Atto I

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Personaggi Atto II

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ATTO PRIMO.

SCENA PRIMA.

Notte con luna.

Strada con veduta del canale. Da una parte la casa del Dottore, con un terrazzino.
Dall’altra locanda, con l’insegna dell’Aquila.

Nell’alzar della tenda vedesi una peota illuminata, disposta per una serenata, con dentro i suonatori ed una donna che canta.

Li suonatori suonano una sinfonia.

Florindo e Brighella in terra, da un lato della scena.
Rosaura e Beatrice vengono sul terrazzino1
.

Florindo. Osserva, osserva, Brighella; ecco la mia cara Rosaura sul terrazzino, con sua sorella Beatrice; sono venute a godere la serenata. Ora è tempo ch’io faccia cantare la canzonetta da me composta, per ispiegare con essa a Rosaura l’affetto mio. [p. 308 modifica]

Brighella.a Mi non ho mai più visto un amor più curioso del vostro. Vussignoria ama teneramente la signora Rosaura: el ghe sta in casa, facendo pratica de medicina col signor Dottor, padre della ragazza, el gh’ha quanto comodo el vol de parlarghe, e invece de farlo a bocca, el vol spiegarse con una serenada, el vol dirghelo con una canzonetta? Eh, no la butta via el so tempo così miseramente. La parla, la se fazza intender, la senta l’inclinazion della giovine: e se la ghe corrisponde, allora po la ghe fazza delle serenade, che almanco no la butterà via cussì malamente i so bezzi.

Florindo. Caro Brighella, te l’ho detto altre volte: non ho coraggio. Amo Rosaura, ma non trovo la via di spiegarmi2 che l’amo. Credimi, se a faccia a faccia giungessi a dirle qualche cosa dell’amor mio, morirei di rossore.

Brighella. Donca la vol tirar avanti cussì? Penar senza dirlo?

Florindo. Via3, va alla peota, e ordina che si canti la nuova mia canzonetta.

Brighella. La me perdona. Ho servido in Bologna so sior padre. V. S. l’ho vista a nasser, e ghe voio ben. Sibben che adesso in sta città servo un altro, co la vedo ella, me par de veder el mio patron, e quelle ore che posso robar, le impiego volontiera4...

Florindo. Brighella, se mi vuoi bene, fa quello che ora ti ordino; va alla peota, e di’ che si canti.

Brighella. La servirò, come la comanda.

Florindo. Mi ritirerò dietro di questa casa.

Brighella. Perchè retirarse?

Florindo. Per non esser da nessuno osservato.

Brighella. (Oh che amor stravagante! Oh che zovene fatto all’antiga! Ai nostri dì5 se ne trova pochi de sta sorte de mammalucchi6). (s’avvia verso la peota [p. 309 modifica]

Florindo. Cara Rosaura, tu sei l’anima mia. Tu sei l’unica mia speranza. Oh, se sapessi quanto ti amo! (si ritira7
(I suonatori nella peota suonano il ritornello della canzonetta, e la donna dalla stessa peota canta la seguente canzonetta Veneziana8).

               Idolo del mio cuor,
                    Ardo per vu d’amor,
                    E sempre, o mia speranza,
                    S’avanza el mio penar.

                    Vorria spiegar, o cara,
                    La mia passion amara;
                    Ma un certo no so che...
                    No so, se m’intendè,
                    Fa che non so parlar.

               Quando lontana sè,
                    Quando no me vedè,
                    Vorria, senza parlarve,
                    Spiegarve el mio dolor;

                    Ma co ve son arente,
                    No son più bon da gnente.
                    Un certo no so che...
                    No so, se m’intendè,
                    Me fa serrar el cuor.

               Se in viso me vardè,
                    Fursi cognosserè
                    Quel barbaro tormento,
                    Che sento in tel mio sen.

                    Dissimular vorria
                    La cruda pena mia;
                    Ma un certo no so che...
                    No so, se m’intendè,
                    Me dise: el te vol ben.

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               Mio primo amor vu se,
                    E l’ultimo sarè,
                    E se ho da maridarme,
                    Sposarme vôi con vu;

                    Ma, cara,9 femo presto...
                    Vorave dir el resto,
                    Ma un certo no so che...
                    No so, se m’intendè,
                    No vuol che diga più.

               Peno la notte e ’l dì
                    Per vu sempre cussì,
                    Sta pena (se ho da dirla)
                    Soffrirla più no so.

                    Donca, per remediarla,
                    Cara, convien che parla:
                    Ma un certo no so che...
                    No so, se m’intendè,
                    Fa che parlar no so.

               Sento che dise amor:
                    Lassa sto to rossor,
                    E spiega quel tormento,
                    Che drento in cuor ti gh’ha.

                    Ma se a parlar me provo,
                    Parole più no trovo,
                    E un certo no so che...
                    No so, se m’intendè,
                    Pur troppo m’ha incantà10.

 (Frattanto che si canta la canzonetta, escono Lelio ed Arlecchino dalla locanda, e stanno godendo la serenata. Terminata la canzonetta, li suonatori suonano, e la peota parte.

Brighella11. Ela contenta? (piano a Fiorindo

Florindo. Sono contentissimo. [p. 311 modifica]

Brighella. Ela andada ben?

Florindo. Non poteva andar meglio.

Brighella. Ma siora Rosaura no sa chi gh’abbia fatto sta serenada.

Florindo. Ciò non m’importa: mi basta che l’abbia ella goduta.

Brighella. La vada in casa, la se fazza veder, la fazza almanco sospettar che sta finezza vegna da V. S.

Florindo. Il cielo me ne liberi. Anzi, per non dar sospetto di ciò, vo per di qua. Faccio un giro, ed entro in casa per l’altra porta12. Vieni con me.

Brighella. Vegno dove la vol.

Florindo. Questo è il vero amore. Amar senza dirlo. (partono

SCENA II.

Lelio e Arlecchino, Rosaura e Beatrice sul terrazzino.

Lelio. Che ne dici, Arlecchino, eh? Bel paese ch’è questa Venezia! In ogni stagione qui si godono divertimenti. Ora che il caldo chiama di nottetempo al respiro, si godono di queste bellissime serenate.

Arlecchino.b Mi sta serenada no la stimo un soldo.

Lelio. No? perchè?

Arlecchino. Perchè me piase le serenade, dove se canta e se magna.

Lelio. Osserva, osserva, Arlecchino, quelle due signore che sonò su quel terrazzino. Le ho vedute anche dalla finestra della mia camera, e benchè fosse nell’imbrunir della sera, mi parvero belle.

Arlecchino. Per vussioria tutte le donne le son belle a un modo. Anca la siora Cleonice in Roma la ve pareva una stella, e adesso l’avi lassada.

Lelio. Non me ne ricordo nemmeno più. Stando tanto quelle [p. 312 modifica] signore sul terrazzino, mi do a credere che non sieno delle più ritirate. Voglio tentar la mia sorte.

Arlecchino. Con patto che ghe disè13 ogni quattro parole diese busie.

Lelio. Sei un impertinente.

Arlecchino. Faressi meio andar a casa del sior Pantalon vostro padre.

Lelio. Egli è in campagna. Quando verrà a Venezia, andrò a stare con lui.

Arlecchino. E intanto volè star alla locanda.

Lelio. Sì, per godere la mia libertà. È tempo di fiera14, tempo d’allegria: sono vent’anni che manco dalla mia cara patria. Osserva come al chiaro della luna paiono brillanti quelle due signore. Prima d’inoltrarmi a parlar con esse, bramerei sapere chi sono. Fa una cosa, Arlecchino, va alla locanda, e chiedi ad alcuno de’ camerieri chi sono, e se son belle, e come si chiamano.

Arlecchino. Per tutta sta roba ghe vol un mese.

Lelio. Va, sbrigati, e qui ti attendo.

Arlecchino. Ma sto voler cercar i fatti di altri...

Lelio. Non far che la collera mi spinga a bastonarti.

Arlecchino. Per levarghe l’incomodo, vado a servirla. (entra in locanda

Lelio. Vo’ provarmi, se mi riesce in questa sera profittar di una nuova avventura. (va passeggiando

Rosaura. È vero, sorella, è vero; la serenata non poteva essere più magnifica.

Beatrice. Qui d’intorno non mi pare vi sieno persone che meritino tanto, onde mi lusingo che sia stata fatta per noi.

Rosaura. Almeno si sapesse per quale di noi, e da chi sia stata ordinata.

Beatrice. Qualche incognito amante delle vostre bellezze.

Rosaura. O piuttosto qualche segreto ammiratore del vostro merito. [p. 313 modifica]

Beatrice. Io non saprei a chi attribuirla. Il signore Ottavio par di me innamorato, ma s’egli avesse fatta fare la serenata, non si sarebbe15 celato.

Rosaura. Nemmen io saprei sognarmi l’autore. Fiorindo non può essere. Più volte ho procurato dirgli16 qualche dolce parola, ed egli si è sempre mostrato nemico d’amore.

Beatrice17. Vedete colà un uomo che passeggia?

Rosaura18. Sì, e al lume di luna pare ben vestito.

Lelio. (Arlecchino non torna; non so chi sieno, nè come regolarmi. Basta, starò sui termini generali). (da sè, passeggiando

Rosaura. Ritiriamoci.

Beatrice. Che pazzia! Di che avete paura?

Lelio. Gran bella serenità di cielo! Che19 notte splendida e quieta! Mah! Non è maraviglia, se il cielo splende più dell’usato, poichè viene illuminato da due vaghissime stelle. (verso il terrazzino

Rosaura. (Parla di noi). (a Beatrice

Beatrice. (Bellissima20! Ascoltiamo). (a Rosaura

Lelio. Non vi è pericolo che l’umido raggio della luna ci offenda, poichè due soli ardenti riscaldano l’aria.

Beatrice. (O è qualche pazzo, o qualche nostro innamorato). (a Rosaura

Rosaura. (Pare un giovine molto ben fatto, e parla assai bene). (a Beatrice

Lelio. Se non temessi la taccia di temerario, ardirei augurare a lor signore la buona notte.

Rosaura. Anzi ci fa onore21.

Lelio. Stanno godendo il fresco? Veramente la stagion lo richiede.

Beatrice. Godiamo questo poco di libertà, per l’assenza di nostro padre.

Lelio. Ah, non è in città il loro genitore?

Beatrice. No, signore.

Rosaura. Lo conosce ella nostro padre? [p. 314 modifica]

Lelio. Oh, è molto mio amico. Dove è andato, se è lecito saperlo?

Rosaura. A Padova, per visitar un infermo.

Lelio. (Sono figlie d’un medico). (da sè) Certo è un grand’uomo il signor Dottore: è l’onore del nostro secolo.

Rosaura. Tutta bontà di chi lo sa compatire. Ma in grazia, chi è ella che ci conosce, e non è da noi conosciuto?

Lelio. Sono un adoratore del vostro merito.

Rosaura. Del mio?

Lelio. Di quello di una di voi, mie signore.

Beatrice. Fateci l’onore di dirci di qual di noi v’intendiate.

Lelio. Permettetemi che tuttavia tenga nascosto un tale arcano. A suo tempo mi spiegherò.

Rosaura. (Questo vorrà una di noi per consorte). (a Beatrice

Beatrice. (Sa il cielo a chi toccherà tal fortuna). (a Rosaura

SCENA III.

Arlecchino dalla locanda, e detti.

Arlecchino. Dov el andà? (cercando Lelio

Lelio. (E bene, sai tu il loro nome?) (piano ad Arlecchino, incontrandolo

Arlecchino. (So tutto. El camerier m’ha dito tutto).

Lelio. (Presto).

Arlecchino. (Le son fie d’un certo....)

Lelio. (Non voglio saper questo. Dimmi il loro nome).

Arlecchino. (Adesso. So pader l’è un medico).

Lelio. (Lo so. Dimmi il loro nome, che tu sia maledetto).

Arlecchino. (Una se chiama Rosaura, e l’altra Beatrice).

Lelio. (Basta così). (torna sotto al terrazzino) Perdonino, Ho data una commissione al mio servitore.

Rosaura. Ma voi siete veneziano, o pur forestiere?

Lelio. Sono un cavaliere napolitano.

Arlecchino. (Cavaliere e napolitano? Do busìec in t’una volta). (da sè [p. 315 modifica]

Rosaura. Ma come ci conoscete?

Lelio. Sarà ormai un anno, ch’io albergo incognito in questa città.

Arlecchino. (Semo arrivadi ier sera). (da sè

Lelio. Appena arrivato, mi si presentarono agli occhi le bellezze della signora Rosaura e della signora Beatrice. Stetti22 qualche tempo dubbioso a chi dovessi donar il cuore, sembrandomi tutte due esserne degne, ma finalmente sono stato costretto a dichiararmi...

Rosaura. Per chi?

Lelio. Questo è quello che dir non posso per ora.

Arlecchino. (Se le ghe tenderà, el le torrà tutte do). (da sè

Beatrice. Ma perchè avete renitenza a spiegarvi?

Lelio. Perchè temo prevenuta quella beltà ch’io desidero.

Rosaura. Io vi assicuro che non ho amanti.

Beatrice. Nemmen io sono con alcuno impegnata.

Arlecchino. (Do piazze vacanti! l’è la vostra fortuna). (a Lelio, piano

Lelio. Però si fanno le serenate sotto le vostre finestre.

Rosaura. Vi giuro sull’onor mio, che non ne sappiamo l’autore.

Beatrice. Il cielo mi fulmini, se mi è noto chi l’abbia fatta.

Lelio. Lo credo anch’io che non lo saprete. Ma veramente avreste curiosità di saperlo?

Rosaura. Io ne muoio di volontà.

Beatrice. Siamo donne, e tanto basta.

Lelio. Orsù, vi leverò io di queste pene. La serenata che avete goduta, è un piccolo testimonio di quell’affetto ch’io nutro per la mia bella.

Arlecchino. (Oh maledettissimo! Che boccon de carota!) (da sè.

Rosaura. E non volete dire per chi?

Lelio. No certamente. Avete voi sentita quella canzonetta, ch’io feci cantare? Non parlava ella d’un amante segreto e timido? Quello appunto son io.

Rosaura. Se dunque alcuna di noi non vi ringrazia, imputatelo a [p. 316 modifica] voi stesso, che non volete dichiarare a chi sieno stati diretti i vostri favori.

Lelio. Non merita ringraziamenti una tenue dimostrazione di stima. Se avrò l’onore di servire scopertamente quella ch’io amo, farò stupire Venezia per il buon gusto, con cui soglio dare i divertimenti.

Arlecchino. (E un de sti dì23 s’impegna i abiti, se no vien so padre). (da sè

Rosaura. (Sorella, questo è un cavalier molto ricco). (a Beatrice

Beatrice. (Non sarà per me. Son troppo sfortunata), (a Rosaura

Rosaura. Signore, favoritemi almeno il vostro nome.

Lelio. Volentieri. Don Asdrubale de’ Marchesi di Castel d’Oro.

Arlecchino. (Nomi e cognomi no ghe ne manca).24 (da sè

Beatrice. (Ritiriamoci. Non ci facciamo credere due civette). (a Rosaura

Rosaura. (Dite bene. Usiamo prudenza). Signor Marchese, con sua licenza, l’aria principia a offenderci il capo.

Lelio. Volete già ritirarvi?

Beatrice. Una vecchia di casa ci sollecita, perchè andiamo al riposo.

Lelio. Pazienza! Resto privo di un gran contento.

Rosaura. In altro tempo goderemo le vostre grazie.

Lelio. Domani, se il permettete, verrò in casa a riverirvi.

Arlecchino. (Sì, a drettura in casa). (da sè

Rosaura. Oh, bel bello, signor amante timido. In casa non si viene con questa facilità.

Lelio. Almeno vi riverirò alla finestra.

Rosaura. Sin qui ve lo concediamo.

Beatrice. E se vi dichiarerete, sarete ammesso a qualche cosa di più.

Lelio. Al ritorno del signor Dottore, ne parleremo. Intanto...

Rosaura. Signor Marchese, la riverisco. (entra

Beatrice. Signor Asdrubale, le son serva. (entra [p. 317 modifica]

SCENA IV25.

Lelio ed Arlecchino.

Arlecchino. Signor napolitano, ghe baso la man. (a Lelio, ridendo

Lelio. Che ne dici? Mi sono portato bene?

Arlecchino. Mi no so come diavolo fe a inventarve tante filastrocche, a dir tante busìe senza mai confonderve.

Lelio. Ignorante! Queste non sono bugie; sono spiritose invenzioni, prodotte dalla fertilità del mio ingegno pronto e brillante. A chi vuol godere il mondo, necessaria è la franchezza, e non s’hanno a perdere le buone occasioni26. (parte

SCENA V.

Arlecchino, poi Colombina sul terrazzino.

Arlecchino. No vedo l’ora che vegna a Venezia so padre, perchè sto matto el se vol precipitar.

Colombina27. Ora che le padrone vanno a letto, posso anch’io prendere un poco d’aria.

Arlecchino. Un’altra femena sul terrazzin! No la me par nissuna de quelle do.

Colombina. Un uomo passeggia e mi guarda; sarebbe tempo che anch’io, poverina, trovassi la mia fortuna.

Arlecchino. Vôi veder se me basta l’animo anca a mi d’infilzargliene quattro, sul gusto del mio padron.

Colombina. In verità, che si va accostando.

Arlecchino. Riverisco quel bello che anche di notte risplende, e non veduto innamora.d [p. 318 modifica]

Colombina. Signore, chi siete voi?

Arlecchino. Don Piccaro di Catalogna.

Colombina. (Il don è titolo di cavaliere).

Arlecchino. Son uno che more, spasima e diventa matto per voi.

Colombina. Ma io non vi conosco.

Arlecchino. Sono un amante timido e vergognoso.

Colombina. Con me può parlare con libertà, mentre sono una povera serva.

Arlecchino. (Serva! Giusto un bon negozio28 per mi), (da se) Ditemi, bella servetta, avete voi sentita a cantare quella canzonetta?

Colombina. Sì signore, l’ho sentita.

Arlecchino. Sapete chi l’ha cantata?

Colombina. Io no certamente.

Arlecchino. L’ho cantata io.

Colombina. La voce pareva di donna.

Arlecchino. Io ho l’abilità di cantare in tutte le voci. I miei acuti vanno due ottave fuori del cembalo.

Colombina. Era veramente una bella canzonetta amorosa.

Arlecchino. L’ho composta io.

Colombina. È anche poeta?

Arlecchino. Ho succhiato anch’io il latte di una mussae.

Colombina. Ma perchè ha fatto tutte queste fatiche?

Arlecchino. Per voi, mia cara, per voi.

Colombina. Se credessi dicesse il vero, avrei occasione d’insuperbirmi.

Arlecchino. Credetelo, ve lo giuro per tutti i titoli della mia nobiltà.

Colombina. Vi ringrazio di tutto cuore.

Arlecchino. Mia bella, che non farei per le vostre luci vermiglie?

Colombina. Vengo, vengo. Signore, le mie padrone mi chiamano.

Arlecchino. Deh, non mi private delle rubiconde tenebri della vostra bellezza. [p. 319 modifica]

Colombina. Non posso più trattenermi.

Arlecchino. Ci rivedremo.

Colombina. Sì, ci rivedremo. Signor don Piccaro, vi riverisco. (entra

Arlecchino. Gnanca mi no m’ho portà mal. Dise ben el proverbi, che chi sta col lovo, impara a urlar. Faria tort al me padron, se andass via dal so servizio, senza aver impara a dir centomille busie. (va in locanda

SCENA VI.

Giorno.

Florindo e Brighella.

Brighella. Ecco qua: tutta la notte in serenada, e po la mattina a bonora fora de casa. L’amor, per quel che vedo, ghe leva el sonno.

Florindo. Non ho potuto dormire, per la consolazione recatami dal bell’esito della mia serenata.

Brighella. Bella consolazion! Aver speso i so bezzi, aver perso la notte, senza farsi merito colla morosa!

Florindo. Bastami che Rosaura l’abbia goduta. Io non ricerco di più.

Brighella. La se contenta de troppo poco.

Florindo. Senti, Brighella, intesi dire l’altr’ieri dalla mia cara Rosaura, ch’ella aveva desiderio d’avere un fornimento di pizzi di seta29; ora che siamo in occasione di fiera, voglio io provvederglieli, e farle questo regalo.

Brighella. Ben, e co sta occasion la poderà scomenzar a introdur el discorso, per discovrirghe el so amor.

Florindo. Oh, non glieli voglio dar io. Caro Brighella, ascoltami e fa quanto ti dico, se mi vuoi bene. Prendi questa borsa, in cui vi sono dieci30 zecchini; va in Merceria31, compra quaranta32 braccia di pizzi de’ più belli che aver si possono, a mezzo [p. 320 modifica] filippo33 al braccio. Ordina al mercante che li faccia avere a Rosaura, ma con espressa proibizione di svelar chi li manda34.

Brighella. Diese zecchini buttadi via.

Florindo. Perchè?

Brighella. Perchè no savendo la siora Rosaura da chi vegna el regalo, non l’averà nè obbligazion, nè gratitudine con chi la regala.

Florindo. Non importa, col tempo lo saprà. Per ora voglio acquistar merito senza scoprirmi.

Brighella. Ma come avì fatto a unir sti diese zecchini?

Florindo. Fra le mesate, che mi manda da Bologna mio padre, e qualche incerto delle visite, ch’io vo facendo in luogo del mio principale.

Brighella. Se unisce tutto, e se butta via35.

Florindo. Via, Brighella, va subito a farmi questo piacere. Oggi è il primo giorno di fiera: vorrei ch’ella avesse i pizzi avanti l’ora di pranzo.

Brighella. No so cossa dir, lo fazzo de mala voia, ma lo servirò.

Florindo. Avverti che sieno belli.

Brighella. La se fida de mi.

Florindo. Ti sarò eternamente obbligato.

Brighella. (Co sti diese zecchini, un omo de spirito el goderia mezzo mondo). (parte

SCENA VII.

Florindo, poi Ottavio.

Florindo. Ecco lì quel caro terrazzino, a cui s’affaccia il mio bene. S’ella ora venisse, mi pare che vorrei azzardarmi di dirle qualche parola. Le direi, per esempio... [p. 321 modifica]

Ottavio36. (Sopraggiunge dalla parte opposta al terrazzino, e sta osservando Fiorindo.

Florindo. Sì, le direi: Signora, io37 vi amo teneramente: non posso vivere senza di voi; siete l’anima mia. Cara, movetevi a compassione di me. (si volta, e vede Ottavio) (Oimè, non vorrei che mi avesse veduto). (da sè) Amico, che dite voi della bella architettura di quel terrazzino?

Ottavio. Bellissimo; ma ditemi, in grazia, siete voi architetto o ritrattista?

Florindo. Che cosa volete voi38 dire?

Ottavio. Voglio dire se siete qui per copiare il disegno del terrazzino39, o il bel volto delle padrone di casa.

Florindo. Io non so quel che voi vi diciate40.

Ottavio. Benchè con più comodo, potete ritrarle in casa.

Florindo. Io attendo alla mia professione. Fo il medico, e non il pittore.

Ottavio. Caro amico, avete voi sentita la serenata, che fu fatta in questo canale la scorsa notte?

Florindo. Io vado a letto per tempo. Non so di serenate.

Ottavio. Eppure siete stato veduto passar di qui, mentre si cantava nella peota.

Florindo. Sarò passato a caso. Io non so nulla. Io non ho innamorate...

Ottavio. (Parmi che si confonda. Sempre più credo ch’ei ne sia stato l’autore). (da sè

Florindo. Signor Ottavio, vi riverisco.

Ottavio. Fermatevi per un momento. Sapete che siamo amici. Non mi nascondete la verità. Io amo la signora Beatrice, e a voi non ho difficoltà di svelarlo. Se voi amate la signora Rosaura, potrò io forse contribuire a giovarvi: se amate la signora Beatrice, son pronto a cederla, se ella vi preferisce.

Florindo. Vi torno a dire che io non faccio all’amore. Applico alla medicina e alla chirurgia, e non mi curo di donne. [p. 322 modifica]

Ottavio. Eppure non vi credo. Più volte vi ho sentito gettar de’ sospiri. Per la medicina non si sospira.

Florindo. Orsù, se non mi volete credere, non m’importa. Vi torno a dire che io non amo donna veruna, e se guardavo quella finestra, erano attratti i miei lumi dalla vaghezza del suo disegno. (guarda le finestre41, e parte

SCENA VIII.

Ottavio, poi Lelio.

Ottavio. Senz’altro è innamorato42, e non volendolo a me confidare, temo che sia la sua diletta Beatrice43. Se la scorsa notte foss’io stato alla locanda, e non l’avessi perduta miseramente al giuoco, avrei veduto Florindo, e mi sarei d’ogni dubbio chiarito; ma aprirò gli occhi, e saprò svelare la verità.

Lelio44. Che vedo! Amico Ottavio. (uscendo dalla locanda

Ottavio. Lelio mio dilettissimo.

Lelio. Voi qui?

Ottavio. Voi ritornato alla patria?

Lelio. Sì, vi giunsi nel giorno di ieri.

Ottavio. Come avete voi fatto a lasciar Napoli, dove eravate ferito da cento strali amorosi?

Lelio. Ah, veramente sono di là con troppa pena partito, avendo lasciate tante bellezze da me trafitte. Ma appena giunto in Venezia, le belle avventure che qui mi sono accadute, m’hanno fatto scordare tutte le bellezze napoletane.

Ottavio. Mi rallegro con voi. Sempre fortunato in amore.

Lelio. La fortuna qualche volta sa far giustizia, e amore non è sempre cieco.

Ottavio. Già si sa; è il vostro merito, che vi arricchisce di pellegrine conquiste.

Lelio. Ditemi, siete voi pratico di questa città?

Ottavio. Qualche poco. Sarà un anno che vi abito. [p. 323 modifica]

Lelio. Conoscete voi quelle due sorelle, che abitano in quella casa?

Ottavio. (Voglio scoprir terreno). (da sè) Non le conosco.

Lelio. Amico, sono due belle ragazze. Una ha nome Rosaura, e l’altra Beatrice; sono figlie di un dottore di medicina, e tutte due sono innamorate di me.

Ottavio. Tutt’e due?

Lelio. Sì, tutt’e due. Vi par cosa strana?

Ottavio. Ma come avete fatto a innamorarle sì presto?

Lelio. Appena mi videro, furono esse le prime a farmi un inchino, e m’invitarono a parlar seco loro.

Ottavio. (Possibile che ciò sia vero!) (da sè

Lelio. Pochissime delle mie parole bastarono per incantarle, e tutt’e due mi si dichiararono amanti.

Ottavio. Tutt’e due?

Lelio. Tutt’e due.

Ottavio. (Fremo di gelosia). (da sè

Lelio. Volevano ch’io entrassi in casa...

Ottavio. (Anco di più!) (da sè

Lelio. Ma siccome si avvicinava la sera, mi venne in mente di dar loro un magnifico divertimento, e mi licenziai45.

Ottavio. Avete forse fatto fare una serenata?

Lelio. Per l’appunto. Lo sapete anche voi?

Ottavio. Sì, mi fu detto. (Ora ho scoperto l’autore della serenata; Fiorindo ha ragione). (da sè

Lelio. Ma non terminò colla serenata il divertimento della scorsa notte.

Ottavio. Bravo, signor Lelio, che faceste di bello? (con ironia

Lelio. Smontai dalla peota, feci portar in terra da’ miei servidori una sontuosa cena, e impetrai dalle due cortesi sorelle l’accesso in casa, ove si terminò la notte fra i piatti e fra le bottiglie.

Ottavio. Amico, non per far torto alla vostra onestà, ma giudicando che vogliate divertirvi meco, sospendo di credere ciò che mi avete narrato. [p. 324 modifica]

Lelio. Che? vi paiono cose estraordinarie? Che difficoltà avete a crederlo?

Ottavio. Non è cosa tanto ordinaria che due figlie oneste e civili, mentre il loro genitore è in campagna, aprano la porta di notte46 ad uno che può passare per forestiere, e permettano che in casa loro si faccia un tripudio.

SCENA IX47.

Arlecchino e detti.

Lelio. Ecco il mio servo. Ricercatelo minutamente, se è vero quanto vi dissi.

Ottavio. (Sarebbe un gran caso che avessero commessa una simile debolezza!) (da sè

Lelio. Dimmi un poco, Arlecchino, dove sono stato la scorsa notte?

Arlecchino. A chiappar i freschi.

Lelio. Non ho parlato io sotto quel terrazzino con due signore?

Arlecchino. Gnor sì, l’è vera.

Lelio. Non ho fatta fare una serenata?

Arlecchino. Siguro, e mi ho cantà la canzonetta.

Lelio. Dopo non abbiamo fatto la cena?

Arlecchino. La cena?...

Lelio. Sì, la gran cena in casa della signora Rosaura e della signora Beatrice. (gli fa cenno che dica di sì

Arlecchino. Sior sì, dalla siora Rosaura e dalla siora Beatrice.

Lelio. Non fu magnifica quella cena?

Arlecchino. E che magnada che avemo dà!

Lelio. Sentite? Eccovi confermata ogni circostanza. (ad Ottavi)

Ottavio. Non so che ripetere: siete un uomo assai fortunato.

Lelio. Non dico per dire, ma la fortuna non è il primo motivo delle mie conquiste.

Ottavio. Ma da che derivano queste? [p. 325 modifica]

Lelio. Sia detto colla dovuta modestia, da qualche poco di merito.

Ottavio. Sì, ve l’accordo. Siete un giovine di brio, manieroso; a Napoli ho avuto occasione di ammirare il vostro spirito: ma innamorar due sorelle così su due piedi... mi par troppo.

Lelio. Eh amico! ne vedrete delle più belle.

Ottavio. Sono schiavo del vostro merito e della vostra fortuna. A miglior tempo ci godremo. Ora, se mi date licenza, devo andare nella mia camera a prendere del denaro, per pagare la perdita della scorsa notte. (s'incammina verso la locanda

Lelio. Dove siete alloggiato?

Ottavio. In quella locanda.

Lelio. (Oh diavolo!) (da sè) Alloggio anch’io nella locanda istessa, ma nè ieri, nè la notte passata vi ho qui veduto.

Ottavio. Andai a pranzo fuori di casa, ed ho giuocato tutta la notte.

Lelio. Siete qui da tanto tempo alloggiato e non conoscete quelle due signore?

Ottavio. Le conosco di vista, ma non ho seco loro amicizia. (Non vo’ scoprirmi). (da sè

Lelio. Sentite: se mai v’incontraste a parlare con esse, avvertite non far loro nota la confidenza che a voi ho fatta. Sono cose che si fanno segretamente. Ad altri che a un amico di cuore, non le avrei confidate.

Ottavio. Amico, a rivederci.

Lelio. Vi sono schiavo.

Ottavio. (Non mi sarei mai creduto che Rosaura e Beatrice avessero così poca riputazione). (da sè, entra in locanda

SCENA X48.

Lelio ed Arlecchino.

Arlecchino. Sior padron, se farè49 cussì, s’imbroieremo.

Lelio. Sciocco che sei, secondami e non pensar altro. [p. 326 modifica]

Arlecchino. Femo50 una cossa. Quando volì dir qualche busìa...

Lelio. Asinaccio! Qualche spiritosa invenzione.

Arlecchino. Ben. Quando volì dir qualche spiritosa invenzion, feme un segno, acciò che anca mi possa segondar la spiritosa invenzion.

Lelio. Questa tua goffaggine m’incomoda infinitamente.

Arlecchino. Fe cussì51, quando volì che segonda, tirè un stranudo52.

Lelio. Ma vi vuol tanto a dir come dico io?

Arlecchino. Me confondo. No so quando abbia da parlar e quando abbia da taser.

SCENA X53.

Rosaura e Colombina mascherate, di casa, e detti.

Lelio. Osserva, Arlecchino, quelle due maschere che escono di quella casa.

Arlecchino. Semio de carneval?

Lelio. In questa città, il primo giorno della fiera54 si fanno maschere ancor di mattina.

Arlecchino. Chi mai sarale?

Lelio. Assolutamente saranno le due sorelle, colle quali ho parlato la scorsa notte.

Arlecchino. Sti mustazzi coverti l’è una brutta usanza.

Lelio. Signore, non occorre celar il volto per coprire le vostre bellezze, mentre la luce tramandata da’ vostri occhi bastantemente vi manifesta55.

Rosaura. Anco questa? (accennando Colombina

Lelio. Sono impegnato per ora a non distinguere il merito di una sorella da quello dell’altra.

Rosaura. Ma questa è la cameriera.

Arlecchino. Alto là, sior patron, questa l’è roba mia. [p. 327 modifica]

Lelio. Non è gran cosa ch’io abbia equivocato con due maschere.

Rosaura. Però i raggi delle luci di Colombina fanno nel vostro spirito l’istessa impressione de’ miei.

Lelio. Signora, ora che posso parlarvi con libertà, vi dirò che voi sola siete quella che attraete tutte le mie ammirazioni, che occupate intieramente il mio cuore, e se parlai egualmente della creduta vostra sorella, lo feci senza mirarla.

Rosaura. E mi distinguete da mia sorella, benchè mascherata?

Lelio. E come! Vi amerei ben poco, se non sapessi conoscervi.

Rosaura. E da che mi conoscete?

Lelio. Dalla voce, dalla figura, dall’aria nobile e maestosa, dal brio de’ vostri occhi e poi dal mio cuore, che meco non sa mentire.

Rosaura. Ditemi, in grazia, chi sono io?

Lelio. Siete l’idolo mio.

Rosaura. Ma il mio nome qual è?

Lelio. (Conviene indovinarlo). (da sè Rosaura.

Rosaura. Bravo! ora vedo che mi conoscete. (si scuopre

Lelio. (Questa volta la sorte mi ha fatto coglier nel vero), (da sè) Osserva, Arlecchino, che volto amabile! (piano ad Arlecchino

Arlecchino. (Crepo dalla curiosità de veder in tel babbiof quell’altra). (da sè

Rosaura. Posso veramente assicurarmi dell’amor vostro?

Lelio. Asdrubale non sa mentire. Vi amo, vi adoro, e quando mi è vietato il vedervi, non fo che da me stesso ripetere il vostro nome, lodar le vostre bellezze; di’ tu, non è vero? (ad Arlecchino

Arlecchino. (Se podesse veder quella mascheretta!) (da sè

Lelio. Rispondi, non è vero? (starnuta

Arlecchino. Sior sì, l’è verissimo.

Rosaura. Perchè dunque, se tanto mi amate, non vi siete finora spiegato?

Lelio. Vi dirò, mia cara. Il mio genitore voleva accasarmi a Napoli [p. 328 modifica] con una palermitana, ed io che l’aborriva anzi che amarla, mi assentai per non esser astretto alle odiose nozze. Scrissi a mio padre che, acceso delle vostre bellezze, vi desiderava in consorte, e solo ieri n’ebbi con lettera il di lui assenso.

Rosaura. Mi par difficile che vostro padre vi accordi che sposiate la figlia di un medico.

Lelio. Eppure è la verità. (starnuta

Arlecchino. Signora sì, la lettera l’ho letta mi.

Rosaura. Ma la dote che potrà darvi mio padre, non sarà corrispondente al merito della vostra casa.

Lelio. La casa di Castel d’Oro non ha bisogno di dote. Il mio genitore è un bravo economo. Sono venti anni che egli accumula gioje, ori, argenti per le mie nozze. Voi sarete una ricca sposa.

Rosaura. Rimango sorpresa, e le troppe grandezze che mi mettete in vista, mi fanno temere che mi deludiate per divertirvi.

Lelio. Guardimi il cielo, che io dica una falsità; non sono capace di alterare in una minima parte la verità. Da che ho l’uso della ragione, non vi è persona che possa rimproverarmi di una leggiera bugia. (Arlecchino ride) Domandatelo al mio servitore. (starnuta

Arlecchino. Signora sì; el me patron l’è la bocca della verità.

Rosaura. Quando potrò sperare veder qualche prova della verità che mi dite?

Lelio. Subito che ritorna vostro padre in Venezia.

Rosaura. Vedrò se veramente mi amate di cuor leale.

Lelio. Non troverete l’uomo più sincero di me.

SCENA XII56.

Un Giovine di merceria, con scatola di pizzi, e detti.

Giovine57. Questa mi par la casa del signor Dottore. (si accosta per battere

Rosaura. Chi domandate, quel giovine? [p. 329 modifica]

Giovine. Perdoni, signora maschera, è questa la casa del signor dottor Balanzoni?

Rosaura. Per l’appunto: che ricercate?

Giovine. Ho della roba da consegnare alla signora Rosaura, di lui figliuola.

Rosaura. Quella sono io. Che roba è? Chi la manda?

Giovine. Questi sono quaranta braccia di biondo58. Il mio padrone m’ha detto che viene a lei; ma nè egli, nè io sappiamo chi sia la persona che l’ha comprata.

Rosaura. Quand’è così, riportatela pure. Io non ricevo la roba, se non so da chi mi viene mandata.

Giovine. Io ho l’ordine di lasciargliela in ogni forma. Se non la vuol ricevere per la strada, batterò e la porterò in casa.

Rosaura. Vi dico che non la voglio assolutamente.

Giovine. È pagata: costa dieci59 zecchini.

Rosaura. Ma chi la manda?

Giovine. Non lo so, da giovine onorato.

Rosaura. Dunque non la voglio.

Lelio. Signora Rosaura, ammiro la vostra delicatezza. Prendete i pizzi senza riguardo, e poichè li ricusate per non sapere da qual mano vi vengono presentati, sono forzato a dirvi esser quei pizzi un piccolo testimonio della mia stima.

Giovine. Sente? Li ha comprati questo signore.

Arlecchino. (Si maraviglia.

Rosaura. Voi me li regalate? (a Lelio

Lelio. Sì, mia signora, e volevo aver il merito di farlo senza dirlo, per non avere il rossore di offerirvi una cosa così triviale.

Giovine. Sappia, signora, che di meglio difficilmente si trova.

Lelio. Io poi sono di buon gusto. Il mio denaro lo spendo bene.

Arlecchino. (Oh che galiotto!) (da sè

Rosaura. Gradisco sommamente le vostre grazie. Credetemi che quei pizzi mi sono cari all’eccesso. Per l’appunto li desideravo [p. 330 modifica] e li volevo comprare, non però così belli. Prendi, Colombina. Domani principierai a disporli pel fornimento. (Colombina riceve dal giovine la scatola

Giovine. Comanda altro? (a Lelio

Lelio. No, andate pure.

Giovine. Illustrissimo, mi dona la cortesia?

Lelio. Ci rivedremo.

Giovine. Signora, l’ho servita puntualmente. (a Rosaura

Rosaura. Aspettate, vi darò la mancia...

Lelio. Mi meraviglio. Farò io.

Giovine. Grazie infinite. Son qui da lei. (a Lelio


Lelio. Andate, che ci rivedremo.

Giovine. (Ho inteso, non lo vedo mai più).60(parte

SCENA XIII.

Lelio, Rosaura e Arlecchino.

Rosaura. Se mi date licenza, torno in casa.

Lelio. Non volete ch’io abbia l’onore di servirvi?

Rosaura. Per ora no. Uscii mascherata solo per vedervi e parlarvi, e sentire da voi chi era la fortunata favorita dalla vostra predilezione. Ora tutta lieta me ne ritorno dentro.

Lelio. Vi portate con voi il mio cuore.

Rosaura. A mia sorella che dovrò dire?

Lelio. Per ora non vi consiglio scoprire i nostri interessi.

Rosaura. Tacerò, perchè m’insinuate di farlo.61

Lelio. Sposina, amatemi di buon cuore.

Rosaura. Sposa? Ancor ne dubito.

Lelio. Le mie parole sono contratti.

Rosaura. Il tempo ne sarà giudice. (entra in casa

Colombina. (Quel morettino mi pare quello che parlò meco sta notte, ma l’abito non è di don Piccaro. Or ora, senza soggezione, mi chiarirò).62 (entra in casa [p. 331 modifica]

SCENA XIV.

Lelio ed Arlecchino, poi Colombina.

Arlecchino. Sia maladetto, l’è andada via senza che la possa veder in fazza.

Lelio. Che dici della bellezza di Rosaura? Non è un capo d’opera?

Arlecchino. Ela l’è un capo d’opera de bellezza, e V. S. un capo d’opera per le spiritose invenzion.

Lelio. Dubito ch’ella abbia qualche incognito amante, il quale aspiri alla sua grazia e non ardisca di dirlo.

Arlecchino. E vu mo, prevalendove dell’occasion, supplì alle so mancanze.

Lelio. Sarei pazzo, se non mi approfittassi d’una sì bella occasione.

Colombina63 (Torna a uscire di casa, senza maschera.

Arlecchino. Oe, la cameriera torna in strada. La mia, in materia de muso, no la gh’ha gnente d’invidià della vostra.

Lelio. Se puoi, approfittati; se fai breccia, procura ch’ella cooperi colla sua padrona per me.

Arlecchino. Insegneme qualche busìa.

Lelio. La natura a tutti ne somministra.

Arlecchino. Signora, se non m’inganno, ela è quella de sta notte.

Colombina. Sono quella di questa notte, quella di ieri e quella che ero già vent’anni.

Arlecchino. Brava, spiritosa! Mi mo son quello che sta notte gh’ha dito quelle belle parole.

Colombina. Il signor don Piccaro?

Arlecchino. Per servirla.

Colombina. Mi perdoni, non posso crederlo. L’abito che ella porta, non è da cavaliere.

Arlecchino. Son cavaliere, nobile, ricco e grande; e se non lo credete, domandatelo a questo mio amico. (starnuta verso Lelio

Colombina. Evviva. [p. 332 modifica]

Arlecchino. Obbligatissimo. (Sior patron, ho stranudado). (piano a Lelio

Lelio. (Sbrigati e vieni meco). (piano ad Arlecchino

Arlecchino. (Ve prego, conferme anca vu le mie spiritose invenzion). (piano a Lelio

Colombina. Di che paese è, mio signore? (ad Arlecchino

Arlecchino. Io sono dell’alma città di Roma. Sono imparentato coi primi cavalieri d’Europa, ed ho i miei feudi nelle quattro parti del mondo. (starnuta forte

Colombina. Il ciel l’aiuti!

Arlecchino. Non s’incomodi, ch’è tabacco. (Gnanca per servizio?) (piano a Lelio

Lelio. (Le dici troppo pesanti).

Arlecchino. (Gnanca le vostre non le son liziere).

Colombina. Il signor Marchese, che ama la mia padrona, l’ha regalata; se V. S. facesse stima di me, farebbe lo stesso.

Arlecchino. Comandate. Andate in fiera, prendete quel che vi piace, ch’io pagherò; e disponete sino ad un mezzo milione.

Colombina. Signor don Piccaro, è troppo grossa.64 (entra in casa

SCENA XV.

Lelio ed Arlecchino.

Lelio. Non te l’ho detto? Sei un balordo.

Arlecchino. Se l’ho65 da sbarar, tanto serve metter man al pezzo più grosso.

Lelio. Orsù, sieguimi: voglio andar nell’albergo. Non vedo l’ora di vedere Ottavio, per raccontargli questa nuova avventura.

Arlecchino. Me par a mi che no sia troppo ben fatto raccontar tutti i fatti soi.

Lelio. Il miglior piacer dell’amante è il poter raccontare con vanità i favori della sua bella.

Arlecchino. E con qualche poco de zonta. [p. 333 modifica]

Lelio. Il racconto delle avventure amorose non può aver grazia senza un po’ di romanzo. (entra in locanda

Arlecchino. Evviva le spiritose invenzion. (entra in locanda

SCENA XVI66

Una gondola condotta da due barcaiuoli, dalla quale sbarcano Pantalone e il Dottore, vestiti da campagna.

Dottore67. Grazie al cielo, siamo arrivati felicemente.

Pantaloneg. Dalla Mira a Venezia no se pol vegnir più presto de quel che semo vegnui.

Dottore. Questo per me è stato un viaggio felicissimo. In primo luogo sono stato a Padova, dove in tre consulti ho guadagnato dieci zecchini. Questa notte sono stato in casa vostra trattato in Apolline, e poi soprattutto il matrimonio che abbiamo concluso fra il signor Lelio, vostro figlio, e Rosaura, mia figlia, mi colma d’allegrezza e di consolazione.

Pantalone. Xe tanti anni che semo amici, ho gusto che deventemo parenti.

Dottore. Quando credete che vostro figlio possa arrivare in Venezia?

Pantalone. Coll’ultima lettera ch’el m’ha scritto da Roma, el me dise che el parte subito. Ancuoh o doman l’averave 68 da esser qua.

Dottore. Ditemi, caro amico, è poi un giovane ben fatto?69 Mia figlia sarà in grado di esser contenta?

Pantalone. Mi veramente xe vinti anni che no lo vedo. De dies’anni l’ho manda a Napoli da un mio fradello, col qual negozievimo insieme. [p. 334 modifica]

Dottore. Se lo vedeste, non lo conoscereste?

Pantalone. Siguro, perchè el xe andà via puttello. Ma per le relazion ch’ho avude de elo, l’è un zovene de proposito, de bona presenza e de spirito.

Dottore. Ho piacere. Tanto più mia figlia sarà contenta.

Pantalone. Xe assae che no l’abbiè maridada avanti d’adesso.

Dottore. Vi dirò la verità. Ho in casa uno scolaro del mio paese, un certo signor Fiorindo, giovine di buona casa e d’ottimi costumi. Io ho sempre desiderato di darla a lui per moglie, ma finalmente mi sono assicurato ch’è contrarissimo al matrimonio70 e nemico del sesso femminino, onde ho risoluto di collocarla in qualch’altra casa. Finalmente son venuto da voi, e in quattro parole abbiamo concluso il miglior negozio di questo mondo.

Pantalone. E siora Beatrice la voleu maridar?

Dottore. Ora che marito Rosaura, se posso, voglio spicciarmi anche di lei.

Pantalone. Farè ben. Le putte in casa, specialmente co no gh’è la madre, no le sta ben.

Dottore. Vi è un certo signor Ottavio, cavalier padovano, che la prenderebbe, ma sin ad ora non ho voluto che la maggiore restasse indietro. Ora può darsi che gliela dia.

Pantalone. Sior Ottavio lo cognosso: cognosso so sior parei e tutta la so casa. Dèghela, che fe un bon negozio.

Dottore. Tanto più gliela darò, perchè voi mi date questo consiglio. Signor Pantalone, vi ringrazio d’avermi fatto condurre sin qui dalla vostra gondola. Vado in casa, vado a principiare il discorso a tutte due le mie figlie, ma specialmente a Rosaura, che, se non m’inganno, parmi di vedere in quegli occhi una grand’inclinazione al matrimonio. (apre la porta, ed entra in casa [p. 335 modifica]

SCENA XVII71.

Pantalone solo.

Sta inclinazion ghe xe poche putte72 che no la gh’abbia. Chi per meggiorar condizion, chi per aver un poco più de libertà, chi per non dormir sole, no le vede l’ora de maridarse.

SCENA XVIII.

Lelio ed un Vetturino dalla locanda, e detto.

Vetturino. Mi maraviglio di lei, che non si vergogni darmi un zecchino di mancia da Napoli sino a Venezia.

Lelio. La mancia è cortesia, e non è obbligo: e quando ti do un zecchino, intendo trattarti bene.

Vetturino. Le mance sono il nostro salario. Da Napoli a qui, mi aspettavo almeno tre zecchini.

Pantalone. (Sto zentilomo vien da Napoli, chi sa che no l’abbia visto mio fioj). (da sè

Lelio. Orsù, se vuoi lo zecchino, bene; se no, lascialo, e ti darò in cambio una dozzina di bastonate.

Vetturino. Se non fossimo a Venezia, le farei vedere quel che sono73 i vetturini napoletani.

Lelio. Vattene74, e non mi rompere il capo.

Vetturino. Ecco cosa si guadagna a servire questi pidocchiosi. (parte

Lelio. Temerario! Ti romperò le braccia. (È meglio lasciarlo andare). (da sè

Pantalone. (Che el fusse elo mio fio?) (da sè

Lelio. Vetturini! Non si contentano mai. Vorrebbero potere scorticare il povero forastiere.

Pantalone. (Voggio assicurarne con bona maniera, per no fallar). (da sè) Lustrussimo, la perdona l’ardir, vienla da Napoli? [p. 336 modifica]

Lelio. Sì signore.

Pantalone. A Napoli gh’ho dei patroni e dei amici assae; carteggio con molti cavalieri; se mai vussustrissima fosse un de quelli, sarave mia fortuna el poderla servir.

Lelio. Io sono il Conte d’Ancora per servirvi.

Pantalone. (Cancarazzo! Nol xe mio fio. M’aveva ingannà). (da sè) La perdona, lustrissimo sior Conte, l’ardir; hala cognossù in Napoli un certo sior Lelio Bisognosi?

Lelio. L’ho conosciuto benissimo: anzi era molto mio amico. Un giovane veramente di tutto garbo, pieno di spirito, amato, adorato da tutti. Le donne gli corrono dietro, egli è l’idolo di Napoli, e quello che è più rimarcabile, è d’un cuore schietto e sincero, ch’è impossibile che egli non dica sempre la verità.

Pantalone. (Cielo75, te ringrazio). (da sè) El me consola con ste bone notizie. Me vien da pianzer dall’allegrezza.

SCENA XIX76.

Ottavio dalla locanda, e detti.

Ottavio. Signore, mi rallegro delle vostre consolazioni, (a Pantalone

Pantalone. De cossa, sior Ottavio, se rallegrela con mi?

Ottavio. Dell’arrivo di vostro figlio.

Pantalone. El xe arrivà? Dove xelo?

Ottavio. Bellissima! Non è qui il signor Lelio a voi presente?

Lelio. (Questi è mio padre? L’ho fatta bella). (da sè

Pantalone. Come? Sior conte d’Ancora? (verso Lelio

Lelio. Ah, ah, ah. (ridendo) Caro signor padre, perdonate questo piccolo scherzo. Già vi avevo conosciuto, e stavo in voi osservando gli effetti della natura. Perdonatemi, ve ne prego, eccomi a’ vostri piedi.

Pantalone. Vien qua el mio caro fio, vien qua. Xe tanto che te desidero, che te sospiro. Tiò un basok, el mio caro Lelio, ma varda ben, gnanca da burla, no dir de sta sorte de falsità. [p. 337 modifica]

Lelio. Credetemi, che questa è la prima bugia che ho detto da che so d’esser uomo.

Pantalone. Benissimo, fa che la sia anca l’ultima. Caro el mio caro fio, me consola a vederte cussì bello, cussì spiritoso. Hastu fatto bon viazzo? Perchè no xestu vegnù a casa a drettura?

Lelio. Seppi che eravate in villa, e se oggi non vi vedeva in Venezia, veniva certamente a ritrovarvi alla Mira.

Pantalone. Oh magari! Andemo77 a casa, che parleremo. T’ho da dir delle gran cosse. Sior Ottavio, con so bona grazia.

Ottavio. Son vostro servo.

Pantalone. (Oh caro! Siestu benedio! Vardè che putto! Vardè che tocco de omo! Gran amor xe l’amor de pare! Son fora de mi dalla consolazion). (da sè, parte

Lelio. Amico. Stamane ho pagata la fiera alle due sorelle. Son venute in maschera a cercare di me, le ho condotte al moscato78. Ve lo confido, ma state cheto. (va dietro a Pantalone

SCENA XX.

Ottavio, poi il Dottore79.

Ottavio. Resto sempre più maravigliato della debolezza di queste due ragazze. Mi compariscono d’un carattere affatto nuovo. Per l’assenza del padre si prendono libertà80; ma di tanto non le ho mai credute capaci.

Dottore81. Gli son servitore, il mio caro signor Ottavio. (uscendo di casa

Ottavio. (Povero padre! Bell’onore che gli rendono le sue figliuole!) (da sè

Dottore. (Egli sta sulle sue. Sarà disgustato, perchè sino adesso ho negato di dargli Beatrice). (da sè

Ottavio. (Manco male, che avendomi egli negato Beatrice, mi ha sottratto dal pericolo di avere una cattiva moglie), (da sè [p. 338 modifica]

Dottore. (Ora l’aggiusterò io). (da sè) Signor Ottavio, gli do nuova che ho fatta sposa Rosaura mia figlia.

Ottavio. Me ne rallegro infinitamente. (Lo sposo è aggiustato82 bene). (da sè

Dottore. Ora mi resta da collocare Beatrice.

Ottavio. Non durerà fatica a trovarle marito.

Dottore. So ancor io che ci sarà più d’uno che aspirerà ad esser mio genero, poichè non ho altro che queste due figlie, e alla mia morte tutto sarà di loro; ma siccome il signor Ottavio più e più volte ha mostrato della premura per Beatrice, dovendola maritare, la darò a lui piuttosto che ad un altro.

Ottavio. Vi ringrazio infinitamente. Non sono più in grado di ricevere le vostre grazie.

Dottore. Che vuol ella dire? Pretende di voler vendicarsi della mia negativa? Allora non era in grado di maritarla: ora mi ritrovo in qualche disposizione.

Ottavio. La dia a chi vuole. Io non sono in caso di prenderla. (con alterezza

Dottore. V. S. parla con tal disprezzo? Beatrice è figlia d’un ciabattino?

Ottavio. È figlia d’un galantuomo; ma degenerando dal padre, fa poco conto del suo decoro.

Dottore. Come parla, padron mio?

Ottavio. Parlo con83 fondamento. Dovrei tacere, ma la passione che ho avuta per la signora Beatrice e che tuttavia non so staccarmi dal seno, e la buona amicizia che a voi professo, mi obbliga ad esagerare così e ad illuminarvi, se foste cieco.

Dottore. Ella mi rende stupido e insensato. Che mai vi è di nuovo?

Ottavio. Sia quello ch’esser si voglia, non vo’ tacere. Le vostre due figlie, la scorsa notte, dopo aver goduta una84 serenata, hanno introdotto un forastiere nella loro casa, con cui cenando e tripudiando, hanno consumata la notte. [p. 339 modifica]

Dottore. Mi maraviglio di voi, signore; questa cosa non può essere.

Ottavio. Quel che io vi dico, son pronto a mantenervelo.

Dottore. Se siete galantuomo, preparatevi dunque a farmelo constatare; altrimenti, se è una impostura la vostra, troverò la maniera di farmene render conto.

Ottavio. Obbligherò a confermarlo quello stesso che, venuto ieri da Napoli, è stato ammesso alla loro conversazione.

Dottore. Mie figlie non sono capaci di commettere tali azioni.

Ottavio. Se sono capaci, lo vedremo. Se prendete la cosa da me in buona parte, sono un amico che vi rende avvisato; se la prendete sinistramente, son uno che in qualunque maniera renderà conto delle sue parole. (parte

SCENA XXI85.

Il Dottore solo.

Oh misero me! Povera mia casa! Povera mia riputazione! Questo sì è un male, cui nè Ippocrate, nè Galeno mi86 insegnano a risanare. Ma saprò ben trovare87 un sistema di medicina morale, che troncherà la radice. Tutto consiste a far presto, non lasciar che il mal s’avanzi troppo, che non pigli possesso88. Principiis obsta, sero medicina paratur. (entra in casa

Fine dell’Atto Primo.




Note dell'autore
  1. Il linguaggio di Brighella può passare per veneziano.
  2. Gli Arlecchini in oggi comunemente usano il linguaggio veneziano.
  3. Bugie.
  4. Affetta di parlar toscano, per finzione.
  5. Mussa, con due ss, in veneziano vuol dire asina.
  6. Volto, detto burlescamente.
  7. Il linguaggio di Pantalone è tutto veneziano.
  8. Oggi.
  9. Padre.
  10. Figlio.
  11. Tieni un bacio.
Note dell'editore
  1. L’ed. Bettinelli aggiunge: I Suonatori suonano un Minuet, poi si fermano.
  2. Bett.: spiegarle.
  3. Bett. e Paper.: Animo.
  4. Bett. aggiunge: a servirla. Me despiase de vederla a buttar via el so tempo e i so bezzi, e vorave più tosto...
  5. Bett.: zorni.
  6. Bett.: pampalughi.
  7. Bett. aggiunge: e di quando in quando si fa vedere.
  8. Bett. e Pap.: canta come segue.
  9. Bett.: mia cara.
  10. Questa canzonetta è divisa nell’ed. Bett. in sei parti numerate.
  11. Qui comincia nell’ed. Bett. la sc. II.
  12. Bett.: per la porta del mio mezzado, che comunica colla entrata della casa contigua.
  13. Bett., Pap. ecc.: disi. E più sotto: volì.
  14. La fiera detta dell’Ascensione.
  15. Bett.: non si terrebbe.
  16. Bett.: mi sono provata di dirgli.
  17. Nell’ed. Bett. continua a parlare Rosaura.
  18. Nell’ed. Bett. parla Beatrice.
  19. Bett.: Gran.
  20. Bett.: Benissimo.
  21. Bett.: Lei ci fa troppo onore.
  22. Bett.: Durai.
  23. Bett.: zorni.
  24. Segue in Bett.: «Ros. (Canchero! È marchese!) piano a Beatrice».
  25. Nell’ed. Bett. continua la sc. III.
  26. Segue nelle edd. Bett., Pap. ecc.: «Arl. In materia de franchezza, sia dito a gloria vostra, avì una fazza a proposito per negar tutto. Lel. Orsù, meno confidenza. Sopporterò le tue scioccherie fino un certo segno, ma poi ti bastonerò. Arl. Me confido che sì solito a dir delle busie. Lel. Seguita a provocarmi, e vedrai s’io dico la verità. entra in locanda. Arl. La saria una gran desgrazia per mi, che un omo che dise sempre busie, quando se tratta de bastonarme l’avesse da dir la verità. No vedo l’ora che vegna ecc.».
  27. Comincia nell’ed. Bett. la sc. IV.
  28. Bett.: negozi.
  29. Bett., Pap. ecc.: di pizzi di Fiandra all’ultima moda.
  30. Bett., Paper, ecc., qui e dopo: trenta.
  31. Merzeria o marzaria, strada a Venezia che dall’Orologio di S. Marco «va per S. Salvatore a finire nel Campo di S. Bartolomeo»: v. Boerio, Dizion. del dialetto venez., cit.
  32. Bett., Pap. ecc.: trenta.
  33. Bett., Pap. ecc.: a un zecchino.
  34. Bett. continua: alla pena, parlando, di un carico di legnate.
  35. Segue nell’edd. Bett.: «Flor. Io non ho altro piacere al mondo che questo. Brigh. Una volta l’aveva tanto gusto a far le commediole coi bambozzi, adesso nol se diletta più? Flor. Ho portato a Venezia il mio teatrino, e l’ho qui in casa, e qualche volta mi diverto, ma quest’amore mi fa perdere la voglia di tutto. Brigh. Ah, ch’el se devertissa. Vegniro anca mi qualche volta; faremo delle commedie; canteremo... Fior. Via, Brighella ecc.»
  36. Comincia nell’ed. Bett. la sc. VI.
  37. Bett.: sappiate ch’io.
  38. Bett.: Cosa v’intendete di.
  39. Bett.: della finestra.
  40. Bett.: che cosa vi dite.
  41. Bett. aggiunge: sospira.
  42. Bett. aggiunge: e non lo vuol dire.
  43. Bett.: che Beatr. sia la sua diletta.
  44. Comincia in Bett. la sc. VII.
  45. Bett.: sovvenendomi di voler dar ecc. mi licenziai.
  46. Bett.: notte tempo.
  47. Nell’ediz. Bett. è sc. VIII.
  48. È unita alla scena preced. nell’ed. Bett.
  49. Bettin. e Paper.: farì.
  50. Bett., qui e dopo: fem.
  51. Bett.: Fe una cossa.
  52. Bett.: tre un starnudo.
  53. Nell’ed. Bett. è sc. IX.
  54. Il giorno dell’Ascensione cominciava la gran fiera di Venezia, che durava quindici giorni.
  55. Bett.: bastevolmente vi fa conoscere per due dee.
  56. Nell’ed. Bett. è sc. X: v. Appendice.
  57. Nell’ed. Bett. parla il dialetto veneziano, come si vede nell’Appendice.
  58. Paper.: trenta braccia di pizzi.
  59. Paper.: trenta.
  60. Nell’ed. Bettin. continua la scena preced.
  61. Bett. segue: «Addio, mio caro. Lel. Potete dire mio sposo. Ros. Ancor ne dubito ecc.»
  62. In Bett. continua la scena preced.
  63. Comincia nell’ed. Bett. la sc. XI: Colombina di casa con zendale, ma senza maschera.
  64. Continua nell’ed. Bett. la scena preced.
  65. Bett., Pap. ecc.: Co s’ha.
  66. Nell’ed. Bett. è sc. XII: v. Appendice.
  67. Nell’ed. Bett. il Dottore parla in dialetto bolognese, come si vede in Appendice.
  68. Bett. e Paper.: l’averia.
  69. Paper. aggiunge: Forte, prosperoso?
  70. Pap. aggiunge: ch’è vergognosetto.
  71. Questa scena nell’ed. Bett. è unita alla precedente.
  72. Bett.: donne.
  73. Bett.: vedere io cosa sono.
  74. Bett.: Orsù, vattene.
  75. Bett. e Pap.: Giove.
  76. Nell’ed. Bell, è sc. XIV.
  77. Così Bett.; le edd. posteriori andremo e anderemo.
  78. Bett.: alla malvagia.
  79. Nell’ed. Bett. parla bolognese, come si vede in Appendice.
  80. Bett., Pap. ecc.: questa gran libertà.
  81. Qui comincia in Bett. la sc. XV, ultima dell’atto.
  82. Bett.: servito.
  83. Bett. e Pap.: con il mio.
  84. Bett. e Pap.: una amenissima.
  85. Nell’ed. Bett. è unita alla scena precedente, come vedesi in Appendice.
  86. Pap.: non mi.
  87. Pap.: Ma se nell’arte medica non vi è ricetta a proposito, per curare questa malattia prodotta nel corpo della mia casa, a cagion del disordine di mie figlie, saprò ben trovare ecc.
  88. Segue nell’ed. Pap.: acciò non mi abbiano a rimproverare con l’aforismo d’Ippocrate Principiis ecc.