Il giuocatore/Atto II
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ATTO SECONDO.
SCENA PRIMA.
Strada con casa di Pantalone.
Florindo e Brighella.
Florindo. Caro Brighella, non mi abbandonate. Ho bisogno di voi.
Brighella. La gh’ha bisogno de mi? La comandi. (sostenuto)
Florindo. Che c’è? Siete in collera?
Brighella. Mi ghe son servitor. Cossa me comandela? (come sopra)
Florindo. Ma non volete compatire un povero galantuomo, che in un’ora perde quattrocento zecchini?
Brighella. Se lo compatisso? E come!
Florindo. Nel vostro casino avrete pur vedute delle stravaganze dai giuocatori.
Brighella. Oh, se ghe n’ho visto!
Florindo. Non vi ricordate di quello che l’altro giorno ha gettata la parrucca fuori della finestra?
Brighella. Oh, quello el ghe n’ha fatte de belle. Un zorno l’ha taià un otto in bocconcini, e el l’ha bevudo in t’una chiccara da caffè.
Florindo. Io voglio bere il sette.
Brighella. Mi ghe dago un conseio, da so bon servitor. La lassa star de zogar.
Florindo. Se posso rifarmi de’ miei zecchini, non giuoco mai più.
Brighella. Dusento ghe n’ho dà, onde no ghe ne resta altro che tresento.
Florindo. E li ho in questa borsa per rifarmi.
Brighella. Diseva ben quel padre: no me despiase che mio fio abbia perso, ma me despiase che el se vorrà refar.
Florindo. Per ora non penso al giuoco. Penso a riconciliarmi col signor Pantalone, a giustificarmi colla mia cara Rosaura.
Brighella. Quel che è più difficile, l’è placar el sior Pantalon.
Florindo. Se potessi parlar alla signora Gandolfa, zia di Rosaura, spererei col suo mezzo di accomodarla. Ella mi vuol bene e vuol bene a Rosaura ancora, e sopra l’animo di suo fratello potrà più d’ogni altro.
Brighella. Qua no gh’è altro che provarse d’andar in casa.
Florindo. E se vi è il signor Pantalone?
Brighella. Se informeremo, e se el gh’è, volteremo bordo.
Florindo. E se viene, e mi trova?
Brighella. Co siora Gandolfa dise dasseno, l’aggiusterà tutto.
Florindo. Via, proviamo d’entrare in casa.
Brighella. La lassa far a mi, batterò, e procurerò de veder Colombina.
Florindo. Caro Brighella, a voi mi raccomando.
Brighella. Vado subito.
Florindo. Dite, dite, come staremo di vino a pranzo?
Brighella. A pasto ghe darò del Padoan prezioso, e po ghe sarà del vin marzemin, del vin de Cipro, e una bottiglia de Canarie.
Florindo. A quei due forestieri che mi hanno vinto, bisogna dar bene da bere, acciò si scaldino un poco la testa e giuochino con dell’allegria.
Brighella. Cussì i guadagnerà più presto.
Florindo. Ma voi mi odiate, mi perseguitate, mi vorreste vedere in camicia.
Brighella. Anzi parlo, perchè gh’ho premura del so ben, e no vorria che el perdesse.
Florindo. Perdo forse qualche cosa del vostro?
Brighella. La gh’ha rason. La zoga, la perda, mi no parlo mai più. Volela che batta?
Florindo. Sì, battete e spicciamoci, perchè non mi voglio far aspettare al casino.
Brighella. (Nol gh’ha altro in tel cor che el zogo). (da sè) Oh de casa. (batte)
SCENA II.
Colombina alla finestra, e detti.
Colombina. Chi batte?
Brighella. Son mi, siora Colombina, se poderia dirghe una parola?
Colombina. Siete padrone.
Brighella. Gh’è el sior Pantalon?
Colombina. Questa mattina non si è ancora veduto.
Brighella. Se pol entrar?
Colombina. Se potete, entrate.
Brighella. Ma se non ti averzi, non intrerò.
Colombina. Signor Florindo, vorrebbe entrar ancor ella? (a Florindo)
Florindo. Se potessi.
Colombina. Tutti due è troppo.
Brighella. Via, prima uno e po l’altro.
Colombina. Così mi contento.
Brighella. La fazza una cosa, la lassa che vaga mi. Parlerò con siora Rosaura, sentirò se la sa gnente del negozio de siora Beatrice e del sior Pantalon, e vederò de far che entra anche vossignoria. (a Florindo)
Florindo. Via, ci vorrà pazienza.
Brighella. Siora Colombina, avèrzela?
Colombina. A voi?
Brighella. A mi.
Colombina. Volentieri. Ora vi faccio entrare. Signor Florindo, la riverisco.
Florindo. Ed io fuori? (a Colombina)
Colombina. E lei di fuori.
Florindo. Pazienza.
Colombina. Intanto vada a divertirsi a giuocare.
Florindo. Oh, non giuoco più!
Colombina. Che cosa mi dona, che io gli do un punto da vincere sicuramente?
Florindo. Oh il ciel volesse! Vi dono uno zecchino.
Colombina. Giuocate il sette.
Florindo. Maledetto il sette e anche chi lo nomina.
Colombina. La volpe lascia il pelo, ma non il vizio. (entra)
Florindo. Il diavolo sempre mi tormenta col sette.
Brighella. Via, per ancuo no la pensa nè al sette, nè all’otto. La lassa star, la zogherà doman.
Florindo. Sì, dite bene. Per oggi non voglio giuocare. Il sabato mi è contrario.
Brighella. La porta l’è averta, vado a parlar colla siora Rosaura.
Florindo. Sì, caro Brighella, procurate che io possa giustificarmi, prima che ella parli con suo padre.
Brighella La se ferma qua, e presto ghe darò la risposta. (entra)
Florindo. Di qui non mi muovo; mi preme infinitamente la mia cara Rosaura. L’amo con tutto il cuore, e il perderla mi costerebbe la vita. Spiacemi l’impegno con Beatrice, ma da questo procurerò liberarmi. Spiacemi ancora d’aver disgustato il signor Pantalone, ma spero placarlo. La mia Rosaura e la signora Gandolfa lo acquieteranno. Tutte due mi amano, tutte due s’impiegheranno per me.
SCENA III.
Agapito dal casino, e detto; poi Menico1.
Agapito. Oh maledetta fortuna!
Florindo. Che cosa c’è, signor Agapito?
Agapito. Li ho persi tutti.
Florindo. Dove?
Agapito. Qui, in questo casino.
Florindo. Qui vi è un casino da giuoco?
Agapito. Pur troppo, per mia disgrazia.
Florindo. Da quando in qua vi è questo casino?
Agapito. Sarà una settimana che l’hanno introdotto, e in una settimana mi costa un tesoro.
Florindo. Avete messo o tagliato?
Agapito. Ho tagliato. Tutte le banche perdono. Tutti i puntatori guadagnano.
Florindo. (Oh se potessi mettere anch’io!) (da sè) Vi sono banche grosse?
Agapito. Vi è una banca di più di mille zecchini.
Florindo. E perde?
Agapito. I puntatori vincono tutti.
Florindo. Mettono belle poste?
Agapito. Non sanno giuocare. Se fossero giuocatori, lo avrebbero sbancato.
Florindo. (Oh se giuocassi io! Lo sbancherei senz’altro). (da se)
Agapito. Oh maledetta fortuna!
Florindo. (Se venisse Brighella, e mi dicesse che non si può entrare, vorrei vedere questo nuovo casino). (da sè)
Agapito. (Sempre perdere!) (da sa)
Florindo. (Quanto tarda a venir costui? Ma può darsi che siasi impegnato in un lungo discorso. Non verrà per adesso). (da sè)
Agapito. (Perder tagliando è una gran fatalità!) (da sè)
Florindo. Amico, vi trattenete qui?
Agapito. Sì, mi trattengo fino che il mio servitore mi porta denari. Prendo aria per farmi passare il caldo.
Florindo. Vi prego d’una grazia; se vedete uscir da quella casa
Brighella... Lo conoscete voi Brighella?
Agapito. Oh, se lo conosco! Anche il suo casino mi costa qualche cosa.
Florindo. Oh bene; se lo vedete uscire, fatemi il piacere di dirgli che l’aspetto in questo casino; che mi sono ritirato là dentro per non farmi vedere qui in istrada. Intenderà egli il perchè.
Agapito. Volete giuocare?
Florindo. No, vado per vedere.
Agapito. E poi non vi potrete tenere.
Florindo. Chi sa? Se vedrò che vi sia il mio conto, arrischierò la mia sorte. Voi lo sapete; sono un giuocatore prudente. (parte)
Agapito. Con la sua prudenza ha perduto più oro che non pesa. Ma i galantuomini per lo più sono sfortunati.
Menico. Eccomi, signor padrone.
Agapito. Sei stato tanto a venire?
Menico. Non mi pare di aver tardato.
Agapito. Animo, hai preso il denaro?
Menico. Eccolo, cento filippi.
Agapito. Andiamo a perdere anco questi. (parte)
Menico. Cento filippi li perderà volentieri, e a me non ne donerebbe uno, se cascassi morto. (parte)
SCENA IV.
Brighella solo, che esce dalla casa di Rosaura.
Oh son qua, sior Florindo, sior Florindo. Oh bella! Dov’èlo andà? El s’ha stuffà e l’è andà via. Che el sia andà a zogar? No credo mai. El gh’ha tanta premura per la siora Rosaura, e po senza aspettarme el va via? Qualche cossa de grando bisogna che sia successo; mi no so dove andarlo a cercar, adesso in casa no gh’è nissun, l’occasion no podeva esser meio per abboccarse colla siora Rosaura. La lo aspetta lu, la me aspetta mi; bisogna che vada per civiltà a dirghe che nol gh’è più. Vardè, tanta premura de intrar in casa, e po el va via. Pazienza! Tornerò mi un’altra volta. (parte)
SCENA V.
Camera di Rosaura.
Rosaura e Colombina.
Rosaura. Tu mi vai rompendo il capo, tu vuoi che Florindo giuochi, ed io ti dico che non giuoca più.
Colombina. Come potete assicurarvi che non giuochi più?
Rosaura. Me l’ha promesso, me l’ha giurato. Mi vuol bene e non giuocherà più.
Colombina. Eppure or ora mi voleva donare un zecchino, s’io gli davo un punto da vincere.
Rosaura. Non vedi, scioccherella, ch’ei scherza? Credi tu, se dicesse davvero, ch’ei ti volesse dare un zecchino per un punto che lo potrebbe far perdere?
Colombina. Basta, ve n’accorgerete voi.
Rosaura. Orsù, non mi star a parlare di queste cose.
Colombina. Io ne so un’altra, ma non ve la dico per non inquietarvi.
Rosaura. Che cosa sai? Cara Colombina, dimmela, ti prego.
Colombina. Già se ve la dico, non la crederete.
Rosaura. Se me la dici tu, la crederò.
Colombina. Egli ha l’amicizia di una cantatrice.
Rosaura. Via, questo non può essere.
Colombina. Ve lo dico con fondamento.
Rosaura. Sei una pettegola, non può essere.
Colombina. Ecco qui, questo me l’aspettava.
Rosaura. Ma se dici cose che non si possono credere.
Colombina. È cosa strana che un uomo abbia un’amicizia?
Rosaura. L’amore che Florindo mostra avere per me, mi assicura ch’egli non l’abbia.
Colombina. Lo vedremo.
SCENA VI.
Brighella e dette.
Rosaura. Bene, bene, lo vedremo.
Brighella. Con grazia, posso vegnir?
Rosaura. Sì, sì, ecco qui il mio caro Florindo.
Brighella. Servitor umilissimo...
Rosaura. Dov’è Florindo?
Brighella. Ma...
Rosaura. Come?
Brighella. L’è andà in fumo d’acquavita.
Rosaura. Ma dov’è andato?
Brighella. Mi no so cossa dir, son andà in strada, l’ho cerca e no lo trovo.
Rosaura. Oh meschina me! Dove mai sarà andato?
Colombina. Io lo so dove sarà andato.
Rosaura. Via, dove?
Colombina. A trafficare il talento. (fa cenno con le mani, che giuocherà)
Rosaura. Questo non può essere. È vero. Brighella? Questo non può essere.
Brighella. Mi crederia de no.
Rosaura. Ma dove mai sarà?
Colombina. Oh, se non è a giuocare, sarà in un altro luogo.
Rosaura. Dove?
Colombina. Dall’amica.
Rosaura. Via, mala lingua, non è possibile. E vero, Brighella? Non è possibile.
Brighella. Certo me par difficile.
Rosaura. Può essere che abbia ritrovato Pantalone mio padre.
Brighella. Pol esser.
Rosaura. Sì, avrà ritrovato mio padre e sarà andato con lui. Chi sa che ora non parlino del nostro sposalizio?
Brighella. (Poverazza! Se la savesse tutto!) (da sè)
Colombina. In verità che ora la pensate bene. Chi sa che il signor
Pantalone non gli abbia dato qualche denaro2 a conto di dote.
Rosaura. Potrebbe darsi.
Colombina. Ed egli sapete che cosa farà?
Rosaura. Che cosa farà?
Colombina. Subito anderà al casino a dire: vada il tre, vada il resto.
Rosaura. Tu sei una impertinente.
Colombina. Ho sentito battere.
Rosaura. Va a vedere chi è.
Colombina. (Povera ragazza, mi fa compassione: ella crede tutto al suo caro Florindo, ed io non gli credo una maledetta), (parte)
SCENA VII.
Rosaura, Brighella e Colombina che torna.
Rosaura. Quanto mi dispiace che ora non sia venuto Florindo! Miglior occasione di questa non si poteva sperare per dirgli quattro parole con libertà. Mia zia è fuori di casa, mio padre quando viene a vedermi, viene assai tardi, e mi premeva moltissimo di dire a Florindo tre o quattro cose essenziali.
Brighella. Donca stamattina no la l’ha visto so sior padre?
Rosaura. No, non è ancora venuto a ritrovarmi. L’ho fuggito, come sapete, dal casino, e non l’ho più veduto.
Brighella. (No la pol saver gnente ne del zogo, nè della macchina). (da sè)
Rosaura. Non mi so dar pace, come Florindo non sia venuto.
Colombina. Via via, non piangete. È qui il signor Florindo.
Rosaura. Vedi, mala lingua? Tu dicevi, sarà al giuoco, sarà coll’amica.
Colombina. Chi sa dove sia stato sinora?
Rosaura. Non vuoi lasciar questo vizio di mormorare. Dov’è? Viene di sopra?
Colombina. Io non gli ho aperto.
Rosaura. Perchè non gli hai aperto?
Colombina. Or ora viene vostra zia.
Rosaura. Mia zia è una buona donna, vuol bene a me, e vuol bene a Florindo; non dirà niente.
Colombina. E se vien vostro padre?
Rosaura. Per ora non v’è pericolo. Sai che egli viene dopo mezzogiorno. Presto, presto, aprigli e fa che egli venga.
Colombina. Basta; ci penserete voi. (parte)
Rosaura. Costei vuol sempre far la dottora.
Brighella. Se mantienla ben la so siora zia?
Rosaura. È prosperosa quanto una giovine.
Brighella. L’è stada una donna de bon gusto. No la s’ha mai mandà, ma gh’ha piasso sempre esser servida.
Rosaura. Le piace anche adesso.
Brighella. Anca adesso?
Rosaura. E come!
Brighella. Ma in sta età no la troverà più nissun.
Rosaura. Fra tanti adoratori che aveva, se n’è conservato uno, il quale si è invecchiato con lei, e ancora si voglion bene.
Brighella. L’è molto che una donna se sappia conservar per tanti anni un servente. Ma chi èlo sto bon omo?
Rosaura. Un certo signor Pancrazio... ma ecco Florindo.
Brighella. (El me par stralunà. Ho in testa che l’abbia zogà). (da sè)
SCENA VIII.
Florindo, Rosaura e Brighella, poi Colombina.
Florindo. Riverisco la signora Rosaura.
Rosaura. Ben venuto il mio caro Florindo. Mi avete fatto fare de’ cattivi giudizi.
Florindo. (Fortuna indegna!) (da sè) Eccomi, son qua da voi.
Rosaura. Mi parete turbato.
Florindo. Oibò, non è vero. (Povero me! Non ho più un soldo). (da sè)
Brighella. (Come èla? L’ha zogà?) (piano a Florindo)
Florindo. (Pur troppo). (piano a Brighella)
Rosaura. Eppure vi vedo agitato. (a Florindo)
Florindo. Ho paura di vostro padre.
Brighella. (Eli andadi tutti?) (piano a Florindo)
Florindo. (Sii maladetto, sarai contento). (piano a Brighella)
Brighella. (L’è meio che vaga via, perchè debotto3 no me posso tegnir). (parte)
Rosaura. Mio padre non viene per ora.
Florindo. No? Quando viene?
Rosaura. Dopo il mezzogiorno.
Florindo. (Gran sette, gran sette! Anche a puntare l’ho contrario). (ha un sette nascosto nelle mani)
Rosaura. Badate a parlar da voi solo, e non parlate con me.
Florindo. Eccomi da voi. Cara la mia Rosaura! (Cinque volte in faccia). (da sè)
Rosaura. Ditemi, avete voi parlato con mio padre?
Florindo. Sì.
Rosaura. Che cosa vi ha egli detto?
Florindo. Che... circa la dote ci aggiusteremo... Che per il tempo, faremo le cose con ordine... Gli abiti e le gioje mi pare... che... Sì, dice che si faranno. (va stracciando con i denti una carta da giuoco)
Rosaura. Ma questo tempo quando sarà?
Florindo. Figuratevi... sarà... (Oh maladetto!) (da sè)
Rosaura. Tempo lungo?
Florindo. Oibò.
Rosaura. Corto?
Florindo. Sì.
Rosaura. In questo mese?
Florindo. (Questo mese ho perduto de’ bei danari). (da sè)
Rosaura. In questo mese?
Florindo. Sì, in questo mese.
Rosaura. Da qui a quanti giorni?
Florindo. (Oh che seccatura!) (da sè)
Rosaura. Da qui a sei o sette...
Florindo. O sette, o sette! Come c’entra il sette?
Rosaura. Via, non andate in collera. (arriva Colombina)
Colombina. Signora, è venuta vostra zia.
Rosaura. È sola?
Colombina. È col signor Pancrazio.
Rosaura. Già il suo vecchio non la lascia mai. Vorrei parlare a mia zia del nostro matrimonio; vorrei che le parlaste anche voi; ma quel vecchio mi dà soggezione.
Florindo. Anch’io avrei volontà di parlare colla signora Gandolfa. (Per vedere se le potessi cavare qualche cosa di mano. Non sarebbe la prima volta). (da sè)
Rosaura. Come dobbiamo fare?
Florindo. Il vecchio resta qui?
Rosaura. Alcune volte ci sta, alcune volte se ne va.
Florindo. Ritiriamoci, se vi contentate, e stiamo a vedere se parte presto.
Rosaura. Sì, ritiriamoci in quest’altro appartamento. Colombina, vieni con noi. (parte)
Colombina. Oh vengo, vengo, non vi lascio soli. Com’è andata? (a Florindo)
Florindo. Di che?
Colombina. Avete giuocato?
Florindo. Eh, lasciami stare.
Colombina. Va cinque, va sette. (parte)
Florindo. Venga la peste al sette. (parte)
SCENA IX.
Gandolfa e Pancrazio.
Gandolfa. In verità, signor Pancrazio, che questa mattina sto meglio.
Pancrazio. Ah, che ne dite? Vi hanno fatto bene quelle pillolette?
Gandolfa. Certo che mi hanno fatto bene, e dopo che le ho prese, non sento più quella doglia che mi tormentava questa coscia.
Pancrazio. Anch’io con quelle pillole son guarito da tre o quattro mali.
Gandolfa. E il vostro catarro come vi tratta la notte?
Pancrazio. Non mi lascia dormire.
Gandolfa. Oh ancor io, vedete, sto le ore intere senza potere chiuder un occhio; ho un affanno di petto, che mi sento morire.
Pancrazio. Prendete le pillole.
Gandolfa. Mi faranno bene?
Pancrazio. E come! Hanno fatto bene anche a me.
Gandolfa. La gotta vi tormenta più?
Pancrazio. Ah, non vedete? Sono stroppiato. Non mi posso muovere.
Gandolfa. Prendete le pillole.
Pancrazio. Perchè non vi andate a spogliare?
Gandolfa. Sono un poco stanca, non posso salire le scale per andare nella mia camera; quando sarò riposata, anderò. Sediamo un pochino. (siedono)
Pancrazio. Non so se oggi sia freddo, o se mi venga la febbre.
Gandolfa. La febbre! Oh poverina me! Vi sentite male?
Pancrazio. Ho un certo non so che per la vita...
Gandolfa. Vedete? Dovevate prendere le pillole. Lasciate che senta, se siete freddo; no, no, mi pare che piuttosto siate caldetto.
Pancrazio. Sì? Via, via, non sarà nulla.
Gandolfa. In verità che siete caldo.
Pancrazio. Sì, non ho ancora perduti i calori.
Gandolfa. Nemmen io, vedete; ho i miei anni, ma mi conservo.
Pancrazio. Mi parete quella di trent’anni sono.
Gandolfa. E voi non diventate mai vecchio.
Pancrazio. I capelli canuti li avevo di venticinque anni.
Gandolfa. Ed io ho perduti i denti per causa delle flussioni.
Pancrazio. Vi ricordate, eh? trent’anni sono?
Gandolfa. Ah! Già trent’anni? chi ci poteva tener dietro?
Pancrazio. Che ricreazioni, che divertimenti, che gustosi spassi ci siamo presi!
Gandolfa. Vi ricordate? A tutte le feste, a tutti i teatri noi eravamo i primi, e in que’ balletti nessuno ci poteva star a petto.
Pancrazio. Oh, dove sono andati que’ tempi!
Gandolfa. Eh, sebbene son vecchia, ancora di quando in quando il cuor mi brilla, e mi vien voglia di maritarmi.
Pancrazio. Sentite, signora Gandolfa, io vi ho sempre voluto bene e sempre ve ne vorrò.
Gandolfa. Caro il mio vecchietto, se non ci foste voi, io morirei.
Pancrazio. Mi ricordo quanto mi avete fatto sospirare.
Gandolfa. Sospirare? Per qual cagione?
Pancrazio. Per gelosia.
Gandolfa. E adesso siete più geloso?
Pancrazio. E adesso... Basta, se vedessi... Chi sa?
Gandolfa. Ancora patite di questo male?
Pancrazio. Ne patisco ancora.
Gandolfa. Prendete le pillole, che guarirete.
Pancrazio. Eh furbetta!
Gandolfa. Oh! Io furba?
Pancrazio. Carina! La grazia poi non l’avete mai perduta.
Gandolfa. Dite davvero?
Pancrazio. Sì, davvero.
Gandolfa. Eh il mio vecchietto!
Pancrazio. Oh la mia mamma!
Gandolfa. Mi fate tornar giovine.
Pancrazio. Oh dieci anni di meno!
SCENA X.
Florindo e detti.
Florindo. (Non ho più sofferenza; questi vecchi mi fanno venire il vomito). (da sè)
Gandolfa. Via, state saldo.
Pancrazio. Son vecchio.
Gandolfa. Io non cerco se siete vecchio.
Pancrazio. Ho male.
Gandolfa. Che male avete?
Pancrazio. Mal d’amore.
Florindo. Riverisco umilmente lor signori.
Pancrazio. (Oh diavolo! Ci avrà egli sentito?) (da sè)
Gandolfa. Oh signor Florindo bello, buon giorno a vossignoria. Che fate? State bene, caro?
Pancrazio. (Caro?) (da sè)
Florindo. Signora, sto bene a’ vostri comandi, e sono qui per incomodarvi con due parole, se vi contentate.
Gandolfa. Sì, figlio, sì, parlate che v’ascolto. Compatitemi, signor Pancrazio, questo giovine l’ho veduto nascere, gli voglio bene.
Pancrazio. Sì, l’avete veduto nascere, ma ora è grande e grosso.
Gandolfa. E per questo? non posso fargli delle finezze? Potrebbe esser mio figlio. Venite qua, caro, venite qua.
Pancrazio. (Ho una rabbia che mi sento rodere). (da sè)
Florindo. (Cara signora Gandolfa, vorrei segretamente parlarvi fra voi e me, senza che sentisse quel vecchio). (piano)
Gandolfa. (Aspettate, vita mia, farò che vada via). Signor Pancrazio.
Pancrazio. Signora?
Gandolfa. Siete molto pallido in viso. Vi vien la febbre?
Pancrazio. Oimè, ho paura di sì.
Gandolfa. Che cosa avete, che avete gli occhi incantati? Oh che labbri smorti! Guardate che vi trema la bocca; poverino, non vorrei che vi venisse qualche accidente. (a Pancrazio)
Pancrazio. Oimè! mi par che mi venga male.
Gandolfa. Presto, andate a prendere qualche cosa, non perdete tempo.
Pancrazio. Ma voi restate...
Gandolfa. Or ora mi cadete in terra.
Pancrazio. Con quel giovinotto...
Gandolfa. Siete geloso?
Pancrazio. (Ahi! ho paura. Mi sento tremar le gambe. Vorrei andare... Vorrei restare... Sudo da capo a piè. Presto le pillole. Io prenderò le pillole dallo speziale, ed ella le prenderà da quel giovinotto). (da sè, parte)
SCENA XI.
Florindo e Gandolfa.
Florindo. Finalmente è andato.
Gandolfa. Il vecchierello è andato. Venite qua, il mio caro Florindo, sedete vicino a me. Quando vi vedo, mi consolo; sono un poco vecchia, ma mi piace la gioventù.
Florindo. Siete stata sempre briosa, e lo sarete sino che viverete.
Gandolfa. Oh figlio mio, se mi aveste conosciuta trent’anni sono! Se mi aveste veduta! Non vi dico altro.
Florindo. Ancora vi conservate bene.
Gandolfa. Sono avanzata negli anni, ma in certe cose non la cedo ad una giovane.
Florindo. E quali sono queste cose?
Gandolfa. Eh furbettaccio, vorreste che vi facessi ridere.
Florindo. Fatemi il piacere, spiegatevi.
Gandolfa. Via, non mi fate venir rossa.
Florindo. Orsù, per non farvi arrossire, mutiamo discorso. Io ho bisogno di voi, signora Gandolfa.
Gandolfa. Che cosa volete da me, caro Florindo?
Florindo. Ho bisogno di un favor grande.
Gandolfa. Sì, figlio mio, quel che posso, lo farò volentieri.
Florindo. Ho bisogno di cinquanta zecchini.
Gandolfa. Uh, uh, dove ho io tanti denari? Cinquanta zecchini? Dove volete che io li trovi?
Florindo. Via, cara signora Gandolfa, so che ne avete.
Gandolfa. Vi replico che non ne ho.
Florindo. Avete tremila ducati l’anno d’entrata. Voi non ne spendete nemmeno mille.
Gandolfa. Sì, tremila ducati, ma non riscuoto le pigioni delle case, i poderi non fruttano, non posso riscuotere i censi, e non si tira un soldo.
Florindo. Dunque non avete denari?
Gandolfa. Non ne ho, figlio mio, non ne ho.
Florindo. Pazienza! Perdonate l’incomodo. (s’alza)
Gandolfa. Così presto partite?
Florindo. Bisogna ch’io vada in qualch’altro luogo a procurarmi questi cinquanta zecchini.
Gandolfa. Dove anderete?
Florindo. Anderò dalla signora Pasquella, la quale è una buona vecchietta amorosa, che mi vuol bene, e se le farò quattro finezze, mi darà i cinquanta zecchini.
Gandolfa. Vi darà i cinquanta zecchini?
Florindo. Sicuramente.
Gandolfa. Ma le farete quattro finezze.
Florindo. Oh, è giusto.
Gandolfa. A me, per altro, non le avete fatte.
Florindo. Se credessi che le gradiste, ve le farei.
Gandolfa. Da voi, figlio mio, prendo tutto.
Florindo. Cara la mia nonnina.
Gandolfa. Nonna mi dite?
Florindo. Per finezza.
Gandolfa. Oh che finezza magra! Non ne sapete fare delle migliori?
Florindo. Ma io perdo il tempo, ed ho premura dei cinquanta zecchini; signora Gandolfa, vi riverisco.
Gandolfa. Aspettate, aspettate; sentite, figlio mio, cinquanta zecchini non li ho, ma se vi premono, li troverò.
Florindo. Oh il ciel volesse! Mi fareste il maggior piacere del mondo.
Gandolfa. E poi mi vorrete bene?
Florindo. Tanto.
Gandolfa. Andrete dalla signora Pasquella?
Florindo. Non vi è pericolo.
Gandolfa. Le vostre finezze di chi saranno?
Florindo. Tutte vostre.
Gandolfa. Ah furbetto! mi burlerete.
Florindo. No, cara signora Gandolfa, non vi burlerò. (Mi sento che non posso più). (da sè)
Gandolfa. Volete li cinquanta zecchini?
Florindo. Non vedo l’ora d’averli.
Gandolfa. Che cosa poi ne farete?
Florindo. Ho da depositarli per una lite.
Gandolfa. Ah, voi li giuocherete.
Florindo. Non vi è pericolo.
Gandolfa. Voi li giuocherete.
Florindo. Orsù, vado via.
Gandolfa. Fermatevi, aspettate, prendete; per voi mi cavo un gallone, (si leva dal fianco un rotolo, con dentro delli zecchini) (Ah, mi piange il cuore, mi porta via le viscere. Ma Florindo è tanto leggiadro, che non posso far a meno di consolarlo). (da sè)
Florindo. (La vecchina ci è cascata. Non vedo l’ora di poter giuocare e rifarmi). (da sè)
Gandolfa. Florindo. (con qualche mestizia)
Florindo. Signora.
Gandolfa. Ah! Questi sono li cinquanta zecchini.
Florindo. Oh cara mamma!
Gandolfa. Prendete. (Mi vien voglia di piangere). (da sè)
Florindo. Vi sono tanto obbligato.
Gandolfa. Via, mi fate una finezza?
Florindo. Volentieri. Oh, ecco vostra nipote.
Gandolfa. Dove?
Florindo. Ecco la signora Rosaura.
Gandolfa. Venite qua, sentite.
Florindo. Un’altra volta.
Gandolfa. Venite qua, cane, venite qua.
Florindo. Un’altra volta, un’altra volta. (Eppure è vero, il giuocatore trova sempre denari). (da sè, parte)
Gandolfa. Come! Così mi pianta? Nel più bello va via? Ah poveri miei zecchini!
SCENA XII.
Rosaura e detta.
Rosaura. Serva, signora zia.
Gandolfa. Buon giorno, nipote, buon giorno.
Rosaura. Mi ha detto il signor Florindo che l’avete consolato.
Gandolfa. V’ha forse raccontato tutto?
Rosaura. Sì, in due parole mi ha detto il tutto.
Gandolfa. (Che ciarlone!) (da sè)
Rosaura. Egli è consolato e sono consolata anch’io.
Gandolfa. Voi, come ci entrate?
Rosaura. C’entro, perchè quello che fate per il signor Florindo, s’intende anche fatto per me.
Gandolfa. Come? Per voi?
Rosaura. Non ha egli a essere mio sposo?
Gandolfa. Vostro sposo? Può darsi che sia, e anche che non sia.
Rosaura. Col vostro mezzo spero di conseguirlo.
Gandolfa. In queste cose non ci voglio entrare. Sono anch’io fanciulla, e le fanciulle non c’entrano.
Rosaura. Ma egli mi ha detto che l’avete consolato.
Gandolfa. Sì bene, l’ho consolato.
Rosaura. Dunque avete promesso di parlare per noi a mio padre.
Gandolfa. Ah v’ingannate, signora, v’ingannate.
Rosaura. M’inganno? Come dunque l’avete consolato?
Gandolfa. Come? Oh se sapeste come!
Rosaura. Via, ditemi, come?
Gandolfa. Meno ciarle, non avete da saper altro.
Rosaura. Non ho da saper altro? Florindo è il mio sposo.
Gandolfa. Questa volta penso che potrete spazzarvi la bocca.
Rosaura. Vi è qualche novità?
Gandolfa. Certo che sì.
Rosaura. Egli è venuto qui per assicurarmi della sua fede.
Gandolfa. In questa casa non vi sono altre fanciulle che voi?
Rosaura. Chi v’è: Colombina?
Gandolfa. Non ve ne sono altre?
Rosaura. Non so che ve ne sieno.
Gandolfa. Io, che cosa sono?
Rosaura. Voi?
Gandolfa. Signora sì, io.
Rosaura. Voi?
Gandolfa. Io.
Rosaura. Sapete chi siete?
Gandolfa. Chi sono?
Rosaura. Una vecchia senza giudizio. (parte)
Gandolfa. Fraschettuola! Mi voglio maritare per farti dispetto: se ho degli anni assai, ho anche assai denari: i giovani che hanno giudizio, pensano ai denari e non pensano alla gioventù. Oh, mi dirà qualcheduno, se il marito vi prende per i denari, vi strapazzerà. Son vecchia, ma non son poi decrepita. Sono ancora colorita in faccia, ho della carne su le ossa, e poi per istar meglio, se avrò qualche incomodo, prenderò le pillole, e guarirò. (parte)
SCENA XIII.
Camera da giuoco nel casino.
Florindo solo, poi Lelio, Tiburzio e Servitore.
Florindo. Fino che non mi sono rifatto della mia perdita, è impossibile ch’io ritrovi quiete. Amo Rosaura, ma questa volta la passione del giuoco supera quella dell’amore. Con questi cinquanta zecchini mi posso riscattare, se la fortuna lo vuole; e quella buona vecchia che me li ha dati, può essere che sia la mia redentrice. Se guadagno, se mi rifaccio, a quella povera vecchia voglio fare due finezze per gratitudine.
Lelio. Signor Florindo, vedete se siamo di parola?
Florindo. Bravi, bravissimi.
Tiburzio. Siamo qui a godere delle vostre grazie.
Florindo. Mi avete fatto piacere. Aspetto degli altri amici, ma non li vedo ancora arrivare. Frattanto che vengono e si mette in tavola, potremmo far due tagli.
Lelio. Si potrebbono fare.
Florindo. Ehi, chi è di là? (chiama)
Servitore. Comandi?
Florindo. Non si è veduto nessuno di quelli che ho mandato a invitare?
Servitore. Sono venuti tutti; hanno aspettato un pezzo, e vedendo che ella non veniva, sono andati via.
Florindo. Sono andati via? Ma è tardi molto?
Servitore. Anzi tardissimo.
Lelio. Anche noi siamo andati e tornati.
Florindo. Compatitemi; basta, se non vi è nessuno, mangeremo da noi.
Servitore. Comanda che si bagni la zuppa?
Florindo. Sì, bagnatela bel bello, e frattanto che la zuppa si prepara, noi faremo due tagli. Portate un mazzo di carte.
Servitore. Io non ho le chiavi, e messer Brighella è in cantina.
Florindo. Grand’asino è quel Brighella!
Tiburzio. Se volete far due tagli, vi darò io un mazzo di carte.
Florindo. Sì, sì, date qua. Va via, e quando è in tavola, avvisaci. (al servitore)
Servitore. (Giuocherebbe la sua parte del sole). (da sè, parte)
Florindo. Animo, in piedi, in piedi. Ecco qui venti o trenta zecchini; puntate. (fa il taglio)
Lelio. Fante.
Tiburzio. Sette.
Florindo. Per carità non mettete il sette.
Tiburzio. Via, voglio compiacervi. Tre4.
Lelio. Fante, ho vinto; paroli.
Florindo. Va subito.
Tiburzio. Tre; ho vinto. Tre, al resto della banca.
Florindo. Vada. Oh maledetto tre! Eccolo subito! (in seconda)
SCENA XIV.
Brighella e detti.
Brighella. (Oh caro, oh bello!) Co la comanda, è in tavola.
Florindo. Dove siete stato sinora? Che siate maledetto!
Brighella. In caneva5, a tor i fiaschi.
Florindo. Per causa vostra ho perduto i denari.
Brighella. Anca adesso per causa mia?
Florindo. Sì, per causa vostra non ho potuto aver carte; ho giuocato con queste, e qualche diavolo hanno dentro.
Tiburzio. Come? Che dite? Sono carte onorate. Io sono un galantuomo, e mi maraviglio di voi. (si scosta dal tavoliere)
Florindo. Compatitemi: non ho detto per offendervi. Dico che io sono sfortunato. Venite qua, un altro taglio.
Tiburzio. Non voglio giuocar altro.
Florindo. Dieci zecchini soli. (Voglio vedere se posso vincere il pranzo). (da sè)
Brighella. La zuppa se giazza; la roba va de mal.
Florindo. Ecco qui dieci soli zecchini. (Brighella, ora taglio per voi). (piano a Brighella)
Brighella. (Prego el ciel che la vaga ben). (da sè)
Florindo. Animo, da bravi.
Lelio. Fante, alla banca.
Tiburzio. Tre e sette, alla prima che viene.
Florindo. Mi pareva impossibile che non v’entrasse il sette. (taglia) Eccolo quel maledetto sette; eccolo quel sette di casa del diavolo. Sette cancheri, che mi mangino il cuore; sette forche, che mi appicchino; sette diavoli, che mi strascinino all’inferno.
Lelio. Via, quietatevi; andiamo a pranzo.
Florindo. Andate, che ora vengo.
Tiburzio. Fatemi la strada. (a Florindo)
Florindo. Andate, che vengo.
Lelio. Signor Florindo...
Florindo. Favorite: accomodatevi, che ora sono con voi.
Lelio. Benissimo. (Se non vuol venire, non importa, mangeremo noi). (a Tiburzio, e parte)
Tiburzio. (Egli smania, ed io mangerò col maggior gusto del mondo). (da sè, parte)
SCENA XV.
Florindo e Brighella.
Brighella. Sior Florindo, vala a desinar?
Florindo. Non ho appetito.
Brighella. Eh via, la vada; no la se fazza burlar.
Florindo. Andate, che ora vengo.
Brighella. Cossa volela che diga quei signori?
Florindo. Andate in malora e in mal punto.
Brighella. Vado... (E me vien voia de darghe cinquanta pugni. Tolè, de là i magna e i beve alle so spalle, e lu l’è qua che el sospira e el bestemmia. Ecco qua i spassi dei zogadori). (da sè, parte)
SCENA XVI.
Florindo, poi Lelio e Tiburzio.
Florindo. Voglio vedere quanto ho perso. (siede, cava la borsa e conta) Gran disgrazia! Se non mi rifaccio oggi, non mi rifaccio mai più.
Lelio. Signor Florindo, alla vostra salute. (di dentro)
Florindo. (Che tu possa crepare!)
Tiburzio. E viva il sette. (di dentro)
Florindo. (Sette corni che vi sbudellino).
Lelio. Signor Florindo, oh che pasticcio! Venite a sentirlo, che è una cosa prodigiosa. (esce, ed entra subilo)
Florindo. Vengo, vengo, per non mostrar passione mi sforzerò a mangiare. Dopo pranzo con questi pochi mi rifarò. (entra)
SCENA XVII.
Arlecchino, il Servo del casino, e due Servitori de’ giuocatori.
Primo Servitore. Figliuoli, venite qui, fintanto che i padroni pranzano, divertiamoci un poco. Arlecchino, avete denari?
Arlecchino. Se gh’ho quattrini? E come! Cossa penseu, che sippia qualche mamalucco? Vardè mo, coss’èli6 questi?
Secondo Servitore. Capperi, sono zecchini. Come avete fatto tanti denari?
Arlecchino. Me li ha donadi el me patron.
Terzo Servitore. Ve li ha donati, o li avete rubati?
Arlecchino. Qua su sto proposito ghe saria da discorrer un pochettin. Per quel che dis el me patron, el me gli ha donadi, ma mi che son un omo sincero, posso dir in conscienza che ti ho sgraffignadi.
Primo Servitore. Orsù, giuochiamo.
Secondo Servitore. Son qui, giuochiamo pure.
Terzo Servitore. Via, tagliate, fate la banca, (al primo servitore)
Primo Servitore. Tenete; due zecchini d’oro, e diciotto o venti lire di moneta.
Arlecchino. Come se fa a zogar?
Secondo Servitore. V’insegnerò io. Quattro, a due lire. (punta)
Terzo Servitore. Otto, a tre lire.
Arlecchino. Quattordese, a cinque soldi.
Primo Servitore. Oh via, giuocate come va. (ad Arlecchino)
Secondo Servitore. Mettete i punti che ci sono, e non il quattordici.
Arlecchino. Va un zecchin, a un ponto.
Primo Servitore. A che punto?
Arlecchino. A che punto che voli vu.
Primo Servitore. Volete che vada al cinque, al sei?
Arlecchino. Sì, al cinque e al sie.
Primo Servitore. Mezzo per parte?
Arlecchino. Mezzo per parte.
Primo Servitore. (Oh che babbuino! Quei denari son miei sicuramente). (da sè, taglia e sfoglia)
SCENA XVIII.
Florindo e detti.
Florindo. Via di qua. (ad Arlecchino) (I due servi che puntano, si scostano dal tavolino.)
Arlecchino. Me devertisso. (a Florindo)
Primo Servitore. Perdoni, illustrissimo, anderemo via.
Florindo. No, no; voi fermatevi. Andate via di qua, vi dico. (li due servitori partono)
Florindo. Animo, pezzo d’asino. Bella cosa! Il vizio del giuoco? Se giuocherai, ti licenzierò. Un servitore che giuoca, non bada al servizio e ruba al padrone.
Arlecchino. E un patron che zoga, el strapazza el povero servitor e qualche volta el ghe roba el salario. (parte)
SCENA XIX.
Florindo, il Servitore del casino, poi Lelio e Tiburzio.
Servitore. Illustrissimo, anderò via.
Florindo. No. Vada un punto.
Servitore. Oh, vuol degnarsi di giuocar con me?
Florindo. Il dieci, a uno zecchino.
Servitore. Come comanda. Dieci, a un zecchino. (taglia)
Florindo. Presto, avanti che venga gente.
Servitore. Dieci, ella ha vinto. Ecco un zecchino.
Florindo. Rivada il dieci.
Servitore. Vada pure. (giuocando)
Florindo. Eccolo, ho vinto.
Servitore. Ah, pazienza! Mi ha rovinato.
Florindo. Il tre, al banco.
Servitore. Vada.
Lelio. (Osservate il vizioso, giuoca coi servitori), (piano a Tiburzio)
Tiburzio. (Leviamolo, che non perdesse i denari con colui). (piano a Lelio)
Florindo. Tre, ho vinto.
Servitore. Oh povero me! Mi ha sbancato.
Lelio. Signor Florindo.
Florindo. Oh amico.
Lelio. Che diavolo fate? Non vi vergognate a giuocare co’ servitori?
Florindo. Stavo così provando.
Servitore. Ha provato a sbancarmi, e mi ha sbancato.
Lelio. Non è vostro decoro. (a Florindo)
Florindo. Dite bene, ma quando vedo giuocare, non posso fare a meno. Va via di qua. (al servitore)
Servitore. Ora mi caccia via? Doveva farlo prima.
Florindo. Va via, ti dico.
Servitore. Mi ha vinto vicino a tre zecchini.
Florindo. Hai avuto l’onore di giuocare con me.
Servitore. Maledetto quest’onore. (Ma mi rifarò, gli metterò in conto tante carte di più, fino che sarò venuto sul mio). (da sè, parte)
Tiburzio. Caro signor Florindo, voi mi scandalizzate a giuocar con quella sorta di gente. Non avete paura che vi rubino?
Florindo. Oh, a me è difficile.
Tiburzio. (È furbo l’amico!) (da sè, deridendolo)
Lelio. E poi arrischiare il vostro denaro contro un piccolo banco?
Florindo. Avete ragione. Ma il desiderio di giuocare qualche volta mi fa fare degli spropositi.
Lelio. Se volete giuocare, giuocate con noi. Noi vi serviremo.
Tiburzio. Almeno giuocherete con galantuomini.
Florindo. Oh via, vogliamo fare un taglietto?
Lelio. Facciamolo.
Florindo. Ma io non voglio tagliare.
Tiburzio. Taglierò io.
Florindo. Benissimo. (Oggi sono più fortunato a mettere, che a tagliare). (àa sè)
Lelio. Facciamo portar le carte.
Florindo. Dopo pranzo in questa camera ci si vede poco; andiamo in quell’altra.
Lelio. Sì, dove volete.
Tiburzio. Io vi servo per tutto.
Florindo. Andiamo.
SCENA XX.
Brighella e detti.
Florindo. Preparateci da giuocare in quell’altra camera. (a Brighella)
Brighella. La favorissa una parola. (a Florindo)
Florindo. Che cosa c’è?
Brighella. (L’è qua un’altra volta siora Rosaura in maschera). (piano a Florindo)
Florindo. (Per amor del cielo, ditele che vada via).
Brighella. (Ghe l’ho dito, ma ella tutta lagreme la protesta averghe da dir una cossa de somma premura, che decide del so amor, del so onor e della so vita).
Florindo. (Che diavolo sarà mai! Io non vorrei presso di questa gente dar sospetto. Fate una cosa, introducetela nella vostra camera, e ditele che aspetti un poco, che or ora verrò. Intanto procurerò che gli amici vadano nell’altra camera).
Brighella. (Sia maledetto el diavolo! Ho rabbia a trovarme in sta sorte d’imbroi). (da sè, parie)
Lelio. Signor Florindo, il tempo passa; volete che andiamo?
Florindo. Andate innanzi, che ha poco verrò.
Tiburzio. Se non venite voi, non andiamo.
Florindo. Principiate a giuocar voi due, già io non taglio.
Tiburzio. A solo a solo io non giuoco.
Florindo. Lasciatemi in libertà mezz’ora, ho una cosa da fare.
Lelio. Facciamo quattro tagli, e poi ce ne andiamo.
Tiburzio. Se non volete giuocar voi, io vado in un altro casino.
Florindo. (Rosaura mi aspetta, sono ansioso di sapere che cosa ha da dirmi). (da sè)
Lelio. Via, vi fate pregare? Oggi vincerete senz’altro: rogatus lude.
Tiburzio. Ma io non prego altro. Schiavo, signori.
Florindo. Fermatevi.
Tiburzio. Andiamo, o non andiamo?
Florindo. Via, per due tagli andiamo. (Rosaura mi aspetterà), (da sè)
Lelio. Oggi facciamo del resto. (parte)
Tiburzio. Colle carte in mano non ho paura. (parte)
Florindo. Rosaura è una buona ragazza; aspetterà. (parte)
Fine dell’Atto Secondo.