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IL GIUOCATORE 271

Che quella desgraziada lo abbia recevesto? Che mia sorella gh’abbia dà libertà? Son in t’un mar de confusion; no so in che mondo che sia.

Tiburzio. Io sono un uomo onorato, signor Pantalone; ho arrischiato il mio denaro, e ho vinto. Non voglio perder cento zecchini; se la pioggia è vostra, datemi li cento zecchini, e ve la lascio.

Pantalone. No ve daria gnanca un bezzo, e non so chi me tegna che no vaga a denunziarve, e no ve fazza cazzar in t’una preson.

Lelio. (Andiamo via). (piano a Tiburzio)

Tiburzio. Questa è una prepotenza.

Lelio. (Andiamo via). (come sopra, a Tiburzio)

Pantalone. E la vostra la xe una baronada. Sè ladri, sè furbazzi.

Lelio. (Ma andiamo via, mi sento i birri alle spalle), (a Tiburzio)

Tiburzio. (Maledetto Florindo! Egli me la pagherà). (parte)

Lelio. Signor Pantalone, voi siete un galantuomo, siete un uomo onesto. Tenete la vostra pioggia, e vi prego di non parlare di noi, e di me specialmente, che vedete non c’entro per nulla. (Ho una paura d’andar prigione, che tremo. Ecco il bel frutto delle vincite che si fanno malamente al giuoco. Si trema sempre, si ha timore di tutti, non si ha coraggio di dire la sua ragione, si vive una vita infame, e si fa spesse volte una morte ignominiosa). (da sè, parte)

Pantalone. Son fora de mi. Fazzo cento pensieri, uno pezzo dell’altro. Che el sia sta da mia fìa? Ma quando? Che el gh’abbia tolte le zoggie? Ma come? Che ela ghe le abbia dae? Ma per cossa? El vegnirà sto desgrazià; saverò da elo... Ma da Florindo cerco la verità de sto fatto, e no da mia fia? Xe più facile saverlo da ela, che da lu. Subito voi andar da Rosaura, e prima colle bone, e po colle cattive, voggio che la me diga la verità. (parte)