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312 | ATTO PRIMO |
gnore sul terrazzino, mi do a credere che non sieno delle più ritirate. Voglio tentar la mia sorte.
Arlecchino. Con patto che ghe disè1 ogni quattro parole diese busie.
Lelio. Sei un impertinente.
Arlecchino. Faressi meio andar a casa del sior Pantalon vostro padre.
Lelio. Egli è in campagna. Quando verrà a Venezia, andrò a stare con lui.
Arlecchino. E intanto volè star alla locanda.
Lelio. Sì, per godere la mia libertà. È tempo di fiera2, tempo d’allegria: sono vent’anni che manco dalla mia cara patria. Osserva come al chiaro della luna paiono brillanti quelle due signore. Prima d’inoltrarmi a parlar con esse, bramerei sapere chi sono. Fa una cosa, Arlecchino, va alla locanda, e chiedi ad alcuno de’ camerieri chi sono, e se son belle, e come si chiamano.
Arlecchino. Per tutta sta roba ghe vol un mese.
Lelio. Va, sbrigati, e qui ti attendo.
Arlecchino. Ma sto voler cercar i fatti di altri...
Lelio. Non far che la collera mi spinga a bastonarti.
Arlecchino. Per levarghe l’incomodo, vado a servirla. (entra in locanda
Lelio. Vo’ provarmi, se mi riesce in questa sera profittar di una nuova avventura. (va passeggiando
Rosaura. È vero, sorella, è vero; la serenata non poteva essere più magnifica.
Beatrice. Qui d’intorno non mi pare vi sieno persone che meritino tanto, onde mi lusingo che sia stata fatta per noi.
Rosaura. Almeno si sapesse per quale di noi, e da chi sia stata ordinata.
Beatrice. Qualche incognito amante delle vostre bellezze.
Rosaura. O piuttosto qualche segreto ammiratore del vostro merito.