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328 | ATTO PRIMO |
con una palermitana, ed io che l’aborriva anzi che amarla, mi assentai per non esser astretto alle odiose nozze. Scrissi a mio padre che, acceso delle vostre bellezze, vi desiderava in consorte, e solo ieri n’ebbi con lettera il di lui assenso.
Rosaura. Mi par difficile che vostro padre vi accordi che sposiate la figlia di un medico.
Lelio. Eppure è la verità. (starnuta
Arlecchino. Signora sì, la lettera l’ho letta mi.
Rosaura. Ma la dote che potrà darvi mio padre, non sarà corrispondente al merito della vostra casa.
Lelio. La casa di Castel d’Oro non ha bisogno di dote. Il mio genitore è un bravo economo. Sono venti anni che egli accumula gioje, ori, argenti per le mie nozze. Voi sarete una ricca sposa.
Rosaura. Rimango sorpresa, e le troppe grandezze che mi mettete in vista, mi fanno temere che mi deludiate per divertirvi.
Lelio. Guardimi il cielo, che io dica una falsità; non sono capace di alterare in una minima parte la verità. Da che ho l’uso della ragione, non vi è persona che possa rimproverarmi di una leggiera bugia. (Arlecchino ride) Domandatelo al mio servitore. (starnuta
Arlecchino. Signora sì; el me patron l’è la bocca della verità.
Rosaura. Quando potrò sperare veder qualche prova della verità che mi dite?
Lelio. Subito che ritorna vostro padre in Venezia.
Rosaura. Vedrò se veramente mi amate di cuor leale.
Lelio. Non troverete l’uomo più sincero di me.
SCENA XII1.
Un Giovine di merceria, con scatola di pizzi, e detti.
Giovine2. Questa mi par la casa del signor Dottore. (si accosta per battere
Rosaura. Chi domandate, quel giovine?