Il miracolo/Parte prima/IV
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CAPITOLO IV.
Invano la primavera, scherzosa di raggi e ricca di profumi, scioglieva dai rami le chiome in fiore; invano l'usignolo, nella pace delle notti lunari, diffondeva sugli orti e sui giardini il suo canto d'amore fino a morirne! Invano!
Gli animi esacerbati dei cittadini di Orvieto, abitualmente pacifici, erano travolti dal turbine delle passioni politiche, ed i giornalisti locali soffiavano sulle ire come altrettanti titani dentro le fucine del Mongibello. Anzi, lo scoppio delle ostilità fra gli avversi partiti militanti si era iniziato appunto con una polemica acerba fra l'organo settimanale dei giovani cattolici e l'organo quindicinale dei giovani socialisti.
Il Lavoro aveva pubblicata nelle sue colonne una poesia di gusto satirico all'indirizzo dei colleghi cattolici, e poichè i versi di tale poesia apparivano alquanto più lunghetti del necessario, con una munificente prodigalità di sillabe e una sprezzante libertà di accenti, a irrisione della tiranna prosodia, i giovani cattolici, freschi di latino, avevano disposti in bell'ordine, sul loro foglio Il Carroccio, i versi capricciosi degli antagonisti, i quali, alla loro volta, avevano infierito con pungenti sarcasmi contro la grammatica dei chierichetti. Un episodio spiacevole era venuto a buttar olio sul fuoco: durante il funerale di una giovanetta ricca, accompagnata all'ultima dimora dalle figlie di Maria, vestite di bianco, alcuni socialisti dei più focosi, si erano trovati sulla strada percorsa dal corteo ed avevano inveito contro la beghineria della morta, la quale, in verità, nel giro della sua breve esistenza, non aveva dato prova di maturare in seno nessunissima opinione di nessun colore.
La stampa cattolica del Carroccio, rappresentata da uno studente di terza liceale, aveva con ira alzata la voce all'indirizzo dei perturbatori, fra i quali si trovava un apprendista calzolaio di giovane età, ma di fieri propositi, che la sera medesima aveva cercato di ferire lo studente liceale con un coltelluccio arrugginito.
L'attentato politico si era svolto in piazza Vittorio Emanuele, di fronte al caffè, alla presenza di molte notabilità cittadine e, quantunque non una stilla di sangue fosse caduta e quantunque il ragazzo si fosse lasciato trascinare via fra due carabinieri, a testa china, come un vero cane bastonato, la notizia era corsa per le vie, aveva dilagato nelle piazze, si era infiltrata nelle case, destando ovunque l'orrore e lo sgomento. Oh! i tempi erano torbidi e i socialisti avevano di certo tramata una congiura per mettere il piede sul collo all'intera cittadinanza.
Naturalmente, non si conoscevano i propositi con precisione, ma, per il giorno del primo maggio, festa del lavoro, paurosi avvenimenti si andavano preparando.
Si vociferava di una dimostrazione, che doveva muovere da porta Romana e percorrere le vie principali; si giurava che i socialisti orvietani aspettavano rinforzi da Porano, da Bagnorea, da Cortona, perfino da Perugia; si bisbigliava che le vetrine dei negozi sarebbero mandate in frantumi, e svaligiate le case dei signori.
La sera del trenta aprile Orvieto mostrava dunque l'aspetto insolito di una città sopra cui la sventura sia piombata. I negozi erano socchiusi e i proprietari, insospettiti, si affacciavano a ogni poco, scrutando a destra e a manca; il Corso tortuoso, affollato sempre nelle prime ore della sera, in quel breve tratto che va dal Teatro Comunale a piazza Vittorio Emanuele, era deserto del suo vezzoso pubblico femminile e gli uomini o camminavano a gruppi, discutendo animati, ovvero stavano raccolti in capannelli con aria di cospiratori. Poco dopo le nove già tutto era silenzio e ciascuno si era appartato fra le pareti domestiche per attendere gli eventi dell'indomani.
Fritz Langen si divertiva inesauribilmente.
Amico dei giovani socialisti, amico dei giovani cattolici, anelava dagli uni agli altri rinfocolando le ire e seminando zizzania per amore di erudizione, per concedersi lo spettacolo di vedere le vie di Orvieto turbolente di uomini in armi, come ai tempi felici dei Monaldeschi e dei Filippeschi, dei muffati e dei mercorini, allorchè dall'alto delle torri pioveva la bollente pece, mentre in basso le torcie destavano incendi e gli uomini si azzannavano a guisa di mastini, e le donne, scarmigliate, o correvano nelle chiese ad abbracciare gli altari o incitavano con urli i vinti alla riscossa. Il vescovo, rivestito de' suoi paramenti, seguìto da tutto il clero, scendeva per le strade e invocava pace, pace, tra il clamore delle armi cozzanti e delle bestemmie!
Questo Fritz Langen avrebbe voluto rivedere, ed a tale scopo s'industriava del suo meglio.
— Vi scherniscono, vi chiamano conigli, lepri, montoni, castrati - egli diceva ai partigiani del Carroccio.
— Vi paragonano all'animaluccio di Sant'Antonio. Dicono che con le vostre orecchie di asino dovreste ripulir le vie che insudiciate coi vostri grifi - diceva ai partigiani del Lavoro.
Le parole di collera, suonavano smisurate da ambo le parti, ma di venire alle mani ancora non si vedeva il principio.
In mancanza di meglio, Fritz Langen, quella sera del trenta aprile, aveva invitato alla fiaschetteria di piazza del Cornelio, il Paterino, arrabbiato socialista, e Bindo Ranieri, cattolico per la pelle.
Sulle prime i due non volevano saperne di bisticciarsi e Fritz Langen ci rimetteva i suoi fiaschetti di vino d'Orvieto. Perchè riscaldarsi la bile? La serata era così tepida e la giornata era trascorsa in tanti affanni che si gustava un vero sollievo nel restarsene lì, tranquilli, a parlare di altro, molto più che il vino era squisito e non costava nulla, per la generosità del signor professore. E poi Bindo Ranieri e il Paterino si erano conosciuti al fonte battesimale e si stimavano di comune accordo. Il Paterino sapeva Bindo Ranieri un galantuomo di stoffa antica, allegro, pronto alla barzelletta, disposto a favorire in secreto gli amici nell'occasione di qualche momentaneo imbarazzo finanziario; Bindo Ranieri sapeva che il Paterino non avrebbe torto un capello nemmeno al più crudele nemico e che si sarebbe tagliato la gola col più affilato rasoio della sua bottega prima di venir meno a un impegno. Perchè arrabbiarsi dunque?
— Creda, signor professore - disse Bindo Ranieri tentando fiaccamente di scansare il bicchiere, che Fritz Langen colmava. - Creda, tutto finirà in una bolla di sapone. Io li conosco i miei orvietani! Gente pacifica, gente onesta! Basterebbe il pennacchio rosso di un carabiniere, in cima a un bastone, per tenerli in freno. Di' tu, non è vero che siamo impastati così? - egli domandò, rivolto al Paterino, che fissava tetro il fondo del suo bicchiere.
— Impastati così! Impastati così! -il Paterino brontolò - Allora siamo impastati male. Il popolo, tu devi sapere, il popolo... Basta, rideremo in ultimo - e si succhiava i baffi avidamente, battendo sul marmo il dorso della mano, quasi per invitare i signori a mettere carte in tavola.
— Andrà a finire in una bolla di sapone, te l'ho già detto - Bindo Ranieri di nuovo ripetè nel suo placido ottimismo.
Fritz Langen strizzò l'occhio sinistro e disse:
— Se così è, questo significa che le vostre signore arcibisnonne ne hanno fatte di cotte e di crude, ai tempi quando Berta filava.
— Ah! ah! signor professore cosa dice lei? - Bindo Ranieri esclamò col suo riso bonario, mentre il Paterino dava un forte pugno sul tavolo in segno di allegria.
L'idea che le arcibisnonne orvietane ne avessero fatte di cotte e di crude gli pareva insultante per i suoi avversari.
— Sicuro, sicuro - Fritz Langen confermò, serio, togliendosi il cappello e deponendolo, poichè sentiva caldo. - Il sangue non è acqua, perciò, se voi siete così pacifici, vuol dire che il sangue dei vostri feroci arcibisnonni non corre nelle vostre vene. Si capisce, è naturale. I mariti abbandonavano la città per devastare le terre degli altri e far bottino di bestiame, le mogli si consolavano. Sicuramente, è naturale!
— Un momentino, scusi. Con chi si consolavano, se gli uomini stavano fuori? Al tempo delle scorrerie, lei m'insegna, non restavano in città che vecchi e bambini - disse Bindo Rarieri, soffiandosi il naso come faceva sempre, quando doveva prepararsi a una discussione d'importanza.
Fritz Langen alzò le spalle e rise beffardo.
— E l'Opera del Duomo? - egli domandò, strizzando l'occhio di nuovo - L'Opera della fabbrica costituiva da sola una popolazione maschile. Camerlenghi, scalpellini, ripulitori, l'orologiaio, il campanaro... Stia tranquillo, illustrissimo signor Bindo, che ce n'era da contentare le ricche e le povere, le belle e le brutte.
Il Paterino si era gettato all'indietro sullo schienale della seggiola e si teneva sollevato sulla testa il cappello con tutte e due le mani. Oh! il sapientone aveva finalmente trovato chi poteva tenergli fronte sulle faccende della storia.
— Certo, certo, la Fabbrica del Duomo - il Paterino esclamò. - Tutta roba di preti.
— Insultare i preti non vale — redarguì Bindo Ranieri, già rosso in volto, indirizzandosi al Paterino. - La storia va studiata, dopo si parla. L'Opera del Duomo era formata dei più grandi maestri d'Italia e bisognava che il Comune li mandasse a cercare con le ambascerie, se li voleva. E sfoderavano certe pretese, quei signori artieri. Dieci staia di grano all'anno, misure di vino pei loro bisogni, facoltà di portare armi e di tenersi donne a spese del Comune. Ma così il Duomo diventava sempre più imponente, sempre più famoso, ed i mastri poi domandavano, per onore, la cittadinanza orvietana. E fior di principi c'indirizzavano lettere umilissime per ottenere in prestito i nostri operari.
Allorchè Bindo Ranieri cominciava ad esprimersi con parole difficili, il Paterino andava in bestia e diventava insolente.
— San Pier Parenzo - egli disse con ira, stringendo i denti.
Bindo Ranieri diventò grave e gonfiò il collo come un piccione che tuba.
— Sì, ti voglio chiamare San Pier Parenzo. Se non ti piace, ricorri al vescovo.
Fritz Langen, soddisfattissimo, si raschiò la gola e ordinò al garzone un altro fiaschetto. Oramai egli non aveva da far altro che incrociare le braccia ed aspettare. Quando l'apostrofe «San Pier Parenzo» veniva lanciata dal Paterino contro Bindo Ranieri, era indizio che i ferri stavano al fuoco.
Bindo Ranieri masticò male due o tre volte, poi disse, con la freddezza dell'uomo superiore:
— Credi tu forse che San Pier Parenzo facesse il barbiere? Allora m'insulteresti chiamandomi così. Ma Pier di Parenzo, romano, era uomo di vaglia, uomo di polso, mandato dal Papa in Orvieto a podestà per domare l'eresia dei paterini, peste del comune, peste della chiesa.
— E noi gli abbiamo buttato un laccio al collo - il Paterino disse con gioia feroce.
— Prima di tutto non fare il gradasso, buffone! Sette secoli fa, nel millecentonovantanove, tu non c'eri, e se anche tu ci fossi stato saresti corso a nasconderti. Questo per tua norma. Poi, se i paterini gettarono un laccio al collo a quel nobile signore, insediato qui dal Pontefice per il nostro bene, vuol dire che gli eretici di tutt'i tempi non hanno amor proprio, nè coscienza.
Fritz Langen gridò gioiosamente:
— Grazioso; grazioso! Maledettamente grazioso! - e si rimise in ascolto, con la massima attenzione, perchè, nel calore del discorso, gli altri precipitavano le parole ed egli non comprendeva ancora perfettamente l'italiano.
— Gli abbiamo gettato un laccio al collo e gli abbiamo fatto la festa - insistè il Paterino, con la ostinazione orgogliosa di chi abbia compita una prodezza e se ne vanti.
— A tradimento! La sai tutta la storia di San Pier Parenzo? - domandò Bindo Ranieri, già in piedi, sfidando col gesto della mano grassoccia l'altro a proseguire.
— Sissignore, la so!
— Da quanto tempo hai imparato a leggere? - Bindo Ranieri chiese sprezzantemente, ergendosi maestoso sulla persona tonda.
Il Paterino buttò indietro la seggiola e fece l'atto di afferrare un bicchiere e di scagliarlo.
— Ferma, o succedono guai - gridò Bindo Ranieri, agitando in aria il suo bastone.
Fritz Langen roteò intorno a sè stesso, puntando in terra il tacco destro, e mandò un lungo fischio, la quale azione simultanea denotava in lui l'espressione massima del godimento.
— Perchè trascendere? Non basta ragionare? - Bindo Ranieri interrogò, già calmato. - Rispondimi a tono. In che libro hai letto la storia di San Pier Parenzo, tu che non leggi mai nemmeno le scritte dei negozi?
— Me l'ha raccontata don Alceste. È stato lui a dirmi che se tu mi chiami Paterino, io devo chiamarti San Pier Parenzo.
Una risata di giubilo schernitore sollevò le spalle quadre di Bindo Ranieri.
— Bravo, don Alceste! Si è burlato di te! Mentre tu credevi di farmi oltraggio, nella tua ignoranza, mi davi gran vanto di persona coraggiosa e nobile. Sissignore, eccomi qui, San Pier Parenzo - egli gridava, eccitato di nuovo, così eccitato che il pizzo del mento si alzava e si abbassava con volubilità estrema nei moti irrequieti della testa.
— Buttatemi un laccio al collo, trascinatemi al macello, paterini! Son quà. Ma dovete farlo a tradimento, dovete sborsare a un servo il prezzo di Giuda e pigliarmi di sera, scalzo, perchè se mi lasci le scarpe nei piedi, Paterino, io te ne farò provar nella schiena la consistenza della suola.
— A chi? - urlò il Paterino, saltando indietro di tre passi per mettersi sulla difesa.
— È storia, domandalo al professore se questa non è storia. Dica lei, signor professore, San Pier Parenzo era o non era spoglio di calzari, quando il servo Rodolfo gli buttò un laccio al collo?
— Sicuro, sicuro, ma il servo gli prestò i suoi.
Bindo Ranieri rimase interdetto, e il Paterino si riaccostò, canzonatorio, tenendo le mani in tasca e zuffolando un'arietta.
— Sta bene, il servo Rodolfo gli prestò i suoi calzari. La storia lo dice e sta bene. Ma i paterini si condussero da eretici sleali ammazzando quel degno signore. Anche le pietre se ne commossero. È noto infatti che il palazzo dove si trova adesso l'albergo delle Belle Arti e che apparteneva in antico a uno dei congiurati paterini, un Bisenzi, trema ancora quando la processione in onore del santo attraversa il Corso.
E fu tutto. Il Paterino, il quale non era eccessivamente ben educato, cominciò a sbadigliare e Bindo Ranieri si mise a ridere, dicendo che, in fine dei conti, gli amici rimangono amici, e, dopo molte sberrettate al signor professore, se ne andò pei fatti suoi.
Fritz Langen, rimasto solo, accese una sigaretta e passò per piazza Gualterio.
Egli non l'aveva veduta da tre giorni. Perchè non usciva a passeggio?
Aveva paura della rivoluzione la nobile figlia dei Montemarte?
No! No! Troppe volte egli le aveva sorpresi lampi di fierezza negli occhi e con troppo impeto il buon sangue le montava alla faccia per una parola che non le piacesse o per uno scherzo che le paresse ardito. Chi l'aveva dunque domata così la bellissima creatura di forza e di salute? Perchè aveva quell'andatura di mollezza stanca e perchè il capo le si chinava spesso come sotto il peso di una volontà estranea, che la spaurisse, mentre gli occhi alteri e dolci le si velavano all'improvviso per l'ombra di uno sgomento? E perchè l'intelligenza di lei, di cui Fritz Langen ammirava talvolta l'agilità schietta e pronta, appariva abitualmente pigra, ritrosa all'esercizio, costretta nei lacci di una servitù perenne?
Fritz Langen sentiva monna Vanna ripetere a ogni momento: «Questo non si può dire, è peccato; questo non si può fare, è vietato; la chiesa non permette di pensare così; Iddio mi punirebbe se io facessi questa cosa. Noi dobbiamo diffidare di noi; la natura umana è fallace; la nostra volontà è la nostra nemica».
Fritz Langen, ascoltando tali discorsi, le diceva, ridendo, che ella si fabbricava intorno una gabbia con le sue stesse piccole mani: una gabbia di terrori e di pregiudizi, dove sarebbe rimasta prigioniera e che le si sarebbe stretta addosso ogni giorno di più, impedendole di muoversi e di godere.
— La terra è vasta - egli la incitava. - Il mondo è bello! Cammini, monna Vanna, e colga fiori! Lei dovrebbe star bene inghirlandata!
Vanna a simili parole affrettava il passo, come se davvero volesse cimentarsi alla conquista del mondo!
Egli gioiva nell'ammirarla tutta fremente, cogli sguardi verso il sole. Stava per trasformarsi in aquila audace la timida colombella? Ma subito Vanna si ripiegava in sè, smarritamente.
— Troppo io pecco nell'orgoglio - ella diceva contrita. - Io voglio essere umile e rassegnata, perchè l'umiltà e la rassegnazione sono le due più nobili virtù cristiane.
— Sicuro, sicuro - egli pensava quella sera, fumando affacciato alla finestra della propria stanza - Avrei voluto conoscerla in altri secoli monna Vanna. Allora non sarebbero riusciti a impacciarla nei centomila fili delle loro pratiche superstiziose. Allora il buon sangue avrebbe avuto ragione in lei sui terrori dell'Inferno. Quando non avrà più la bellezza, quando non avrà più la giovinezza sarà una povera cosa floscia! E se la immaginava, dopo una ventina di anni, pallida, vestita dimessamente, chiusa nell'egoismo della sua devozione minuta di avara spirituale, che si preoccupi solo di accumular tesori per la vita di oltretomba. A contrasto gli balzò di fronte, nel pensiero, monna Vanna, quale ella sarebbe stata se le magnifiche energie del suo temperamento avessero potuto svolgersi nella loro interezza. Fritz Langen si lasciava sfuggire voluttuosamente dalla bocca e dalle nari le spire del fumo odoroso e, seguendone coll'occhio le volute leggere, immaginava monna. Vanna col busto sottile chiuso in un giaco brunito, su cui la seta vermiglia di un giubbotto a ricami sarebbe ricaduto in pieghe massicce.
Ardita, in arcioni sopra un cavallo bardato, monna Vanna si precipitava, incuorando i suoi alla conquista della rocca ardua, e i capelli le svolazzavano liberi, a foggia di stendardo luminoso, e nella mossa violenta ch'ella faceva all'indietro col corpo, per chiamarsi intorno i suoi fedeli, il puro profilo spiccava nitido.
Oh! essere allora un nobile guerriero al seguito della podestà imperiale di Arrigo Settimo e ottenerla per vittoria la magnifica signora guelfa, farsene preda e portarsela in uno de' suoi castelli, in vista del Reno, e ammirarla galoppar nelle selve, tra il fragore delle cacce, o, tornando da qualche impresa guerresca, scorgerla superba e pensosa nel vano di una finestra gotica, teso il piccolo pugno a sostenere un falco, e il falco avrebbe empito l'aria di stridi rauchi, snodando il collo pennuto, mentre la signora, sdegnosamente, lo avrebbe fissato negli occhi grifagni.
Fritz Langen sintetizzò i suoi pensieri, dicendo a voce alta con riso di tenerezza:
— Süsses Dummerchen che in italiano significa «dolce sciocchina» e se ne andò a dormire.
All'indomani gli avvenimenti profetizzati accaddero in parte appunto perchè i troppi discorsi li avevano fatti maturare.
La mattinata passò tranquilla, sommersa nel silenzio. Quella piccola città sembrava disabitata e i santi, le sante, gli angeli e arcangeli, i profeti, i dottori, i patriarchi, avrebbero potuto discendere dalla facciata del Duomo e percorrere in meravigliosa teoria le strade e le piazze, ammantandosi dei raggi che il sole di maggio largiva e ponendo le piante sui petali che i rami degli alberi lasciavano piovere! Avrebbero potuto far questo e ricollocarsi poi sulla facciata., in apoteosi, nell'usato ordine, a contemplare nel centro l'incoronazione di Maria, senza che occhio mortale si fosse posato a profanarli.
Tutto era muto, tutto pareva morto. Il negozio del Paterino, nelle vicinanze della torre del Moro, rimaneva chiuso, sbarrato all'esterno, per confermare ostentamente le opinioni ribelli del proprietario, e solo il negozietto di Bindo Ranieri era spalancato al pubblico, che non si presentava, onde le statuine di alabastro, vezzose, pudiche nella grazia dei loro atteggiamenti, si domandavano con meraviglia discreta, chi mai dovevano allettare, disposte così, in elegante simmetria sul davanti delle vetrine; ma nessuno rispondeva loro, giacchè Bindo con la sposa rimaneva invisibile e la finestrella di fronte stava in silenzio, velata all'interno di bianche cortine.
Verso mezzogiorno la città pareva riscuotersi, qualche passante affaccendato svoltava già sul corso; qualche massaia audace si avventurava per qualche provvista, allorchè dieci militi, guidati da un brigadiere, furono veduti attraversare il Corso a passo celere, avviati dalla parte della funicolare.
Certo, cose gravi succedevano, senza che nessuno riuscisse a precisare il carattere o l’entità delle circostanze.
Forse era giunto inaspettato, col direttissimo, un caporione socialista da Roma o una bandiera anarchica, rossa e nera, aveva spiegato forse i suoi foschi colori al sole gaio di maggio. Non si sapeva bene. I socialisti, che dovevano essersi raccolti alla spicciolata, perchè la sede loro in piazza del Cornelio era rimasta silenziosissima, entrarono in città dalla funicolare, a drappello serrato, preceduti da una fanfara, tenendosi in mezzo un giovanotto allegro, che si scalmanava a gesticolare. Nei pressi del teatro, il drappello si arrestò e un tumulto di voci, gridanti «abbasso, evviva» si diffuse per Orvieto. Le finestre furono chiuse con furia, quasichè una raffica di vento passasse, facendo sbatacchiare le imposte, e i portoni delle case vennero assicurati con grosse sbarre.
Che cosa stava succedendo, Signore Iddio?
Cose enormi, sicuramente, cose mai viste in Orvieto a memoria di uomo.
Due colpi di moschetto rimbombarono in aria, due squilli si udirono a intervalli lunghissimi, e l’echeggiare degli spari, l’echeggiare degli squilli passarono sopra i tetti delle case come il volo di arcangeli sterminatori.
Alle due tutto era quieto; nessuno era morto, nessuno era ferito, tre o quattro furibondi socialisti erano stati condotti alla caserma dei carabinieri, ma poi rilasciati subito. Le case di Orvieto non erano dunque precipitate nel fondo del fiume Paglia dalle vette della roccia; il buon Maurizio non aveva interrotto la regolarità del suo martellare, in cima della sua torre, e non una delle statuine di alabastro, nel negozietto di Bindo Ranieri, si era scomposta dalla grazia pudica dei suoi atteggiamenti: eppure la città appariva devastata come da un flagello, e il Paterino, furtivo, guardandosi attorno, era sguisciato dalla via del Duomo nel viottolo scosceso, per domandare asilo a Bindo Ranieri. Non si fidava di tornare nella sua casa. I carabinieri avevano forse avuto l’ordine di caricarlo di catene e buttarlo nel fondo di una prigione.
Fritz Langen, il quale non si era negata nemmeno la particolarità più insignificante del tafferuglio, e che restava adesso unico signore delle vie di Orvieto, si recò a tirare il campanello al portone di piazza Gualterio. Titta apparve cauto a una finestra del pianterreno, dietro l’inferriata, e disse che il signorino, per consiglio di monsignore, era stato mandato in campagna la sera innanzi con Domitilla Rosa, Palmina e Serena, e che la signora, fin dal mattino, si trovava sola, nascosta nella casetta di Domitilla Rosa.
— E perchè? — domandò meravigliato Fritz Langen.
Titta rispose in tono evasivo che, nei momenti di rivoluzione, i personaggi più in vista sono i più esposti al pericolo, e che la prudenza è una virtù cristiana.
D'altronde la signora sarebbe rientrata verso l'imbrunire, e allora il signor professore avrebbe potuto interrogarla da sè.
Fritz Langen passò a due riprese, inutilmente, davanti alla casetta di Domitilla Rosa e, vedendo chiuse le finestre, chiuso l'usciolo in cima alla rampa esterna, sotto il breve portico, si domandava che cosa potesse mai fare monna Vanna, isolata per tante ore dentro quello stanzone, dove il letto di Domitilla Rosa pareva un trono, con la sua coperta di damasco, giallo e dove immagini innumerevoli di santi si allineavano intorno alle pareti. Pensò di picchiare all'usciolo e non ardì, poichè monna Vanna era squisitissima e dolce, ma niente affatto confidenziale. Si allontanò dunque, si spinse giù, verso la rocca, passeggiando senza scopo, impaziente, turbato, ossessionato dal pensiero di monna Vanna, ch'egli supponeva distratta e annoiata fra le sete e i ricami di Domitilla Rosa.
Forse ella, in quel momento, stava abbandonata sul letto di giallo damasco, col gomito appoggiato sopra i cuscini, la gota appoggiata sopra la palma, simile in atto a una patrizia romana, voluttuosa e ardente, nell'attesa di un console vincitore o di un poeta innamorato.
Un brivido lo percorse ed affrettò il passo, fermandosi poi all'improvviso, immoto per lo stupore. Egli si trovava nel centro della via, che si apre di faccia alla casetta secolare abitata da Domitilla Rosa, e uno spettacolo nuovo di vaghezza lo teneva affascinato. Dove, in quale miniatura di quale codice aveva egli già veduto qualche cosa di simile? Un piccolo portico a sottili colonne, di poco elevato dal suolo; nel fondo, verso il muro, una luce tenue, chiazzata appena di ombre quasi fuggevoli e in piedi, sul davanti, fra le colonne, una donna bella in veste color di viola, con le braccia prosciolte lungo i fianchi, il viso levato in alto, la bocca suggellata come per un mistero. In quale codice miniato aveva egli già veduto qualche cosa di simile?
Disse gioiosamente, agitando il cappello:
— Buona sera, monna Vanna.
Ella forse pensava in quel momento a Fritz Langen, perchè la voce di lui non la turbò nè la stupì.
— Buona sera, signor professore - e si affacciò al muricciuolo fra due vasi fioriti di geranio.
— Che cosa fa lì sola?
— Aspetto che Bindo Ranieri mi venga a prendere, quando sarà buio.
— Intanto io farò il cane fedele a guardia della sua porta. Vuole? - E, incrociate le braccia, si addossò all'angolo della viuzza di fronte.
Ella crollò il capo con una sfumatura d'imbarazzo e chiese:
— Sono accadute disgrazie gravi oggi?
— Sissignora, due casi terribili - egli rispose molto serio. - Un povero topolino è morto di paura dentro il palazzo del Cornelio ed i canarini della mia padrona sono rimasti senza miglio.
Vanna rise, tranquillizzata.
— Meglio così. Dal rumore mi pareva che dovesse essere accaduto il finimondo.
— Scenda - disse Fritz Langen - l'accompagnerò io a casa. Le mostrerò i luoghi dell'eccidio.
— Grazie, non ho fretta. Preferisco aspettare Bindo Ranieri.
— Mi butti allora una scala di seta.
Vanna non era spiritosa, nè pronta allo scherzo; le parole di lui la turbarono, e rispose con semplicità:
— Perchè la scala di seta? Non c'è la scala di pietra? - ma provò subito grave sgomento nel vedere Fritz Langen staccarsi rapido dall'angolo e girare intorno al muricciuolo. Smarrita ella corse a rifugiarsi dentro la stanza, dove Fritz Langen, superati di un salto i pochi gradini, la seguì, chiudendo la porta.
Vanna, tremante, faceva di tutto per apparire disinvolta. Prese un gomitolo di filo d'oro dal panierino di Domitilla Rosa, poi disse a testa china:
— Riapra, signor professore.
— Sicuro, sicuro, naturalmente - egli balbettò in fretta, inghiottendo la saliva, e non si moveva.
Allora Vanna si avviò verso l'uscio; ma Fritz Langen scomposto in viso per la commozione, le prese una mano, ch'ella ritrasse con gesto vivo, come dal fuoco, e, tornata al posto di prima, si dette a contemplare con fissità i ricami di Domitilla Rosa.
— Ermanno arriverà fra poco - balbettò ella.
— No, no, non dica bugie - egli supplicò. - Ermanno non deve arrivare questa sera - e buttò sul tavolo il cappello che, nella sua straordinaria agitazione, aveva tenuto in testa fino a quel punto.
Ella intrecciò le mani e disse con accento di preghiera:
— Vada via, vada via.
Fritz Langen intrecciò le mani anche lui e chiese anche lui pregando:
— Ma perchè, monna Vanna? Perchè?
Il gomitolo del filo d'oro scivolò in terra e una trama aurata li unì. Entrambi seguivano con occhi accesi quel filo rilucente e tremavano entrambi in modo tanto visibile che il tremito e lo sbigottimento dell'uno faceva aumentare lo sbigottimento e il tremito dell'altra.
— Gott! Gott! Dio! Dio! - Fritz Langen ripeteva, e non osava avanzare, perchè a ogni suo moto Vanna indietreggiava di un passo, protendendo le mani in atto di supplichevole difesa.
Era giunta così presso il letto coperto di damasco, e grosse lacrime, tonde come perle, cadevano dalle ciglie ricurve, grondavano sull'orlo della veste violacea.
— Süsses Dummerchen! Dolce sciocchina - egli mormorò in uno struggimento di tenerezza, incerto ancora fra la violenza del suo desiderio e l'abitudine del suo rispetto.
Ma Vanna, esausta, non si difendeva più.
Ella aspettava adesso, tutta bianca, fin sulle labbra, e umile; aspettava, e poichè egli, pallidissimo, la guardava con affanno, ella si curvò in avanti e la veste di seta ebbe un fruscìo.
Fritz Langen, col petto sollevato dall'ansito, ripetè smarritamente:
— Gott Gott, e un gemito fievole di colomba ghermita, si udì nella stanza già quasi buia.