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IL GIUOCATORE 279


cosa bisognerà pensare, per rimediare alle mie piaghe. Ricorrerò a quella buona vecchia di Gandolfa. Mi preme pagar il debito de’ venti zecchini. Procurerò di andar in casa, senza che la signora Rosaura lo sappia.

SCENA XII.

Tiburzio e detto.

Tiburzio. Una parola, signor Florindo.

Florindo. Che cosa comandate?

Tiburzio. Favorite di pagarmi cento zecchini.

Florindo. A che motivo vi ho da dare cento zecchini?

Tiburzio. Io ho arrischiato il mio denaro. La pioggia non era vostra, si è trovato il padrone, ho dovuto restituirla, e voi mi siete debitore di cento zecchini.

Florindo. Chi v’ha detto, che deste via la pioggia che mi avete vinto? Ella era roba mia, e non si doveva dare senza di me.

Tiburzio. Orsù, meno ciarle, voi sapete la cosa com’è; ed io voglio i miei cento zecchini. O roba, o denaro.

Florindo. Come? Siamo noi alla strada?

Tiburzio. Che strada? Sono un galantuomo, ho vinto, e voglio esser pagato.

Florindo. Contentatevi di quello che avete portato via.

Tiburzio. Ho arrischiato il mio sangue. Se perdevo, pagavo. Ho vinto, mi avete dato una gioja che non è vostra; o pagatemi, o mi pagherò colle mie mani.

Florindo. Che prepotenza è questa? Così si tratta con gli uomini onorati?

Tiburzio. Siete un truffatore.

Florindo. Voi siete un ladro.

Tiburzio. A me ladro! Ah giuro al cielo, ti caverò il cuore. (mette mano alla spada)

Florindo. Ah traditore! coll’armi alla mano? (si difende colla spada)

Tiburzio. O pagami coi denari, o mi pagherai col tuo sangue. (battendosi partono)