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290 | ATTO SECONDO |
Rosaura. Qual onore, perfido, qual onore! L’avete villanamente macchiato.
Gandolfa. Via, signora, non lo strapazzate.
Florindo. Signora Gandolfa, a voi mi raccomando. Eccovi la mia mano, se la volete.
Gandolfa. Date qua, caro.
Florindo. E il denaro?
Gandolfa. Ci penserò.
SCENA XIX.
Pantalone e detti.
Pantalone. Cossa feu qua, sior? (a Florindo)
Florindo. Perdonatemi...
Gandolfa. Via, signore, è in casa mia, voi non c’entrate. (a Pantalone)
Pantalone. Gh’intro, perchè ghe xe mia fia.
Gandolfa. Vostra figlia conducetevela a casa vostra.
Pantalone. Siora sì, siora sì, la menerò a casa mia. Sior Florindo caro, za se semo intesi, co mia fia no ve n’avè più da impazzar.
Florindo. Pazienza.
Rosaura. (Ancora provo della pena, ancora internamente io l’amo). (da sè)
Pantalone. Un tal sior Lelio, che xe uno di quelli che i v’ha barà, m’ha dà sti tresento cinquanta zecchini, confessando averveli robai, e pregandome che ve li daga. Tolè, e andeli a zogar. (a Florindo)
Florindo. Signore, certamente io non giuoco più.
Pantalone. La solita canzonetta: non giuoco più.
Florindo. Questa volta il proponimento è immancabile.
Gandolfa. Signor no, signor no, non giuoca più; lo ha promesso a me, e non giuocherà più.
Pantalone. Promesse da zogadori. Tolè sti bezzi, e quanto scomettemo che doman no ghe n’è più?