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co di tuffarsi in quella folla che significava la sua vittoria. Gli mancava il respiro, e ne godeva; gli sembrava, sentendosi cosí pigiato, d’abbracciare a lungo tutta la clientela.

— A sinistra, signore — disse l’Hutin, sempre cortese, per quanto la stizza gli andasse crescendo.

Al primo piano non c’era ressa minore. Perfino la sezione della mobilia, solitamente la piú quieta, era invasa. Gli scialli, le pellicce, le biancherie, riboccavano di gente. Mentre le signore traversavano la sezione delle trine, s’imbatterono in un’altra amica. La De Boves con la sua Bianca eran lí, ingolfate nelle trine che il Deloche mostrava loro. E l’Hutin dové fermarsi ancora, con l’involto in mano.

— Buon giorno... Pensavo proprio a voi.

— Vi ho cercata, io. Ma come si fa a ritrovarsi fra tutta questa gente?

— Bellissimo, non è vero?

— Splendido, mia cara!... Non ci reggiamo piú ritte.

— E comprate?

— No, no, si guarda! Cosí, a sedere, ci si riposa un po’.

La De Boves, infatti, non avendo nel portamonete altro che i soldi per la vettura, si divertiva a far uscire dalle scatole ogni sorta di trine, tanto per vederle e toccarle. S’era accorta che il Deloche era un principiante, lento e maldestro, che non osava resistere ai capricci delle signore; e abusava della sua affaccendata compiacenza tenendolo lí da una buona mezz’ora col chiedergli sempre dell’altra roba. Il banco traboccava di trine, ed ella vi ficcava le mani con dita tremanti dal desiderio in mezzo a quel-


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