Atto III

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Atto II Nota storica

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ATTO TERZO.

SCENA PRIMA.

Florindo, poi Brighella.

Florindo. Oh cospetto, cospetto! Oh sorte indegna! Oh fortuna crudele! Oh diavolo, perchè non vieni a portarmi via? Li ho persi tutti, non ho più un soldo. Son disperato. Non so più come fare a giuocare; non so più come rifarmi. Dov’è un laccio, che m’appicchi? Dov’è un coltello, che mi passi il cuore? Che dirà la povera sventurata Rosaura?

Brighella. La diga, comandela che fazza vegnir la siora Rosaura?

Florindo. (Passeggia, e non risponde.)

Brighella. La diga, com’èla andada?

Florindo. Datemi un bicchier d’acqua, per carità.

Brighella. (Ho inteso, l’è sciutto affatto). (da sè) Volela che la vegna, o che la vaga? [p. 266 modifica]

Florindo. Non so...

Brighella. La senta sta gran cossa che la gh’ha da dir.

Florindo. Via, fatela venire. (sospirando)

Brighella. (Oh, gh’è del mal assae). (da sè, parte)

Florindo. Con che cuore ho da parlare a Rosaura? Ah, se mi potessi rifare! La notte è per me favorevole: se aspettavo a giuocar di notte, felice me! Ma li ho persi tutti di giorno. Se per questa sera sapessi dove ritrovar denari, spererei avanti domani ricuperare i perduti.

SCENA II.

Rosaura e detto, poi Lelio di dentro.

Rosaura. Caro Florindo, voi vi prendete spasso di vedermi penare.

Florindo. (Non so se Brighella le abbia detto che ho giuocato). (da sè) Compatitemi, dove credete voi che ora sia stato?

Rosaura. Mi ha detto Brighella, che eravate a pranzo con degli amici. Mi pare che si poteva, in grazia mia, terminare più presto.

Florindo. (Brighella è un uomo di garbo). (da sè) Compatitemi. Siamo andati a pranzo tardi; ho avuto degli affari di rimarco. Non crediate già ch’io abbia giuocato.

Rosaura. Non mi cade nemmen in pensiere, che dopo le proteste di questa mattina abbiate giuocato più.

Florindo. (Così non lo avessi fatto!) (da sè) Ma, cara signora Rosaura, qual è il motivo che vi conduce nuovamente a favorirmi?

Rosaura. Un eccesso d’amore che ho per voi. Mio padre è venuto, dopo che siete partito voi, a ritrovarmi, mi ha parlato di voi, e mi ha detto assolutamente che non vuole che io pensi alle vostre nozze.

Florindo. Per qual ragione?

Rosaura. Perchè essendo voi giuocatore, teme precipitarmi.

Florindo. Ma come può esser questo? Se egli sa ch’io non giuoco più, e siamo già fra di noi convenuti? [p. 267 modifica]

Rosaura. Dice che è stato ingannato, che sperava che aveste lasciato il giuoco, ma sa che poco dopo avete nuovamente giuocato. Onde, caro Florindo, vengo a dirvi che io son disperata, che il mio alimento sono le lagrime, e che morirò quanto prima, se non ci trovate rimedio.

Florindo. (Gente infame! Si sa tutto quello ch’io faccio; sarà stato quel briccone di Brighella). (da sè)

Rosaura. Oh cielo! Non mi rispondete?

Florindo. Rimango attonito, sentendo un discorso simile. Come il signor Pantalone si cambia da un momento all’altro? Abbiamo fra di noi stabilito, che nella settimana ventura seguiranno i nostri sponsali. Qualche mala lingua mi avrà rovinato.

Rosaura. Bisogna trovar rimedio.

Florindo. Sì, assolutamente, cercherò di veder il signor Pantalone, mi giustificherò, lo placherò, gli farò toccare con mano che non è vero ch’io giuochi, e tutto sarà accomodato.

Rosaura. Oh cielo! Voi mi consolate. Speriamo che mio padre si placherà?

Florindo. Certamente, e poi pregatelo ancor voi, fatelo pregare dalla vostra signora zia.

Rosaura. Appunto quella cara signora zia ha delle pretensioni sopra dî voi.

Florindo. È ridicola la poverina. Io mi prendo qualche poco di spasso.

Rosaura. Ha confidato a Colombina, che vi ha imprestati cinquanta zecchini.

Florindo. (Oh vecchia balorda!) (da sè) Sì, le ho fatta una burla.

Rosaura. In che consiste questa burla?

Florindo. Voglio che ella vi paghi un giojello al suo marcio dispetto.

Rosaura. Ma come?

Florindo. Ne ho ordinato uno assai più bello di quello che avete al collo, e a poco per volta la signora Gandolfa lo deve pagare.

Rosaura. Se se ne accorge, povera me! [p. 268 modifica]

Florindo. Fatemi un piacere, lasciatemi vedere quel gioiello, che in questo punto lo voglio confrontare.

Rosaura. Ma dove?

Florindo. Presto, presto, prima che il gioielliere vada via.

Rosaura. Dov’è il gioielliere?

Florindo. Qui, in un’altra camera.

Lelio. Signor Florindo, venite o non venite? (di dentro)

Florindo. Vengo, vengo; sentite? Il gioielliere mi chiama.

Rosaura. Tenete, ma fate presto.

Florindo. Vengo subito.

Rosaura. Non mi lasciate qui lungamente.

Florindo. Vengo subito. (Se vinco trenta zecchini, le porto subito il suo gioiello). (da sè, parte)

SCENA III.

Rosaura, poi Brighella.

Rosaura. Non vedo l’ora che si concludano queste nozze. Finito avrò allora di penare.

Brighella. Signora.

Rosaura. Che cosa c’è?

Brighella. Dov’è il signor Florindo?

Rosaura. Or ora viene.

Brighella. Presto, l’è qua el sior Pantalon.

Rosaura. Oh me infelice! Mio padre oggi mi perseguita.

Brighella. Che la se sconda, per amor del cielo.

Rosaura. Dove?

Brighella. Andemo in sta camera, e la serrerò drento.

Rosaura. Oh me sventurata! Che ho fatto? Mai più mi pongo ad un simile rischio. (entra, e Brighella chiude)

Brighella. Gran frasconazze che son ste putte. Per amor no le guarda a precipitarse. [p. 269 modifica]

SCENA IV.

Pantalone e detto, poi Lelio e Tiburzio.

Pantalone. Missier Brighella, dove xe sior Florindo?

Brighella. Mi non lo so in verità.

Pantalone. Saralo forse a zogar?

Brighella. No ghe so dir: in casin no credo che el ghe sia.

Pantalone. Vardè se lo trovè, diseghe che ghe vôi parlar.

Brighella. La servo subito. (E intanto siora Rosaura sta in preson). (da sè, parte)

Pantalone. Poco de bon! Tocco de desgrazià! El me promette de no zogar, e po el zoga a rotta de collo? Zogo e donne! Donne e zogo? Ghe darò quindese mille ducati, acciò che el li zoga in t’una notte? No, no, voggio licenziarlo de fatto, e mia fia nol la gh’averà più.

Tiburzio. (Dove diavolo il signor Florindo ha ritrovata questa gioja?) (piano a Lelio)

Lelio. (Chi sa! L’avrà avuta da qualche innamorata), (a Tiburzio)

Tiburzio. (Ma chi sa se varrà cento zecchini?)

Lelio. (Per quello che ci costa, la possiamo prendere).

Tiburzio. (La farei veder volentieri).

Lelio. Aspettate; la sorte ci favorisce. Quello è un mercante che negozia di gioje; facciamola vedere a lui.

Tiburzio. È galantuomo?

Lelio. Sì, è onorato. Signor Pantalone.

Pantalone. Patron mio reverito.

Lelio. Vorrei supplicarla d’una grazia.

Pantalone. La comandi. Mi non ho l’onor de cognosserla.

Lelio. Conosco io vossignoria, e so essere un mercante onorato e di credito.

Pantalone. Tutta so bontà.

Lelio. Ella s’intende perfettamente di gioje.

Pantalone. Le zoggie xe uno dei mi mazori capitali.

Lelio. Questo cavaliere ha una pioggia da vendere, e vorrebbe che vossignoria facesse grazia di stimarla. [p. 270 modifica]

Pantalone. Lo servirò volentiera, e ghe dirò sinceramente la mia opinion. (da sè)

Tiburzio. Eccola, signore, favorisca dirmi la sua opinione.

Pantalone. (Oimè, cossa vedo! La pioggia de mia fia? Oh poveretto mi! Coss’è sta cossa?) (da sè)

Lelio. Signore, perchè fa tante ammirazioni?

Pantalone. La diga, sior conte, da chi hala abuo sta pioggia?

Tiburzio. Ciò a voi non deve premere; stimatela, e non cercate di più.

Pantalone. Anzi voggio saver da chi la l’ha avuda.

Lelio. (Sta a vedere che la pioggia è rubata). (da sè)

Tiburzio. Io l’ho comprata per cento zecchini.

Pantalone. Da chi l’hala comprada?

Tiburzio. Da uno che non conosco.

Pantalone. La sappia, patron reverito, che sta pioggia la xe roba mia.

Tiburzio. Come roba vostra?

Pantalone. Sior sì, roba mia. La giera della felice memoria de mia muggier, e adesso la portava mia fia. La cognosso, perchè sarà cinquant’anni che la gh’ho in casa; la sarà stada robada. O la diga chi è sta che ghe l’ha vendua, o farò i mi passi, e la sarà obbliga a render conto de sto latrocinio.

Lelio. (Amico, la cosa va male; non entriamo in impegni). (piano a Tiburzio)

Tiburzio. (Ma ho da perder la pioggia?) (piano a Lelio)

Lelio. (Piuttosto perder la pioggia, che perder la libertà).

Tiburzio. (Non dite male).

Pantalone. Voggio saver da chi l’ha avudo sta zoggia, o se no... Basta, la vederà cossa ghe succederà.

Tiburzio. Signor Pantalone, per dirvi il vero, non l’ho comprata, ma l’ho vinta al giuoco.

Pantalone. E a chi l’hala venza?

Tiburzio. Al signor Florindo Aretusi.

Pantalone. Come! A sior Florindo? Oh poveretto mi! Che el sia sta a casa de mia fìa? Che el gh’abbia tolto le zoggie? [p. 271 modifica] Che quella desgraziada lo abbia recevesto? Che mia sorella gh’abbia dà libertà? Son in t’un mar de confusion; no so in che mondo che sia.

Tiburzio. Io sono un uomo onorato, signor Pantalone; ho arrischiato il mio denaro, e ho vinto. Non voglio perder cento zecchini; se la pioggia è vostra, datemi li cento zecchini, e ve la lascio.

Pantalone. No ve daria gnanca un bezzo, e non so chi me tegna che no vaga a denunziarve, e no ve fazza cazzar in t’una preson.

Lelio. (Andiamo via). (piano a Tiburzio)

Tiburzio. Questa è una prepotenza.

Lelio. (Andiamo via). (come sopra, a Tiburzio)

Pantalone. E la vostra la xe una baronada. Sè ladri, sè furbazzi.

Lelio. (Ma andiamo via, mi sento i birri alle spalle), (a Tiburzio)

Tiburzio. (Maledetto Florindo! Egli me la pagherà). (parte)

Lelio. Signor Pantalone, voi siete un galantuomo, siete un uomo onesto. Tenete la vostra pioggia, e vi prego di non parlare di noi, e di me specialmente, che vedete non c’entro per nulla. (Ho una paura d’andar prigione, che tremo. Ecco il bel frutto delle vincite che si fanno malamente al giuoco. Si trema sempre, si ha timore di tutti, non si ha coraggio di dire la sua ragione, si vive una vita infame, e si fa spesse volte una morte ignominiosa). (da sè, parte)

Pantalone. Son fora de mi. Fazzo cento pensieri, uno pezzo dell’altro. Che el sia sta da mia fìa? Ma quando? Che el gh’abbia tolte le zoggie? Ma come? Che ela ghe le abbia dae? Ma per cossa? El vegnirà sto desgrazià; saverò da elo... Ma da Florindo cerco la verità de sto fatto, e no da mia fia? Xe più facile saverlo da ela, che da lu. Subito voi andar da Rosaura, e prima colle bone, e po colle cattive, voggio che la me diga la verità. (parte) [p. 272 modifica]

SCENA V.

Florindo e Brighella.

Florindo. Ma dov’è il signor Pantalone?

Brighella. Sior Pantalon no gh’è più, l’è andà via.

Florindo. E la signora Rosaura?

Brighella. L’è ancora serrada in quella camera.

Florindo. Vado via, non ho cuor di vederla.

Brighella. Ma perchè ghe volala usar sto atto de crudeltà?

Florindo. Senza la pioggia di diamanti non so come a lei presentarmi.

Brighella. No diselo che la ghe l’ha dada co le so man?

Florindo. Sì, è vero, ma sono in impegno di restituirla.

Brighella. Cossa volela far? Qua no gh’è remedio. Bisogna dirghe la verità e domandarghe scusa.

Florindo. Ah, non vorrei che ella sapesse la cosa com’è.

Brighella. A st’ora za la sa tutto: da quella camera l’ha sentido tutto, e sa il cielo cossa averà fatto el dolor in quella povera innamorada.

Florindo. Oh cielo! Presto, aprite quella camera. Voglio gettarmi a’ suoi piedi, le voglio chieder perdono.

Brighella. La diga, hala perso tutti i zecchini?

Florindo. Sì, tutti; non me ne restano che otto soli.

Brighella. E i me diese che ho speso in tel disnar?

Florindo. Non mi tormentate.

Brighella. Me par che il tormento sia mio, se li ho da perder cussì miseramente.

Florindo. Ah maledetto giuoco!

Brighella. (Lu l’è desperà, e mi ho da perder diese zecchini). (da sè)

Florindo. Via, aprite quella stanza, non tormentate più quella povera ragazza.

Brighella. La se ferma qua. La farò vegnir fora; là drento no voggio che se ghe vada.

Florindo. Farò come volete. [p. 273 modifica]

Brighella. (No vorria che la desperazion ghe fasse far qualche sproposito colla morosa). (da sè, va ad aprire la camera)

Florindo. Come sosterrò io la presenza di una donzella giustamente irritata? Quali addurrò discolpe delle mie menzogne, delle mie infedeltà?

Brighella. Siora Rosaura, la favorissa, la vegna fora.

SCENA VI.

Rosaura e detti, poi Beatrice.

Rosaura. Oimè! Soccorretemi, ch’io mi sento morire.

Florindo. Non ho coraggio di mirarla in viso.

Brighella. La se fazza animo; a tutto gh’è rimedio.

Rosaura. Florindo traditore! Dov’è la mia pioggia?

Beatrice. Si può entrare? (di dentro)

Florindo. (Oh diavolo! Ecco Beatrice). (da sè)

Brighella. Vien zente; la torna in camera. (a Rosaura)

Rosaura. Una donna?

Brighella. Presto, la no se lassa veder.

Rosaura. Andiamo, andiamo a morire. (entra in camera)

Brighella. (Ste donne le mor e le ressuscita presto; per mi me la batto). (da sè)

SCENA VII.

Florindo, poi Beatrice.

Florindo. Ora mi converrà soffrire quest’altro tormento. Ma non voglio che Rosaura senta. Fermerò Beatrice in quest’altra camera, (va per partire, e Beatrice lo ferma)

Beatrice. Dove, signor Florindo?

Florindo. Veniva ad incontrarvi.

Beatrice. Obbligarissima; dopo d’avermi fatto fare un’ora d’anticamera?

Florindo. Andiamo in quest’altra stanza. [p. 274 modifica]

Beatrice. Vi sono delle persone che giuocano. Voglio parlarvi che nessuno mi senta.

Florindo. Giuocano?

Beatrice. Sì, giuocano, traditore! Così m’ingannate?

Florindo. Io non v’inganno. Vi dirò tutto. Zitta per amor del cielo, non mi fate svergognare al casino. Ditemi, vi è un bel banco?

Beatrice. Ho veduto dell’oro assai.

Florindo. Il banco vince, o perde?

Beatrice. I puntatori vincono.

Florindo. E io, quando metto, perdo sempre. Vi sono de’ bravi puntatori?

Beatrice. Non ci perdiamo in simili bagattelle. Giustificatevi, se potete. Provatemi non esser vero che abbiate ad altra donna promesso.

Florindo. (Ora se giuocassi, sarebbe la mia fortuna! Se vincessi cento zecchini, potrei ricuperare la pioggia). (da sè)

Beatrice. Voi non mi rispondete?

Florindo. (L’onor mio vuole ch’io arrischi tutto, per comparir galantuomo). (da sè)

Beatrice. La vostra confusione m’assicura della vostra reità.

Florindo. Trattenetevi per brev’ora, e vi farò vedere che la mia confusione non procede per avervi mancato di fede. (parte)

SCENA VIII.

Beatrice, poi Rosaura.

Beatrice. Chi sa dirmi qual senso abbiano le parole di questo perfido?

Rosaura. (Non posso più trattenermi; la gelosia mi trasporta. Finalmente è una donna, posso arrischiarmi di parlar seco). (esce mascherata dalla camera, dove erasi ritirala)

Beatrice. Chi è mai questa maschera?

Rosaura. Signora, perdonate l’ardire: sapete voi dirmi dove sia andato il signor Florindo? [p. 275 modifica]

Beatrice. Or ora deve qui ritornare. Ma ditemi, il signor Florindo è qualche cosa di vostro?

Rosaura. Acciò non facciate sinistro concetto di me, sappiate che egli deve essere mio sposo.

Beatrice. Vostro sposo?

Rosaura. Sì, signora: perchè di ciò vi maravigliate?

Beatrice. A ragione mi maraviglio, poichè Florindo ha impegnata a me la sua fede.

Rosaura. Possibile che ciò sia vero?

Beatrice. Eccovi la sicurezza di quanto vi dico. Conoscete il carattere di Florindo?

Rosaura. Ah perfido! Lo conosco pur troppo.

Beatrice. Osservate, questa è la scrittura di sua mano formata.

Rosaura. Ah indegno! Permettetemi ch’io me ne assicuri, e la legga.

Beatrice. Leggetela pure quanto v’aggrada.

Rosaura. Prometto con mio giuramento di sposare la signora Beatrice Anselmi... Oh menzognero! Così mi tradisci? Così inganni una povera sventurata? Anima perfida! Anima scellerata! Potessi lacerare quel cuore infame... (straccia la scrittura)

Beatrice. Ehi, che cosa fate?

Rosaura. Sono accesa di collera; se mi venisse colui davanti, lo vorrei sbranare colle mie mani. (straccia il resto della scrittura)

Beatrice. Voi avete lacerata la mia scrittura.

Rosaura. Compatitemi, la collera mi ha trasportata.

Beatrice. Se credessi, che potesse esser malizioso il vostro trasporto; se immaginar mi potessi, che aveste voluto levarmi di mano la ragione di pretendere sopra il cuor di Florindo, vi farei pentire di un sì temerario attentato.

Rosaura. No, v’ingannate. Amai Florindo quanto me stessa, l’amai col più tenero amore che amar si possa, ma poichè lo conosco bugiardo, infedele, l’amor mio si è convertito in fìerissimo sdegno, e per darvi una riprova della verità, ecco la scrittura di quel perfido mentitore, ridotta in pezzi come la vostra. (straccia la sua scrittura) [p. 276 modifica]

Beatrice. Vendichiamoci dunque della sua infedeltà coll’abbandonarlo.

Rosaura. Per me non lo amerò più certamente.

Beatrice. Nè io sarò più sì debole per credere ad un mendace.

Rosaura. Eccolo ch’ei ritorna.

Beatrice. Batte i piedi e si morde le dita.

Rosaura. Il perfido avrà giuocato.

Beatrice. Se ha perduto i denari, ha perduto quanto aveva di buono.

Rosaura. Ritiriamoci, ed osserviamo che cosa sa fare. (si ritirano)

SCENA IX.

Florindo e le suddette, ritirate.

Florindo. Perchè non viene un fulmine a incenerirmi? Perchè non viene il carnefice a strozzarmi? Anche gli otto zecchini sono andati, e quel ch’è peggio, venti ne ho persi sulla parola: e questi come li pagherò?

Beatrice. Signor Florindo...

Florindo. Maledetta voi, per causa vostra ho giuocato, per causa vostra ho perduto.

Beatrice. Per causa mia?

Florindo. Sì, voi mi avete detto che giuocavano...

Rosaura. Povero signor Florindo, lo fanno giuocare per forza.

Florindo. (Oh diavolo!) Signora Rosaura, la vostra pioggia... Il gioielliere... oggi la porterà.

Rosaura. Non v’è bisogno che il gioielliere s’incomodi, poichè l’ha ricuperata mio padre. Ecco, signor Florindo, svelate tutte le vostre belle virtù. Mi avete promesso di non giuocare, e mi avete mantenuta esattamente la vostra parola; mi avete data la fede di sposo, senza ricordarvi dell’impegno che avete colla signora Beatrice. Mi avete carpita dalle mani una gioja, e l’avete sagrificata al vostro dilettissimo giuoco: siete un indegno, siete un perfido, un mancatore. Confesso avervi amato, e l’amor mio pur troppo mi ha fatto far dei passi falsi, sino a [p. 277 modifica] venire due volte in un giorno a ritrovarvi al casino. Ci venni, sperando in voi un uomo onorato, uno sposo fedele, ma poichè siete un’anima scellerata, vi abbandono, v’odio; e assicuratevi che a voi più non penso. Mi avete stamane regalata una tabacchiera, tenetela, ch’io non voglio di voi memoria. (la getta in terra) Vergognatevi dei vostri inganni, arrossite delle vostre infedeltà, e imparate ad essere più onorato, se non volete terminare i giorni vostri con una sì grande infamia. Perfido, scellerato, impostore, vi odio quanto v’amai, e vi abborrirò fin che io viva. (parte)

Beatrice. (Ora che si è sfogata Rosaura, tocca a me a dirgli l’animo mio). (da sè)

Florindo. (Prende da terra la scatola.)

Beatrice. Dopo aver formata scrittura meco, avete ardire di promettere fede ad un’altra? Rispondetemi. Con qual faccia avete potuto farlo?

Florindo. (Questa scatola potrebbe essere la mia fortuna). (da sè, parte)

Beatrice. Indegno! Così mi lascia? Ma il rossor lo ha fatto partire. Non ha coraggio di sostenere i miei giusti rimproveri. Poco però m’importa. Già di lui io era oramai nauseata. L’amavo perchè era ricco, amavo l’onore di divenire sposa d’un uomo di conto, ma poichè il giuoco l’ha rovinato, poichè divenuto è miserabile, di lui non mi curo, ed incomincio da questo momento a figurarmi di non averlo mai conosciuto. (parte)

SCENA X.

Florindo, inseguito da Agapito.

Agapito. Voglio i miei denari.

Florindo. Son galantuomo, vi pagherò.

Agapito. Io non voglio aspettare. Quando perdo, pago; e quando vinco, voglio esser pagato.

Florindo. Datemi tempo sino a domani. Dentro le ventiquattro ore pagherò. [p. 278 modifica]

Agapito. Signor no, prima di giuocare avete detto di pagar subito, e io ho giuocato con questo patto.

Florindo. Venite qui, facciamo altri due tagli. Guadagnatemi sino a cinquanta zecchini, e vi pagherò.

Agapito. Datemi prima li venti, e poi taglierò.

Florindo. Mantenetemi giuoco.

Agapito. Fuori denari, e ve lo manterrò.

Florindo. Denari ora non ne ho.

Agapito. Se non avete denari, assicurate il mio credito con della roba.

Florindo. Che roba volete che io vi dia? Ho perso anche la tabacchiera.

Agapito. Quella non l’avete persa con me. Al mio banco non si giuoca che coi denari.

Florindo. Domani vi pagherò.

Agapito. Siete un uomo senza fede e senza parola.

Florindo. Mi maraviglio, son un uomo d’onore.

Agapito. Siete un uomo indegno. Avete giuocato per vincere, senza poter pagare perdendo. Chi giuoca in questa maniera, può dirsi un ladro. Meritereste ch’io vi facessi spogliare; ma sono un galantuomo, e non lo voglio fare. Vi do tempo sino a domani, e se domani non mi pagate, vi fo romper l’ossa con un bastone. (parte)

SCENA XI.

Florindo solo.

Questo ci mancherebbe per coronare la mia buona fortuna. Ma che diavolo ho io in queste mani? Sempre perdere, sempre perdere? Che fogli son questi? Paiono di mio carattere. (trova le scritture stracciate) Questa è la scrittura ch’io ho fatto a Beatrice: stracciata? Questa è quella ch’io ho fatto a Rosaura: anche questa in pezzi? Rosaura mi piacerebbe, le volevo bene; ma ora che ha scoperte le mie debolezze, è meglio che mi abbia fatto il regalo della scrittura stracciata. Qualche [p. 279 modifica] cosa bisognerà pensare, per rimediare alle mie piaghe. Ricorrerò a quella buona vecchia di Gandolfa. Mi preme pagar il debito de’ venti zecchini. Procurerò di andar in casa, senza che la signora Rosaura lo sappia.

SCENA XII.

Tiburzio e detto.

Tiburzio. Una parola, signor Florindo.

Florindo. Che cosa comandate?

Tiburzio. Favorite di pagarmi cento zecchini.

Florindo. A che motivo vi ho da dare cento zecchini?

Tiburzio. Io ho arrischiato il mio denaro. La pioggia non era vostra, si è trovato il padrone, ho dovuto restituirla, e voi mi siete debitore di cento zecchini.

Florindo. Chi v’ha detto, che deste via la pioggia che mi avete vinto? Ella era roba mia, e non si doveva dare senza di me.

Tiburzio. Orsù, meno ciarle, voi sapete la cosa com’è; ed io voglio i miei cento zecchini. O roba, o denaro.

Florindo. Come? Siamo noi alla strada?

Tiburzio. Che strada? Sono un galantuomo, ho vinto, e voglio esser pagato.

Florindo. Contentatevi di quello che avete portato via.

Tiburzio. Ho arrischiato il mio sangue. Se perdevo, pagavo. Ho vinto, mi avete dato una gioja che non è vostra; o pagatemi, o mi pagherò colle mie mani.

Florindo. Che prepotenza è questa? Così si tratta con gli uomini onorati?

Tiburzio. Siete un truffatore.

Florindo. Voi siete un ladro.

Tiburzio. A me ladro! Ah giuro al cielo, ti caverò il cuore. (mette mano alla spada)

Florindo. Ah traditore! coll’armi alla mano? (si difende colla spada)

Tiburzio. O pagami coi denari, o mi pagherai col tuo sangue. (battendosi partono) [p. 280 modifica]

SCENA XIII.

Strada.

Pantalone e Brighella.

Pantalone. Brighella, son desperà. Brighella, son morto. Brighella, no posso più.

Brighella. Cos’è sta, sior Pantalon?

Pantalone. Non trovo in nessun luogo mia fia. Da mia sorella no la xe più tornada; a casa mia no la xe vegnua; da so zermana no la xe mai stada; xe do ore che la manca co quella desgraziada de Colombina; no se sa dove che le sia andae; no se pol saver dove che le sia. Poveretto mi! Rosaura, fia mia, dove xestu, anema mia? Ah, che daria per recuperarla el mio sangue, el mio scrigno, el mio cuor.

Brighella. Sior Pantalon, me meraveio che la daga in tutte ste smanie. Adesso in sto ponto vegno mi da casa de siora Gandolfa, e la siora Rosaura l’è in casa, e l’ho vista mi coi mi occhi.

Pantalone. Diseu dasseno? Oh cielo, te rengrazio! Ma la sarà vegnua a casa, dopo che mi son andà via.

Brighella. Oh giusto! l’è stada sempre in casa.

Pantalone. Ma dove gierela, che non l’ho trovada in nissun logo?

Brighella. L’era in soffitta.

Pantalone. Cossa favela?

Brighella. Mi no so gnente. Le donne gh’ha delle ore, che no le vol che se sappia cossa che le fazza.

Pantalone. E Colombina?

Brighella. L’era in compagnia della so patrona.

Pantalone. Ho chiamà, e no le m’ha sentìo?

Brighella. Le ha sentido.

Pantalone. Mo perchè non hale resposo.

Brighella. Perchè le non doveva poder responder.

Pantalone. Vu me mette in qualche sospetto.

Brighella. Volela so fia?

Pantalone. La voggio certo. [p. 281 modifica]

Brighella. La vada a casa, che la la troverà.

Pantalone. Ma disè...

Brighella. Servitor umilissimo.

Pantalone. Vegnì qua, respondème.

Brighella. La reverisso devotamente. (parte)

Pantalone. Vardè che sesti! Cussì el me impianta? Basta, se mia fia xe a casa, son contento. Poi esser che la se sia sconta1 per paura della pioggia; non ho gnancora podesto saver come che la sia. Quella alocca de mia sorella no xe bona da gnente. Mia fia no ghe la vôi più lassar. Vago subito a veder se posso rilevar...

SCENA XIV.

Lelio e detto.

Lelio. Di lei appunto, signor Pantalone, andavo in traccia.

Pantalone. Coss’è, patron? Gh’ala qualch’altro zogiello da far stimar?

Lelio. Voi avete fatto metter prigione il signor Tiburzio.

Pantalone. Sior sì; gh’èlo in cottego? Gh’ho piaser.

Lelio. Vi è pur troppo; i birri lo hanno preso in questo momento, e senz altro anderà in galera. Io per mia disgrazia sono stato in sua compagnia. Sono un uomo d’onore, e per sua cagione ho fatta una trista figura. Abbiamo giuocato a metà; abbiamo vinto al signor Florindo trecento cinquanta zecchini per uno. Tiburzio l’ha ingannato, ed io ora solamente ho saputo esser egli un giuocator di vantaggio, ed arrossisco per essermi accompagnato con lui. Egli proverà la pena, ed io provo il pentimento. In questa borsa vi sono li trecento cinquanta zecchini; a voi li ritorno, che siete per essere il suocero del signor Florindo, come poc’anzi solamente ho saputo. Spero che gradirete quest’atto di mia onestà, che contro di me non farete passo nessuno, e mi permetterete ch’io parta da questa città, dove non avrò coraggio di presentarmi mai più. [p. 282 modifica]

Pantalone. Sior Lelio, sto atto de giustizia che ela fa, prova che ela non ha operà2 mal per costume, ma per accidente. Le male pratiche le conduse al precipizio, e l’esempio cattivo fa cattivi anca i boni. Accetto i tresento cinquanta zecchini. La ringrazio ancora in nome del sior Florindo, al quale darò sti bezzi, anca sibben che no l’è mio zenero. La vaga senza paura, che el cielo la benediga. Ma la diga, cara ela, la pioggia l’ha veramente persa el sior Florindo?

Lelio. Sì, ve lo giuro sull’onor mio.

Pantalone. Furbazzo! e el sostegniva de no.

Lelio. Niuno confessa volentieri aver commesso un delitto; anzi non vi è reo, per isfacciato ch’egli sia, il quale non procurasse, potendo, di celar la sua colpa. Per questa parte dovete compatirlo, e stabilire la massima, che il giuocatore vizioso impara facilmente ad essere mancatore e bugiardo. (parie)

Pantalone. Ah, pur troppo el dise la verità; e sto desgrazià de Florindo per el zogo el s’ha precipità. Sti tresento cinquanta zecchini ghe li darò, perchè mi no i posso tegnir, ma ghe li darò malvolentiera, perchè za el li tornerà a zogar. Chi gh’ha sto vizio in ti ossi, difficilmente lo pol lassar. (parte)

SCENA XV.

Camera.

Gandolfa e Pancrazio.

Gandolfa. Venite qua, signor Pancrazio, so che mi volete bene; venite qua, che voglio confidarvi una cosa in segreto.

Pancrazio. Sì, signora Gandolfa, son qui ad ascoltarvi. Confidatevi in me; sapete che vi voglio bene.

Gandolfa. State bene? Avete prese le pillole?

Pancrazio. Sì, le ho prese questa mattina, e mi pare di star meglio. [p. 283 modifica]

Gandolfa. Ancor io da questa mattina in qua sto meglio assai.

Pancrazio. Voi le avete prese?

Gandolfa. Non le ho prese, ma le prenderò.

Pancrazio. Prendete le pillole, che vi sentirete ringiovinire.

Gandolfa. Oh signor Pancrazio, ho una pillola nel cuore, che mi fa diventar giovane di vent’anni.

Pancrazio. Una pilloletta3? Chi l’ha fatta?

Gandolfa. Un bravo speziale.

Pancrazio. Come si chiama?

Gandolfa. Si chiama il signor Cupido.

Pancrazio. Il signor Cupido?

Gandolfa. Sì, il signor Cupido, che vuol dire quel furbettetto d’Amore, mi ha data una pillola da inghiottire, che m’ha riempita di fuoco, e mi ha messa in brio, e bisogna ch’io mi mariti.

Pancrazio. Oh caro speziale! Onorato signor Cupido! Le sue pillole non mi dispiacciono, e anch’io sono in grado di ricorrere alla sua spezieria per una di queste pillole prodigiose.

Gandolfa. Anche voi volete che vi venga voglia di maritarvi?

Pancrazio. Per volontà non ho bisogno di pillole, ma bensì per l’effetto che dite voi di provare.

Gandolfa. Ditemi, per qual cagione?

Pancrazio. Per mettermi in brio.

Gandolfa. Oh che caro vecchietto!

Pancrazio. Oh che graziosa4 sposina!

Gandolfa. Vi dirò, ho pensato che non ho veruno amico di cuore, e che quando sarò vecchia, non avrò alcuno che mi governi, e per questo ho risoluto di maritarmi.

Pancrazio. Sì, fate benissimo.

Gandolfa. Io ho della dote; sapete che avrò quasi tremila ducati d’entrata. Quando morirò, non so a chi lasciare la mia roba; se potessi aver un figlio, avrei la maggior consolazione del mondo.

Pancrazio. Chi sa? Lo potete sperare. [p. 284 modifica]

Gandolfa. Non sono poi in età tanto avanzata, che non lo possa avere.

Pancrazio. E poi, se volete prole, vi è il suo rimedio.

Gandolfa. Come?

Pancrazio. Prendete le pillole.

Gandolfa. Sì, non dite male, le prenderò.

Pancrazio. E le prenderò ancor io, e le cose anderanno bene.

Gandolfa. Eh, per voi dubito che le pillole non gioveranno più.

Pancrazio. Perchè?

Gandolfa. Perchè la lucerna è vicina a spegnersi.

Pancrazio. Sentite, se è vicina a spegnersi la mia, è vicina a spegnersi anco la vostra.

Gandolfa. Che cosa dite? Da voi a me c’è una bella differenza.

Pancrazio. Che differenza c’è? Siamo nati quasi insieme, e siamo sempre stati insieme, e tanti sono i miei, quanti i vostri.

Gandolfa. Eh via, che siete pazzo. Io era fanciulla, e voi eravate un asino grande e grosso.

Pancrazio. Io son nato dell’anno mille seicento ottanta, e voi di che hanno siete nata?

Gandolfa. Oh, vedete quanto son più giovine di voi. lo son nata del mille seicento settantaquattro.

Pancrazio. Buono! Avete sei anni più di me.

Gandolfa. Come sei anni più di voi? Non è vero.

Pancrazio. Settantaquattro e sei ottanta, il conto non falla.

Gandolfa. Voi non sapete niente.

Pancrazio. Orsù, lasciamo andare questo discorso. Voi per maritarvi siete al caso, ed io son qui, forte e lesto come un paladino.

Gandolfa. Oh, voi per maritarvi non siete più in tempo.

Pancrazio. No? Perchè?

Gandolfa. Perchè siete vecchio e pieno di malanni.

Pancrazio. E voi?

Gandolfa. Eh io5 mi mariterò.

Pancrazio. Voi sì, ed io no? [p. 285 modifica]

Gandolfa. Certo, guardate che maraviglie!

Pancrazio. E chi avete intenzion di volere?

Gandolfa. Un giovinotto di primo pelo.

Pancrazio. Un giovinotto?

Gandolfa. Signor sì, e per confidarvi tutto, sappiate che questi è il signor Florindo.

Pancrazio. Eh via, che burlate!

Gandolfa. Dico davvero.

Pancrazio. E non vi vergognate? Una vecchia di settantasei anni prendere un giovinotto?

Gandolfa. Settantasei diavoli che vi portino; signor sì, voglio un giovinotto.

Pancrazio. Vi prenderà per la dote.

Gandolfa. Certo! Per la dote?

Pancrazio. Dunque perchè?

Gandolfa. Per le mie bellezze.

Pancrazio. Oh bellina!

Gandolfa. Avete invidia? Crepate.

Pancrazio. Vi mangerà tutto, e poi vi pianterà.

Gandolfa. Ho io delle maniere, che quando un uomo le conosce, non mi lascia più.

Pancrazio. Voi mi fate ridere.

Gandolfa. Vi fo ridere? Guardate se voi in tanti anni mi avete mai potuto lasciare?

Pancrazio. Vi ho sofferta.

Gandolfa. Sofferta? Bene, bene, parlate per gelosia.

Pancrazio. Vi ho sempre creduta una donna savia.

Gandolfa. E adesso, che cosa sono?

Pancrazio. Siete... quasi, quasi ve lo direi.

Gandolfa. Andate a prendere le pillole.

Pancrazio. Maritarsi di quell’età?

Gandolfa. Signor sì.

Pancrazio. Prender un giovinotto?

Gandolfa. Signor sì.

Pancrazio. Un giuocatore che manderà in rovina la casa? [p. 286 modifica]

Gandolfa. Giuocatore? Florindo è giuocatore?

Pancrazio. E come! Si è precipitato a causa del giuoco.

Gandolfa. Non è vero, la gelosia vi fa parlar così.

Pancrazio. Certo che io vi volevo bene.

Gandolfa. Via, caro signor Pancrazio, contuttociò potrete venir da me.

Pancrazio. Sì, ma il signor Florindo...

Gandolfa. Temete ch’ei sia geloso, è vero? Basta, mi regolerò con prudenza.

Pancrazio. Più tosto, se volevate maritarvi... mi sarei offerto io.

Gandolfa. Per me siete troppo vecchio.

SCENA XVI.

Colombina e detti.

Colombina. Signora Gandolfa.

Gandolfa. Che cosa volete?

Colombina. Vi è il signor Florindo...

Gandolfa. Florindo! Oh caro, oh vita mia!

Colombina. È venuto in casa di nascosto a tutti, e mi ha pregata ch’io l’introduca da voi: volete che lo faccia venire?

Gandolfa. Sì, subito, fatelo venire. Presto, presto, che venga.

Colombina. (Vorrà mangiar qualche cosa a questa vecchia; mi ha promesso un filippo, se lo fo passare). (da sè, parte)

Gandolfa. Se avete da fare qualche cosa, potete andare.

Pancrazio. Mi cacciate via, eh?

Gandolfa. Ma, caro voi, che cosa volete far qui?

Pancrazio. Pazienza. (si asciuga gli occhi)

Gandolfa. Poverino! Non piangete, che già vi vorrò bene.

Pancrazio. Non credeva mai...

Gandolfa. Via, che fate piangere ancor me.

Pancrazio. Basta.

Gandolfa. Povero vecchio!

Pancrazio. Se mi voleste bene!...

Gandolfa. È qui il signor Florindo; andate via. [p. 287 modifica]

Pancrazio. Io certamente...

Gandolfa. Andate via.

Pancrazio. Non vi avrei mai lasciata.

Gandolfa. Andate via, che siate maledetto.

Pancrazio. A me?

Gandolfa. Andate, che il diavolo vi porti.

Pancrazio. Vado... (Andatevi a fidar delle donne. Non si può sperar fedeltà nemmeno di settantasei anni). (da sè, parte)

Gandolfa. Oh che vecchio minchione! Vorrebbe ch’io prendessi lui, invece di un giovane? Oh, non fo di questi spropositi!

SCENA XVII.

Florindo con un braccio al collo, e detta.

Florindo. Riverisco la signora Gandolfa.

Gandolfa. Che c’è, figlio mio? Che cosa avete? Vi siete fatto male?

Florindo. Son caduto e mi sono slogato un braccio.

Gandolfa. Poverino! Quanto mi dispiace!

Florindo. (Non voglio che ella sappia che sono stato ferito). (da se)

Gandolfa. Vi duole assai?

Florindo. Oh, non è niente. (Scellerato Tiburzio! Egli è in carcere a pagare il fio). (da sè)

Gandolfa. Mi parete sbattuto, avete avuto paura?

Florindo. Sono agitatissimo.

Gandolfa. Per qual cagione? Confidatevi in me, vita mia, che vi consolerò.

Florindo. Per causa della mia lite ho tutti i miei effetti sequestrati. Ho dei debiti, e se non pago, mi vogliono cacciar prigione.

Gandolfa. Oh povero giovine! Non vi mancherebbe altro.

Florindo. Voi mi potreste aiutare.

Gandolfa. Di quanto avreste bisogno?

Florindo. In circa cento zecchini.

Gandolfa. Ah Florindo, se voleste, io rimedierei a tutto. [p. 288 modifica]

Florindo. Oh me felice! Voi mi consolate; ditemi, che far deggio per meritarmi la vostra grazia?

Gandolfa. Volermi bene.

Florindo. Io vi amo teneramente.

Gandolfa. Se ciò fosse vero, stareste bene voi e starei bene anch’io.

Florindo. Io dico la verità, vi voglio bene assai.

Gandolfa. Caro figlio, mettete da parte il rossore, e ditemi se avreste difficoltà di sposarmi.

Florindo. Sposarvi?

Gandolfa. Sentite, vi assegnerò mille ducati l’anno d’entrata, e mille ve ne sborserò subito, acciocchè possiate fare i fatti vostri.

Florindo. (Eppure per causa del giuoco mi converrà sposare una vecchia). (da sè)

Gandolfa. Via, che cosa rispondete?

Florindo. Signora, quanti anni avete?

Gandolfa. Veramente sono un poco avanzata, saranno ormai quarantaotto.

Florindo. (Oh maledetta! Credo ne abbia ottanta). (da sè)

Gandolfa. Se volete, facciamo presto.

Florindo. (Che cosa farò?) (da sè)

Gandolfa. Malanni io non ne ho; avevo qualche piccolo incomodo, ma ho prese le pillole e son perfettamente guarita.

Florindo. (Finalmente creperà presto). (da sè) Signora Gandolfa, voi siete una donna assai ben conservata, vi amo teneramente, e se volete, vi sposerò.

Gandolfa. Oh caro! Siate benedetto! Mi sento consolata tutta.

Florindo. Ma con patto che dei mille ducati l’anno, e dei mille che mi date subito, m’abbiate a far donazione.

Gandolfa. Sì, sì, ve la farò, ve la farò.

Florindo. (Oh giuoco indegno! Per causa tua ho da sposar un cadavere?) (da sè)

Gandolfa. Quando faremo le nozze?

Florindo. Quando volete.

Gandolfa. Io sono all’ordine anche adesso. [p. 289 modifica]

Florindo. E i denari?

Gandolfa. Datemi la mano di sposo, e ve li do subito.

Florindo. La mano?... Sì, ecco la mano.

SCENA XVIII.

Rosaura e detti.

Rosaura. Signora zia, mi rallegro con lei.

Gandolfa. Che cosa c’è, signora, avete invidia?

Florindo. Signora Rosaura, la vostra crudeltà mi fa fare una simile risoluzione; voi m’avete scacciato, ed io mi sposo per disperazione.

Gandolfa. Non gli credete, vedete; ei mi sposa perchè mi vuol bene.

Rosaura. Oh, so benissimo perchè la sposate. Perchè il giuoco vi ha rovinato, perchè il giuoco vi ha reso miserabile; avete giuocato tutto, siete pieno di debiti, non avete più il modo di giuocare, e voi venite ad ingannare questa povera vecchia, lusingandovi con i suoi denari poter continuare ne’ vostri scelleratissimi vizi.

Gandolfa. Che cosa sento! Siete un giuocatore? Vi siete giuocato tutto? Siete pieno di debiti? Mi volete assassinare? Non vi voglio più per isposo.

Florindo. Cara signora Gandolfa, non mi abbandonate, per carità; ho giuocato, è vero, ma non vi è pericolo che io giuochi più.

Gandolfa. Non giuocherete più?

Rosaura. Non gli credete; anche a me l’ha promesso, e poi ha mancato.

Florindo. Sono disingannato. Conosco che non posso vincere. Per causa del giuoco ha avuto mille disgrazie; vedete questo braccio? Per causa del giuoco ho avuto una ferita.

Gandolfa. Oh poverino! Siete stato ferito a causa del giuoco? Non giuocherete più?

Florindo. No certamente.

Gandolfa. Ma non mi fido.

Florindo. Ve lo giuro sull’onor mio. [p. 290 modifica]

Rosaura. Qual onore, perfido, qual onore! L’avete villanamente macchiato.

Gandolfa. Via, signora, non lo strapazzate.

Florindo. Signora Gandolfa, a voi mi raccomando. Eccovi la mia mano, se la volete.

Gandolfa. Date qua, caro.

Florindo. E il denaro?

Gandolfa. Ci penserò.

SCENA XIX.

Pantalone e detti.

Pantalone. Cossa feu qua, sior? (a Florindo)

Florindo. Perdonatemi...

Gandolfa. Via, signore, è in casa mia, voi non c’entrate. (a Pantalone)

Pantalone. Gh’intro, perchè ghe xe mia fia.

Gandolfa. Vostra figlia conducetevela a casa vostra.

Pantalone. Siora sì, siora sì, la menerò a casa mia. Sior Florindo caro, za se semo intesi, co mia fia no ve n’avè più da impazzar.

Florindo. Pazienza.

Rosaura. (Ancora provo della pena, ancora internamente io l’amo). (da sè)

Pantalone. Un tal sior Lelio, che xe uno di quelli che i v’ha barà, m’ha dà sti tresento cinquanta zecchini, confessando averveli robai, e pregandome che ve li daga. Tolè, e andeli a zogar. (a Florindo)

Florindo. Signore, certamente io non giuoco più.

Pantalone. La solita canzonetta: non giuoco più.

Florindo. Questa volta il proponimento è immancabile.

Gandolfa. Signor no, signor no, non giuoca più; lo ha promesso a me, e non giuocherà più.

Pantalone. Promesse da zogadori. Tolè sti bezzi, e quanto scomettemo che doman no ghe n’è più? [p. 291 modifica]

Florindo. Signor Pantalone, giacche avete avuta tanta bontà per me, vi prego di una grazia. Tenete questi trecento cinquanta zecchini, vi darò la nota di alcuni miei debiti, vi pregherò di pagarli, non mi date che quanto può bastarmi a vivere, poichè io certamente non voglio giuocar mai più.

Pantalone. (Se noi vol bezzi in te le man, se pol sperar ch’el diga dasseno de no zogar più). (da sè) Basta, i tegnirò per farve servizio.

Rosaura. (Florindo pare rassegnato). (da sè)

Gandolfa. Vedete se egli è un buon giovane? Venite qua, Florindo; alla presenza di mio fratello, datemi la mano.

Pantalone. Coss’è? Mia sorella deventa matta?

Florindo. Signora Gandolfa, da voi non voglio altro: mi era ridotto a sposarvi per una estrema disperazione. Ora che il cielo m’ha provveduto, e posso sperare col tempo di rimediare alle mie disgrazie, non voglio sagrificcire la mia gioventù ad un cadavere puzzolente.

Gandolfa. Che cos’è questo cadavere puzzolente? Io non puzzo nè punto, nè poco; ma credo che voi burliate, e so che mi volete bene.

Florindo. Vi rispetto, ma non vi amo. Siete vecchia, e non fate per me. Signor Pantalone, favorite darle cinquanta zecchini, che ella mi ha prestati.

Pantalone. Volentiera, ve li darò, siora, ve li darò. E no ve vergogne de sta etae...

SCENA ULTIMA.

Pancrazio e detti.

Pancrazio. Riverisco lor signori. Signora Gandolfa, sono fatte queste nozze?

Gandolfa. (Oh caro il mio vecchietto, non ho cuore d’abbandonarvi. Vi voglio troppo bene, e se mi volete, io sposerò voi). (piano a Pancrazio) [p. 292 modifica]

Pancrazio. Questa sera prenderò le pillole, e domani vi darò risposta.

Florindo. Signora Rosaura, voi mi avete con ragione scacciato, ma non credeva che l’amor vostro potesse tutt’ad un tratto in odio cangiarsi.

Rosaura. Ah signor Florindo, lo dico alla presenza del mio genitore: il labbro vi sprezza, ma il cuore ancor vi ama, e se potessi lusingarmi che foste per cambiar vita, non sarei lontana dal ridonarvi la fede.

Pancrazio. Anca mi v’ho volesto ben, e ve ne vorria ancora, se muessi vita, se lassessi el zogo.

Florindo. Prometto al cielo, prometto a voi di non giuocar mai più.

Pancrazio. Staremo a veder. Un anno de tempo ve dago per far prova del vostro proponimento, e se sarò costante, mia fia sarà vostra muggier.

Florindo. Voi mi consolate: che dice la signora Rosaura?

Rosaura. Siatemi fedele, ed io non amerò altri che voi.

Gandolfa. Volete aspettare un anno a sposarvi? Nipote mia, i miei confetti si mangieranno prima dei vostri. È egli vero, signor Pancrazio?

Pancrazio. Dopo le pillole, ci parleremo.

Florindo. Chiedo nuovamente perdono alla mia cara Rosaura e all’amorosissimo signor Pantalone de’ miei passati trascorsi. Spero che in quest’anno vedrete il mio cambiamento, e quale sarà quest’anno, saranno in appresso tutti gli altri della mia vita. Lascierò sicuramente il giuoco, giacchè il giuoco è la fonte di tutti i vizi peggiori, e non si dà vita più miserabile al mondo di quella del Giuocatore vizioso.

Fine della Commedia.



Note

  1. Nascosta.
  2. Sav. e Zatta: non opera.
  3. Sav. e Zatta: pillola?
  4. Sav. e Zatta: cara.
  5. Così Zatta. Paper, e Pasq.: ed io.