Pagina:Tartufari - Il miracolo, Roma, Romagna, 1909.djvu/160

evidentemente, quella mattina egli voleva dirle qualche cosa e non osava, rimanendo immobile, con la persona curva e la faccia incartapecorita, resa viva in quel momento dall'agitarsi in lui di una forte passione.

Vanna, che sorseggiava il caffè, gli disse con molta dolcezza:

— Che cosa volete, buon Titta? Parlate, parlate pure.

Titta non poteva parlare, quantunque dalla sera innanzi tenesse pronte mille parole da rivolgerle in nome del nobile Gentile Monaldeschi, il padrone morto, che egli trentacinque anni prima aveva cullato; in nome del nobile Ermanno Monaldeschi, il padroncino, ch'egli si prendeva ancora nelle braccia e che spogliava, rivestiva con le sue vecchie mani amorose.

— Non abbiate soggezione, buon Titta - Vanna ripetè, deponendo nel vassoio la tazza. Voi sapete che farei di tutto per contentarvi. Foste un secondo padre per il mio povero Gentile e ne raccoglieste l'ultimo respiro. Dunque io vi considero persona di famiglia.

Nel sentirle pronunziare con tanta soavità il nome dello sposo morto, il buon Titta rimase annichilito. No, no, egli preferiva rinnegare la luce de' suoi propri occhi, la veridicità delle sue proprie orecchie, anzichè accusare di tradimento, contro lo splendore del nome Monaldeschi, la sua bella e nobile signora, ch'egli aveva veduto entrare in casa immacolata più di un giglio e