dionisia; biondi d’un biondo cinereo, le cadevano fino quasi al collo del piede; e quando si metteva qualche cosa in testa le davano tanta noia, che


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