Gynevera de le clare donne/Prefazione
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PREFAZIONE
I.
Il libro che noi pubblichiamo fu scritto per Ginevra Sforza dei Bentivoglio e per lei ebbe il titolo di Gynevera de le Clare Donne.
Le lodi, onde Sabadino degli Arienti parla delle virtù e del magnifico aspetto di lei, fanno temere assai della sua sincerità.
Principiando le biografie delle donne celebri scrive: «Tanto più voluntieri a la presente fatica me dispono, quanto sei degna essere in supremo loco fra loro colocata per le tue optime conditioni, per le quali picoli et grandi plaudendo gridano: Gynevera, Gynevera, tuo odorifero nome.»
Così adulava, mentre la donna del Signore di Bologna s’abbandonava alle più spietate crudeltà!
Ogni biografia finisce con una apostrofe al ginevero o ginepro, con la quale costantemente l’autore giuoca fra metafore suggerite dal nome della Bentivoglio e altre suggerite da quell’albero, simbolo di costanza, di pace e di lietezza. Ora lo chiama pudico, glorioso, gentile, ed ora fulgentissimo, alto e felice; ora olente o odorifero, ed ora sapientissimo. Co’ suoi rami protegge e con le sue fronde incorona le donne di molta virtù; e’ si pasce anche e si ciba de sancta fama; e fa festa, giubila; gode di spirituale contento e rinverdisce cum duplicato odore; beve il sangue della gloria e produce rubini, adamanti, smiraldi, topaci et margarite. Insomma fa d’ogni cosa un po’ senza molta determinatezza. Sempre chiara è però l’allusione a Ginevra e perciò sempre chiara la ragione del titolo. Dopo averlo chiamato sforcesco gynevero, licenzia l’opera con le parole: «O mia opera, illustrata del nome eterno de Gynevera Sforza Bentivoglio, non te ornare de auro, nè de argento, se non de fronde di gynevero, in segno de leticia et pace.»
II.
Ginevra, figliuola d’Alessandro Sforza signore di Pesaro, andò in Bologna sposa a Sante Bentivoglio nel maggio del 1454. Non aveva che dodici anni!
Le feste che si fecero allora per ricevere questa bambina, destinata agli amplessi d’uno fra i più fortunati signori d’Italia, furono tali d’aver pochi riscontri nella storia. Tutti i cronisti bolognesi, che trattano di quei tempi, le narrano diffusamente non celando quasi una disgustosa sorpresa.
Si demoliron sino alcune case per allargare le vie onde doveva passare il corteggio. Gaspare Nadi scrisse che questa sengularissima festa e trionfo bastaria in chorte de re de chorona.»
Una cosa nullameno permise ad alcuni vecchi ed austeri bolognesi di predir male a lei e per lei. Le porte del tempio, che non s’erano chiuse mai in faccia alle fanciulle che andavano a giurar fede di moglie innanzi agli altari, si chiusero per la giovinetta principessa. Dalle case dei Bentivoglio, in via S. Donato, erano partite seicentotrentaquattro coppie di giovani e cinquantasei copie di fanciulle. In mezzo a queste era la sposa.
Quando giunsero nella piazza maggiore e furono per salire in S. Petronio, le porte della chiesa furono serrate e nessuno potè entrare.
L’ordine era mosso dal celebre cardinal Bessarione, il quale non volle che nella casa di Dio entrassero donne che, per la ricchezza smodata delle vesti e dei gioielli, dimostravano di non rispettare l’austerità del tempio e la legge che pochi giorni innanzi egli aveva fatto gridare per porre un limite all’eccessivo lusso femminile.
Il Nadi infatti ci dice che trentasei copie di donne erano «vestite de imborchado a oro e de charmessin, e venti chopie vestite de rossa e morelo.»
Il corteo allora retrocesse un po’ disordinato fra la folla ed entrò nella chiesa di S. Giacomo, dove i frati celebrarono le nozze. Sante Bentivoglio, per dissimulare l’indiretta offesa del cardinale, raddoppiò le feste e le allegrezze, le quali si prolungarono per parecchi giorni in concerti, trionfi, giostre e balli.
I frati furono tosto interdetti, ma, per intercessione dello stesso Signore, tornarono ben presto in grazia del sapiente Legato.
III.
Ginevra non tardò troppo a manifestare un’indole irrequieta, ed avida di ricchezze senza misura e di lotte, la quale alla prima ora di timore e di sgomento doveva degenerare in ferocia.
Alcuni l’hanno lodata per l’amore che sembra portasse alle arti. Non è facile stabilire se questo amore provenisse dalle disposizioni naturali di lei, dal suo ingegno insomma o dal suo gusto, o s’ella, com’è più probabile, obbligasse il marito a spendere o spendesse nelle arti per la sola vanità di possedere palazzi, ville e tesori superiori alle maraviglie delle vicine Corti.
È certo intanto che cinque anni appena dopo le nozze, cominciò a lamentare la povertà delle case bentivolesche, e tanto fece che persuase il marito a cominciare il famosissimo palazzo che sorgeva dove oggi si trova il Teatro Comunale.
La prima pietra fu posta con solennità nell’aprile del 1460; ma Sante mori il primo giorno d’ottobre del 1463 e fu ben lungi dal veder compiuta la vasta opera, cominciata con tanto ardore.
Ginevra quando rimase vedova non aveva che ventun anni.
Fu fedele al primo marito? Le lodi di castità che le profonde Sabadino valgono a dileguare il dubbio?
Si dice ch’ella sposò in seconde nozze Giovanni II perchè l’amava ardentemente. Ma quando nacque questo amore, s’ella si diede a Giovanni dopo che Sante era morto da soli sette mesi?
Dunque s’ella non rispettò nè anche il lutto, che s’imponeva, almeno per un anno, in quei tempi in cui la vedovanza era assai più d’oggi rigorosamente osservata, sarà lecito dubitare che una forte passione la conducesse a Giovanni già prima della morte di Sante.
È certo intanto che lo strano matrimonio non fece buona impressione. I cronisti lo registrano in due righe e lo stesso Nadi, ligio ai Bentivoglio, non accompagna come di solito la notizia nè d’una lieta considerazione, nè dall’augurio: Messer Idio sia laudato sempre!
IV.
Ginevra ebbe de tanto marito sedici figli dei quali cinque morirono «chi in fasse et chi in puerile aetate.» Degli undici che le rimasero si veggono i ritratti in una splendida pittura di Lorenzo Costa conservata nella cappella Bentivoglio in S. Giacomo di Bologna.
Sono tutti volti brutti e antipatici col naso rincagnato, con le mascelle pronunciatissime e le labbra troppo curve. In questo dipinto, inginocchiati ai lati d’un trono su cui siede la Vergine col putto, sono anche Giovanni e Ginevra. Quegli ha un volto poco esprimente, che ben ritrae l’indole sua senza energia, mentre l’imagine della moglie rivela a un tratto la risolutezza e saremmo per dire la tristezza dell’anima sua. Il dipinto è del 1488 e Ginevra, quantunque avesse allora quarantasei anni, pure conserva le traccie d’una discreta bellezza la quale meglio risulta dal ritratto, dipinto da Francesco Cossa, che si trova a Parigi nella collezione Dreyfus, e dalla medaglia senza rovescio conservata nel Museo di Milano e attribuita (forse erroneamente) a Sperandio. Si ha ricordo d’un altro ritratto di Ginevra in quadro oggi smarrito e che si trovava nella chiesuola della villa bentivolesca di Poledrano, nel quale era dipinta la Madonna col putto sopra santa Lucia, san Sebastiano e sant’Apollonia, e i due offerenti Giovanni e Ginevra.
Giovanni Gozzadini credette anche di scorgere nella pittura della lunetta di fronte nella stessa cappella di S. Giacomo, l’imagine di Ginevra nella figura che si vede sorgere sull’idra dalle sette teste. Se lo storico bolognese s’appose al vero, dal pennello dell’artefice ferrarese uscì un ben fiero, anche se involontario, epigramma!
V.
Con gli anni l’indole di Ginevra doyeva incrudire. Sino a che la giovinezza le sorrise e la stella della sua casa montò, ella fu soddisfatta dei tesori che si spremevano ai Bolognesi per prepararle dimore e feste reali. Ma poi, come s’accorse del malcontento che serpeggiava fra il popolo, e temette le congiure dei nemici, ruppe il freno alla sua ira sanguinaria e superstiziosa, e spinse gli stessi suoi figli a vendette perfidissime.
Nel luglio del 1498 fece bruciare viva una donna di nome Gentile moiera de ser Alisandro di Zimieri «perchè avea fato più e più mali e spizialmente in chassa del signiore messer Zoane di Bentivoli e fati guarire.» Così il Nadi che continua: «Rechordo come adi 23 de otovere 1498 madonna Zanevera dona del signiore messer Zoanne di Bentivoli fe’ apichare un pelachan a nome piero de Bris sigela perchè avea morto uno amigo de la dita madonna iera becharo del signiore.»
Per tal modo Ginevra si sostituiva al magistrato della giustizia.
Voleva; e ciò ch’essa voleva, Giovanni era costretto a permettere.
Fu lei che sguinzagliò i figli e i partigiani, come cani affamati di preda, contro i Malvezzi colpevoli d’una congiura non riuscita; fu lei che eccitò Ermes all’eccidio dei Marescotti, inconscio lo stesso Giovanni
- fu lei infine che allontanò tutti gli animi dei Bolognesi dalla sua casa. E così, quando Giulio II s’accostò a Bologna, Giovanni capi che non gli restava che uscirne e la notte del 2 novembre 1506 partì coi figli, coi nipoti e con la fatale Ginevra.
Ma forse, uscendo, costei sperava di presto tornarvi. Invece gli avvenimenti precipitarono la sorte della sua famiglia, perocchè essendosi scoperta una congiura a favore di Giovanni, per la quale Ermes e Annibale s’erano spinti sino alle mura della città, la plebe eccitata insorse, seguì Ercole di Galeazzo Marescotti lieto che fosse giunta l’ora della vendetta, e trasse alla ruina del celebre palazzo, costato quarant’anni di fatiche e, come scrisse l’Alberti, sei milioni e seicento mila lire. Giulio II procurò più tardi che la distruzione fosse intera, e la plebe lavorò ai danni dell’immenso edificio per un mese intero.
Quando la notizia giunse a Giovanni, vecchio di settant’anni, questi curvò il capo canuto e pianse. Per lui tutto era finito. Prese la penna e scrisse a Ginevra che si trovava in Busseto, e il rimpro vero parve ben acerbo a lei, che comprese in un momento tutte le sue colpe!
E morì, improvvisamente, di crepacuore. Anzi non mancò chi spargesse la voce che s’era strangolata!
VI.
Così finì la gloria di Ginevra e della casa bentivolesca. Che cosa pensasse di tutto ciò Sabadino degli Arienti non sappiamo. Egli si trovava già a Ferrara ad adulare nuovi padroni e nuovi protettori.
Ma perchè la sua parola non acquisti un po’ di fede allorchè dipinge Ginevra, restano in compenso altri scritti, i quali provano come il ritratto che abbiam fatto di lei non sia per nulla esagerato.
Il Casio scrisse il tetrastico:
Ginevera Bentivola sforcesca
D’animo altier lasciò a Bussé la spoglia,
Contenta pria morir di una sol doglia
Che viver sempre tra il focile e l’esca.
Più severo il Garzoni dettò l’epigramma:
in ginevram bentivolam epitaphium
Jam matrona potens, sed plus quam foemina poscet,
Impia, avara, tenax, horrida, terribilis,
Hic jaceo infelix sancto privata sepulchro,
Cui nulla Ecclesia sacra dedere patres:
Juniperi mibi nomen erat, sed spina remansit,
Ut fuerat multis aspera, amara mihi:
Contempsi superos, qui me sprevere Tyranni,
Optima ab exemplo discite quisque meo.
Quis neget esse Deos, hominum qui fata rependant?
Quae fuerit vitae praemia, mors docuit.
Anche un anonimo contemporaneo la chiamò impia coniux. Finalmente il Guidicini nella sua Miscellanea storico-patria bolognese pubblica il seguente sonetto ch’e’ dice «che circolava per Bologna dopo la di lei morte.»
Se fui nel mondo carca d’ogni vizio
Empia, maligna, avara e scellerata,
Or son nel Stigio Regno incatenata.
Ove d’ogni fallir porto supplizio.
Se il corpo in fra l’ortiche ha fatto ospizio,
Ciò avvien perchè d’Ebrea madre son nata.
Ma più mi duol che l’alma ho tormentata
Fra mille pene e posta in precipizio.
Voi altri Ebrei lasciate ogni mal fare,
Pigliate esempio da mia acerba morte
E come e quale or mi convien purgare.
E tu protervo vecchio mio consorte.
Siccome fosti meco a rapinare
Cosl t’aspetto in le tartaree porte.
Sull’autenticità di questo sonetto, che ricorda in qualche parte l’epigramma del Garzoni avremmo da far grandi riserve e sollevare gravi dubbi. Ma per ora a noi basta mostrare quali siano stati i giudizi lanciati contro quella terribile viragine.
VII.
Quando Sabadino fioriva, Bologna non aveva che pochi e mediocri poeti. La schiera sapiente degli Umanisti s’era oltremodo diradata e i pochi rimasti nel glorioso Studio vivevano solinghi nel loro amore pei classici. Giovanni Filoteo Achillini stampò il suo Viridario quando già la famiglia dei Bentivoglio era decaduta da qualche anno.
Sabadino non ebbe quindi competitori. Egli fu il letterato ufficiale della corte bentivolesca; ne raccolse onori e quattrini; quindi lodò, lodò tutto e tutti, lodò senza misura.
I suoi scritti concorrono tutti a magnificare le case cui servì.
Del resto, la protezione dei Bentivoglio , prima che a lui, sembra che fosse accordata a suo nonno e a suo padre, barbiere e loro costante partigiano. Lo stesso Sabadino racconta: «La prima volta che la famiglia Bentivoglio et la famiglia Canetula pigliarono l’arme cum li loro amici per insanguinarsi, Giovanna Bentivoglia per auxiliare, come valorosa donna senza paura, il magnifico Antonio Gagliazo et Hercule suoi fratelli, fece cosa degna in una donna de perpetua memoria in persuadere et armare li amici ad inquinarse le mane nel sangue de li inimici; et lei cum le propre mane armò il mio genitore che fu la prima volta prese l’arme per eredità paterna per la facione bentivoglia essendo anchora doloscente; che più volte me disse che mai conobbe donna de più magnitudine de animo de lei.» Così il nostro letterato sapeva, colorendo forse un po’ la storia, invocare i diritti di una protezione assoluta e costante come la fede de’ suoi padri e di lui.
Non c’è che dire: Sabadino conosceva perfettamente l’arte del cortigiano!
Sabadino fu quindi cordialmente protetto dai Bentivoglio e non si va forse lungi dal vero pensando che, in quei tempi in cui il figlio seguiva quasi sempre l’arte paterna, egli potesse invece dei rasoi e del sapone usar penna ed inchiostro, per benefizio del Signore, messo a studi severi e nobili sin dall’infanzia.
In seguito servì infatti per vent’anni come segretario Andrea Bentivoglio e scrisse le Porrettane perchè si trovava con lui ai bagni della Porretta. Questo però non gl’impedì di volgere più tardi la dedica del libro ad Ercole duca di Ferrara, nella corte del quale era passato in qualità di secondo cameriere!
VIII.
Non rifaremo qui la biografia di Sabadino, nè ci dilungheremo ad esaminare l’intricatissima serie dei suoi lavori. Uno studio simile occuperebbe un volume e forse un volume più grosso che importante.
Egli non fu nè scrittore elegante nè originale. Se gli artisti bolognesi, non escluso il grande Francia, subirono l’influenza de’ Ferraresi per la pittura, Sabadino la subì per la letteratura non esclusi tutti i latinismi che dánno a’ suoi scritti un colore fidenziano.
La letteratura e specialmente l’ar te splendevano alla Corte degli Estensi e la loro luce irradiava anche la dotta Bologna. Si può anzi dire che sino al 1490 circa, ossia per gran tempo di signoria bentivolesca, l’arte in questa città non fosse esercitata se non dai Ferraresi, e a provare questa asserzione, bastano i nomi di Galasso di Matteo Piva, d’Ercole Roberti, d’Ercole Grandi, di Francesco Cossa e di Lorenzo Costa.
Quanto alla disposizione del libro, come per le Porrettane imitò il Decameron, così per la Gynevera de le Clare Donne seguì l’esempio d’alcuni libri allora assai noti. Lasciando, se si vuole, a parte Le donne famose del Boccacci, nel testo latino e nella traduzione di M. Donato degli Albanzani di Casentino detto l’Apenninigena, non dobbiamo dimenticare la Gloria mulierum e il Decor puellarum edite di Nicolò Jenson nel 1471. Si potrebbe qui citare anche l’opera edita sin dal 1496 De claris mulieribus Christianis di frate Jacopo Filippo da Bergamo, ma non è sicuramente noto se fosse scritta prima della Gynevera che reca la data del 1483.
IX.
Nella Gynevera sono raccolte trentatre vite femminili, in gran parte di signore vissute nel secolo XV. Non mancano quindi i cenni biografici d’altre fiorite qualche secolo prima, ma fortunamente sono pochi e nessuno dell’antichità classica.
Per questo il libro acquista pregio. L’autore in gran parte raccolse notizie dirette sui fatti e i costumi delle gentildonne di cui scrisse. Abbiamo già citato un passo della vita di Giovanna Bentivoglio, ove figura il padre di Sabadino. Il lettore ne troverà molti altri ne’ quali si fa ricordo delle persone che gli comunicarono note e ricordi preziosissimi, come ad esempio quelli che per Giovanna d’Arco gli recò di Francia il cronista bolognese Fileno dalle Tuate.
Non mancano anche parecchie pagine scritte con sentimento e con leggiadria. Ma in complesso è da ritenersi che, pur restando l’opera migliore di Sabadino, più che un lavoro letterario, si deve considerare un lavoro storico e didattico. Anzi la smania continua di dare esempi di virtù alle lettrici del suo tempo, l’ha fatto lodare qualche volta per gentilezza, la debolezza; per coraggio, la cru deltà, per carattere fermo, la tenacità della vendetta, e, come nella vita di Caterina de’ Vigri, per umiltà la schifezza, cui quella donna, in tante cose veramente insigne, s’abbandonava per amor di Dio!
Gentile è la biografia di Francesca Bruni sua moglie, di cui parla con tenerezza e riconoscenza, perchè, mentr’ella, essendo di famiglia nobile et antiqua et perillustrata de regii privilegi, poteva aspirare ad homini de più condictione et fortuna, preferì invece l’amore del giovine letterato , che ne descrive la morte con profonda pietà. Curioso è poi il cenno su quella che al presente el bel nome si tace. Il Fantuzzi afferma: «Si comprende esser stata una sua innamorata». Ma noi non sappiamo trovar traccia d’alcun amore. Non si può trarre il concetto d’un affettuoso riserbo dal titolo già riprodotto, perchè lo stesso Sabadino dice: «Il nome , ben che sia de molto splendore , a mi non piace altrimenti explicare, perchè fin a la fine non se può l’huomo chiamare beato». Pel disinteressato augurio che a lei vedova esprime di trovar nuovo e degno marito e per la esclamazione
- «Beato colui a chi per felice sorte tocharà tanta donna!» a noi sembra che si debba vedere nell’affetto di Sabadino per la bella incognita una semplice per quanto intensa amicizia, per la quale non fa certo difetto la frase: «Li nostri animi furono sempre pudicamente uniti.»
Chi fosse costei non ci è dato sapere con precisione. Sabadino scrive che ebbe il nome della figliola del re Metabo ossia Camilla; scrive che nacque «de egregii parenti, decorati in tutti li honori et dignitate de la nostra magnifica republica» e che sua madre si chiamò Margherita; scrive che suo marito fu de bona famiglia e che si ebbe tri belli et candidi figliuoli; scrive che rimase vedova nel 1477. Riconosciamo che le indicazioni sono più che sufficienti per produrre le ricerche sul casato di lei, ma il nostro esame sul Dolfi e sul Montefani, raccoglitori di genealogie bolognesi, non diede risultato.
X.
Prima delle vite è una specie di proemio o dedica in cui libera a volo sfrenato le adulazioni più sfacciate a Ginevra Sforza, al padre di lei Alessandro, a Giovanni Il Bentivoglio, di cui accenna alle imprese eroiche; enumera quindi tutti i figliuoli di Giovanni, di ciascuno de’ quali narra in succinto virtù e fatti, illustrando per tal modo la pittura ricordata del Costa. Conclude tornando a prostrarsi ai piedi di Ginevra, della quale il lettore ora sa qualcosa, esaltandone «le parole nel consigliare prudenti, la gratiosità di costumi, l’affabilità, la mansuetudine, la pietate, la religione et il liberale servire cum la magnitudine de l’animo et finalmente la discreta pompa de omne ornamento et reale prestantia!»
L’autore chiude con una licenza o instructione dell’opera, nella quale dapprima dice al libro d’ire a trovar Ginevra nel palazzo di Belpoggio, deliziosa villa bentivolesca ch ’ ei qui descrive e che si trovava nelle colline bolognesi a un chilometro da porta S. Stefano, nel luogo, circa, in cui oggi sorge la villa dei principi Hercolani.
Prende in fine argomento per fare una rapida rassegna di molte altre gentildonne, massime bolognesi, e compiere così il libro cortigiano lusingando quasi tutte le famiglie nobili d’allora. Ricorda infatti Elisabetta de ’ Bianchetti in Bentivoglio; Beatrice Saliceti in Bentivoglio; Giulia, moglie ad Ercole Bentivoglio; Cleofe Zoboli in Malvezzi; Lucrezia Foscherari consorte di Florio dalla Nave; Alessandra Zenzanina; Gentile «vedoa, modestissima, figlia che fu de Baviera principe a quelli di de’ moderni physici»; Antonia moglie di Lodovico da Castel-San-Pietro dottore, cavaliere e patrizio; Elisabetta Bentivoglio moglie a Ro meo Pepoli; Lucrezia Bentivoglio in Albergati; Gentile ed Elena Gozzadini; Giovanna Ludovisa moglie d’Antonio Magnani di cui riparleremo; Antonia de ’ Bardi signora di Vernio, consorte di Giacomo Orsi; Margherita vedova di Giovanni da Loiano; Margherita Beccadelli «maritata già nel nobile mercatante Domenico de li Odofredi»; Giacoma Odofredi in Guastavillani; Maddalena Bentivoglio dei Lambertini, Cornelia Lambertini sposa a Giacomo Uccellani; Cassandra figlia di Vincenzo Paleotti giureconsulto; Camilla da Sala moglie di Nicola Aldrovandi e le sue figliuole Antonia ed Elena maritate rispettivamente nelle case Grassi e Zanchini; Gentile Bianchetti in Zanchini; e l’eroica villanella Angelina da Poggio Renatico moglie d’Agostino Malucelli.
Da tutte queste donne bolognesi passa a far memoria d’altre, forestiere, come di Caterina dei Benci consorte a Pietro Vespucci; di Camilla «figlia de Marino duca di Sesso et principe de Rosano, consorte già de Constantio Sforza principe di Pesaro»; d’Elisabetta nata di Federico duca d’Urbino, maritata a Roberto Malatesta; di Bianca Maria d’Este consorte a Galeotto Pico della Mirandola; di Costanza Bentivoglio moglie ad Antonio Maria Pico della Mirandola; di Beatrice d’Este sposa a Tristano Sforza; di Lucrezia Malavolta senese moglie a Roberto Sanseverino; della celebre Cassandra veneziana; di Caterina nata dai Cornero «regina de Cypri, moglie che fu del re Jaches, cum dota di cento milia ducati»; d’Eleonora d’Aragona, moglie ad Er cole d’Este duca di Ferrara, e di Beatrice sua sorella, regina d’Ungheria; di Bona Maria di Francia moglie di Galeazzo Maria Sforza; d’Isabella d’Aragona moglie a Giovanni Galeazzo Sforza. Finalmente si spinge oltremonte e ricorda Anna figlia di Luigi di Francia e Isabella moglie a Ferdinando re di Spagna.
Di tante, fra le mentovate donne illustri, ha con frasi vaghe e iperboliche lodata la virtù, ma di tante altre ha brevemente ricordati avvenimenti che non mancano d’importanza.
Quest’opera, tutta insieme, è quindi di non poco valore storico e di qualche pregio letterario, e valeva ben la fatica di pubblicarla in questa collezione di opere inedite e rare ove ci è piaciuto darle posto.
XI.
Dei trentacinque capitoli che formano quest’opera1 soltanto otto sono stati pubblicati, piuttosto malamente, per le stampe, e sono i seguenti:
I. — La biografia De Janna polcella gaya de Franza. — A pag. 17 dell’Almanacco statistico-archeologico bolognese del 1835, in nota all’elogio di Francesca Bruni degli Arienti, un anonimo (forse Gaetano Giordani) scrive che Francesco Tognetti professore d’eloquenza all’Università «si piacque gentilmente mostrargli la rarissima edizione.... dell’elogio della rino matissima e sventurata Giovanna Gaya di Francia celebre col nome di Giovanna d’Arco detta la Polcella d’Orleans. Questa stampa è in due foglietti in 8° eseguita al finire del secolo XV, o al principio del secolo XVI in Bologna. È il solo esemplare che si conosca. » Molti dei libri e dei manoscritti appartenenti al Tognetti sono passati alla Biblioteca Comunale di Bologna, altri sono andati dispersi in varie vendite. Fra questi ultimi è l’opuscolo citato, oggi introvabile.
II. — «Vita de la beata Catherina da Bologna de l’ordine de la diva Clara del Corpo de Christo.» In fine: «Quivi finisse la vita de la beata Catherina Bolognese de l’ordine del seraphico Francesco. Stampata in l’inclita cità de Bologna per Zuan antonio de li benedicti citadini Bolognese del MCCCCCII a di iiii de Marzo.» In 4.° — Il Fantuzzi attribuisce questa vita a frà Dionigi Paleotti, ma il confronto col manoscritto della Gynevera di Sabadino degli Arienti toglie ogni dubbio. — Del 1536 gli eredi di Girolamo Benedetti stamparono in Bologna due libercoli con Le armi necessarie alla battaglia spirituale della B. Catherina da Bologna in 8° e il Libro della Vita della Beata Catherina, la qual vita non è con ben poche varianti che quella di Sabadino divisa in capitoli, con una specie di preghiera innanzi e quattro capitoli aggiunti in fine, nei quali sono narrati i molti miracoli che ha operato idio per questa Beata, con una appendice di poesie e di preghiere sulla Santa. La stessa biografia dell’A rienti è stata una delle fonti principali a cui hanno attinto Cristoforo Mansueti, Giacomo Grassetti, i compilatori degli atti per la sua canonizzazione (Roma, 1680 e 1712) e molti altri che hanno a dirittura trascritto dei brani interi della biografia di Sabadino.
III, IV, V. — «Elogio di Francesca Bruni moglie del celebre Gio. Sabadino degli Arienti bolognese.» Bologna, all’insegna della Volpe, 1834, in 12.° Quest’opuscolo non è che un estratto dal citato Almanacco statistico - archeologico bolognese. (Bologna, presso il Salvardi calcografo nel Pavaglione). Anno VI, 1835, in 12°; pagg. 1-29. Nella nota 2 l’editore di questo elogio riproduce tutto il proemio (pagg. 18-21 ) e quasi tutta la licenza o instructione dell’opera (pagg. 22-28).
VI. — «Elogio a Diana Saliceto Bentivoglio scritto dal celebre Giovanni Sabadino degli Arienti bolognese, pubblicato per le nozze Fava-Saraceni.» Bologna, al segno della Volpe, 1835, in 8.°
VII. — «Elogio della principessa Battista Sforza moglie del famoso Federico da Montefeltro, Duca d’Urbino, scritto dal bolognese Gio. Sabadino degli Arienti, con annotazioni (del cav. Gaetano Giordani )». Pesaro, tip. Nobili, 1850, in 8.°
VIII. — «Giovanna Bentivoglio, cenno biografico di Sabadino degli Arienti edito per le nozze Carducci-Gnaccarini da Corrado Ricci., Bologna, tip. Fava e Garagnani, 1887; in 16. Ma questo è un estratto della presente edizione.
A noi non sono note altre parti della Gynevera stampate. Dello stesso Sabadino si ha anche la «Vita di Anna Sforza moglie d’Alfonso d’Este duca di Ferrara» edita in quella città pei tipi di Domenico Taddei e figli, 1874 in 8° grande, ma non fa parte della Gynevera e si sa che fu scritta nel 1500.
XII.
I codici che conosciamo della Gynevera sono tre. Uno del secolo scorso e di pochissimo valore; gli altri due di mano dello stesso Sabadino.
Descriviamo, di questi ultimi, prima quello che ha servito alla presente edizione, e che si trova nell’Archivio di Stato di Bologna.
È cartaceo e consiste in centotrentotto carte, di mm. 305 ✕ mm. 203, delle quali soltanto il verso della carta 135 e le carte 136, 137 e 138 sono bianche.
La legatura è l’originale, coi piani di legno coperti di bazzana ad impressioni a secco di puro stile del Rinascimento. I fermagli d’ottone assai deperiti hanno nel dorso la forma di foglie d’edera.
Su ciascuno dei due riguardi coperti di carta è disegnato a penna un San Giorgio che uccide il drago. Il S. Giorgio che è disegnato nel riguardo posteriore è opera di pessimo artefice. Le proporzioni però e le movenze della figura non interamente errate lasciano pensare che fosse tratto da un originale a bastanza buono. I fori d’ago che si scorgono sotto le linee del disegno provano infatti che si tratta d’un cosidetto calco. Il S. Giorgio invece che si vede sul riguardo anteriore, (come il lettore può giudicare dalla riproduzione che ne diamo) è disegnato con molta franchezza. Evidentemente è d’uno dei tanti pittori di scuola ferrarese che fioriscono sotto gli auspici di Giovanni II Bentivoglio. Non è mancato chi ha pensato al Francia, ma questa ipotesi non ci sembra nè meno degna di discussione. Il Francia ne’ suoi lavori era d’una gentilezza, d’una delicatezza e di una correzione senza esempio. Il S. Giorgio del nostro libro è bensì disegnato con insolito ardire, ma con molte scorrezioni. Il Francia non avrebbe mai così stranamente e così malamente esagerato i muscoli, quali si veggono nelle gambe e nel torace del nostro S. Giorgio. Qualche linea può ricordare l’arte d’Amico Aspertini, ma così dicendo siamo ben lontani dal vo lerlo attribuire a questo bizzarro pittore.
S. Giorgio doveva essere uno dei santi prediletti e venerati di casa Bentivoglio, se lo vediamo riprodotto anche dal Francia sulla mirabile targa bentivolesca che si conserva in Bologna dal marchese Rodriguez.
La prima pagina del codice è da noi riprodotta, per mostrare la leggiadra miniatura della lettera iniziale, il carattere di Sabadino degli Arienti, e il simbolo o impresa sottoposta, sulla quale dobbiamo spendere qualche parola. Consiste quest’impresa in un cervo in riposo, il cui ventre è circondato di fiamme. Sopra gli gira una fascia col motto Nil desperandum sera duce, tratto dall’oraziano Nil desperandum Teucro duce (Od. I, 7). All’uso dei codici o per manco d’ortografia certo in esso si legge sera invece di serra, parola che, significando sega, allude ai Bentivoglio i quali appunto hanno la sega nel loro stemma. Così il motto è di facile spiegazione: «Nulla è da paventare se guida o protegge Bentivoglio.»
Non è improbabile che anche le fiamme che s’alzano e lingueggiano ai fianchi del cervo, simbolo di prudenza, abbiano rapporto araldico coi Bentivoglio. È noto che la sega non era in origine che una fila di fiamme. Oltre a ciò non dobbiamo dimenticare che il quadrupede fra le fiamme era un’impresa bentivolesca, come si rileva da una scimitarra, già della collezione d’armi del conte Gozzadini, e da un mattone smaltato del pavimento nella cappella Bentivoglio in S. Giacomo di Bologna.
Due parti di quest’impresa non ci è stato possibile comprendere. Non sappiamo che significhino le due stelle che sono fra le corna del cervo e le lettere T. A. Non è da omettere però che queste sono d’altro carattere e d’altro inchiostro, malfatte e certamente aggiunte dopo. Non sappiamo del pari di chi sia lo stemma che si vede fra le nubi e i raggi, di fronte al cervo. Il Canetoli nel Blasone bolognese offre uno stemma identico, cioè di azzurro al monte di sette cime al capo d’Angiò, per la famiglia degli Avvocati; ma non si può loro attribuire nel caso nostro; prima di tutto perchè gli Avvocati erano famiglia non nobile e quindi lo stemma a loro rispetto è relativamente moderno e forse cervellotico; in secondo luogo perché gli Avvocati non appaiono in nessuna pagina della storia bentivolesca. Forse non si va lungi dal vero congetturando che possa essere lo stemma d’una delle moltissime donne maritate nei Bentivoglio.
Tornando al codice diremo che le biografie si succedono di seguito, senza aspettare il recto di una nuova carta, nè salire al capo d’una nuova pagina. I titoli di ciascuna vita sono segnati in rosso, e in rosso o indaco e qualche volta in verde sono segnate le iniziali per tutto il libro. In fine v’ha, in un foglietto aggiunto, un indice. delle vite, ma recente.
XIII.
Il codice esistente nella Regia Biblioteca di Parma è meno ricco del bolognese, ma in compenso assai più conservato. Il Fantuzzi nel 1781 e l’annotatore all’Elogio di Francesca Bruni edito nell’Almanacco citato del 1835, ci fanno sapere che questo codice era nella libreria dei Padri Carmelitani di Parma, mentre da un frammento di pergamena unito al riguardo posteriore possiamo inferire anche che, avanti che passasse ai detti Padri, fu di Michele Colombo. Prima ancora appartenne a Violante Bentivoglio. Sul riguardo posteriore è scritto: «Questo libro si è di me violante bentivolia . chi lo arà e no me lodarà acasa dal diavol andarà . in anima et in corpo il portarà.»
In casa Bentivoglio noi troviamo due Violanti. La prima, figliuola della nostra Ginevra e di Giovanni II, maritata nel 1489 a Pandolfo Malatesta, superba e sdegnosa come sua madre, così da contribuire non poco alle sventure dei Malatesta; l’altra, figlia d’Alessandro , maritata a Giampaolo Sforza marchese di Caravaggio, donna colta, gentile e piena di spirito, che il Domenichi fece interlocutrice d’uno de’ suoi dialoghi editi nel 1549.
Riteniamo che la Violante che possedette il codice fosse questa ultima, perchè il carattere delle parole riprodotte è certo della metà circa del secolo XVI, e perchè il libro ebbe, come vedremo, dapprima, e mentre proprio fioriva la Violante di Ginevra, una proprietaria cui l’invio lo stesso Sabadino.
Descriviamo intanto il codice parmense. Come il bolognese, ha la legatura originale coi piani di legno coperti di bazzana con impressioni a secco, legatura che si deve allo stesso artefice che legò il primo codice facendovi identici fermagli. In mezzo, fra gli ornati impressi, si scorge lo stemma dei Bentivoglio.
Questo codice è cartaceo, consiste in carte centosessanta di mm. 307 × mm. 206, (di cui soltanto il verso dell’ultima è bianco ) e reca la segnatura moderna HH. I, 79, n. 1295.
Nel primo riguardo coperto, di pergamena di carattere posteriore a quello del codice è scritto prima: Al nome de idio e de la gloriosa vergine maria; poi Intra le altre nostre matrone antique (parole con le quali Sabadino comincia l’elogio di Pezola di Piatesi); poi Ne la mia afecionatamente Ginevera Sforcia (prime parole del proemio) e finalmente l’ottava:
Voi che di tal beltà suberba (sic) andate
Sprezando amor e chi soi frutti brama,
Dolce nemica mie (sic) deh, riguardate
Quel che per voi se strugie a drama a drama.
Il misero mio cor, dico, guardate
D’aspri feri ferito ardere in fiama.
Miratel tutto, esaminal bene,
Crudel che per voi sento tanto (sic) pene.
Nel verso della carta membranacea unita al riguardo anteriore o carta di guardia si legge:
Illustri d. Gineverae Sportiae de Bentivolijs Andreas Magnanus Salutem.
S’io potessi Madonna in Queste Carthe
Exprimere il Concepto del mio core
Ti farei cum mei versi tanto honore:
Che exaltata saresti in ogni parte.
Ma al gran subiecto si confonde l’arte
E al bel disegno mancha ogni colore:
E s’Appolo mi presta el suo favore
Spero Mille anni anchor viva lassarte.
O gloriosa cità fra l’altre in terra:
0 felice signor di tal Consorte
Pudica et sagra sempre in pace e in guerra.
Copia non fu giamai di cotal sorte:
Che Amore e fede in un sol groppo serra
Qual mai non troncharà fortuna o morte.
Di quest’Antonio Magnani autore d’altri sonetti, fa ricordo lo stesso Sabadino che in fine della Gynevera lo chiama gratioso et splendido cavaliero.
La prima pagina del codice è miniata evidentemente dalla stessa mano che ha miniato il codice bolognese, ma meno riccamente. In basso, invece dell’impresa del cervo, si vede il ginepro, solito simbolo di Ginevra Sforza, a cui è appeso uno stemma inquartato sega e scacchiera ossia Pepoli-Bentivoglio. Questo stemma indica senza dubbio la persona cui l’esemplare parmense fu offerto in origine, probabilmente da Sabadino stesso. Intanto, allora, nessuna donna di casa Pepoli, andò sposa a un Bentivoglio. Invece troviamo che Elisabetta «figliuola della dolce memoria di Antonio Galeazzo Bentivoglio ( figlio di Giovanni II e di Ginevra ) gloria del bolognese nome » fu maritata a Romeo Pepoli che lasciò la vita nella battaglia di Ravenna, nel 1512. È vero che quando Sabadino scriveva la Gynevera , Elisabetta era già morta (pagina 375); ma egli stesso scrive due righe più avanti «che de lei, in laude del suo pudico ventre, sono cinque belli figliuoli, due maschi, et tre femine vedoe de grande honestate et de optima fama, che tuti sono ornamenti de la nostra citate.» Ad uno adunque di questi figliuoli e forse meglio ad una delle figliuole, come suggerisce la natura del libro, fu molto probabilmente offerto il codice che ora si trova a Parma.
XIV.
Di poca o nessuna importanza è la copia cartacea scorrettissima fatta nello scorcio del secolo passato , e che si trova nella Biblioteca Comunale di Bologna rozzamente legata in cartone. Nel dorso è scritto Arienti — Ginevra — Clare Don. Manca di frontespizio e comincia con l’indice, che occupa tre pagine d’un foglio non numerato. Le carte numerate cominciano dal proemio e sono centosettanta di mm. 301 X 207. Nel verso dell’ultima carta si legge: «Tutto il retroscritto Libro composto di carte n. 170 intitolato Opera nominata Gynevera de le Clare donne composta per me Joanne Sabatino de li Arienti ad la Ilustre Madonna Gynevera Sphorza di Bentivogli è stato trasuntato fedelmente dal suo originale Libro scritto in carta comune con cartoni di Legno coperti di Bazzana contrassegnato al di fuori col n. 67, conservato nello scrigno esistente in questo pubblico Archivio di Bologna. In fede ecc. Questo di 12 settembre 1794.»
Sotto è un’autenticazione di notaro con un bollo inintelligibile: «[Bollo] Ita est Julius Cæsar Andreas Maria d. Ferdinandi Mazzolani Notarius Publicus Collegiatus Bononiæ Apostolicus atque Imperialis et unus ex Pressidibus in dicto publico Archivio. In quorum etc.»
Questa copia è certo quella indicata, nel 1835, dall’editore dell’elogio di Francesca Bruni degli Arienti, nelle parole: «Una precisa copia autenticata ed esattis sima si possiede dal ch. Francesco Tognetti, già professore d’Eloquenza nel patrio Archiginnasio ed attual Pro-Segretario nella nostra Pontificia Accademia di belle Arti.»
In una miscellanea manoscritta, conservata nella R. Biblioteca Universitaria di Bologna col n. 83, appartenuta già ad Ubaldo Zanetti, al n. 10 si trova la «Vita della Beata Caterina da Bologna di Gio. Sabbadino degli Arienti.» Contiene un opuscolo di diciotto carte di mm. 291 × 208. Nel recto della carta 2 è scritto: «Vita di S. Catterina da Bologna levata dal libro intitolato Opera nominata ecc. esistente nello scrigno del publico Archivio di Bologna, al fol. 67 v. di detto libro.» Il carattere di questa copia è del secolo passato.
Non s’hanno notizia d’altri co dici, nè meno frammentari, della Gynevera.
XV.
Per la presente edizione abbiamo seguito diplomaticamonte il codice dell’Archivio di Stato in Bologna , come il codice più ricco, datato dal 1483, e di mano di Sabadino. Il codice parmense è pure autografo, ma senza data e meno splendido, quantunque più conservato. Del resto, la lezione è identica e le poche varianti non sono che ortografiche e così inconcludenti da tornar perfettamente inutile riprodurle in nota.
Richiesto per noi il codice di Parma, il Ministero della Pubblica Istruzione fu sollecito a permettere che fosse inviato nella Biblioteca Universitaria di Bologna. Allora, pei confronti indispensabili col codice dell ’ Archivio di Stato, si chiese al Ministero degli Interni di poter trasportare il codice dall’Archivio alla Biblioteca, nella stessa città, con sorveglianza immediata degl’impiegati governativi. Sapevamo che i regolamenti non sono favorevoli per la consegna di carte archivistiche ai privati, ma pensavamo eziandio che esistevano precedenti in nostro favore, che il codice richiesto era semplicemente letterario, e che si trattava di portarlo da un istituto governativo ad un altro.
Ciò non valse. Il Ministero degl ’ Interni non ci favori, come favorì altre volte un senatore bolognese. Non c’è che dire. Anche in Italia il favore agli studi dipende dalla posizione politica!
Note
- ↑ Nell’indice sembrano 33, ma è da notarsi che i numeri 9 e 10 sono duplicati.