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nell'oblìo col proprio nome; i grossi anelli di ferro arrugginiti, infissi al muro, presso gli usci sgangherati, gli dicevano di uomini in armi, che arrivavano di galoppo, infilavano negli anelli le aste, vi annodavano dentro le briglie dei cavalli dal morso spumoso, portavano, ricevevano messaggi di guerre o di pace e ripartivano con sonoro scalpito. Troppo Fritz Langen amava quella città di sogno; di troppe memorie egli si era imbevuto entro le navate delle chiese e fra i documenti degli archivi, troppo la sua nordica anima sentimentale si era pasciuta di poesia nella cerchia verdeggiante dei colli umbri! Sì, monna Vanna aveva ragione, bisognava partire, tornare alla vita, ritemprarsi nella realtà. Anche il buon Maurizio, solerte in cima alla sua torre, glielo diceva ogni quarto, suonando l'ora:

Da te a me, campana, fuoro pati Tu per gridar ed io per far i fati.

Così portava scritto il buon Maurizio intorno alla sua cinta di bronzo, e l'ammonimento era savio; ognuno doveva far fatti, ed i fatti di Fritz Langen erano di tornarsene a Colonia, di conquistarsi una cattedra di storia all'Università di Bonn, di crearsi una posizione onorata e sposare la sua brava massaia bionda, che da anni lo aspettava in fedeltà tranquilla e che gli scriveva regolarmente, citandogli intere strofe del Trombettiere di Säckingen, delizia e orgoglio delle tedeschine innamorate. Questo Fritz Langen doveva