Guglielmo Wilson
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GUGLIELMO WILSON
Che ne dirà essa mai? che dirà
questa spaventosa coscienza, questo
spettro che avanza sul mio cammino?
Chamberlayne, Farronida.
Desidero che, pel momento, mi sia concesso di chiamarmi Guglielmo Wilson.
La vergine pagina, che mi sta aperta dinanzi, non dev’essere lordata dal mio vero nome. Pur troppo, questo nome è stato quasi sempre un oggetto di sprezzo e d’orrore, — un truce abbominio per la mia famiglia. E che? — Non è egli dunque vero che anche gli stessi venti, sdegnatine, ne portarono sino alle più lontane regioni la sua infamia incomparabile? Me misero! — dei proscritti il più proscritto di tutti! — Non sei tu dunque eternamente morto a questo basso mondo? Non si è forse eternamente interposto un fitto velo, una nube lugubre ed illimitata tra le tue già sì belle speranze ed il cielo?
No, no; quantunque il potessi, io non vorrei oggi consegnare a queste pagine i ricordi de’ miei ultimi anni, — anni di miseria ineffabile, anni d’irremissibili delitti. Cotale recente periodo della mia vita si è facilmente lordato di turpitudini tanto nefande, ch’io devo soltanto delinearne le semplici origini. Questo, per ora, il mio solo scopo.
Generalmente, gli uomini non diventano d’un tratto perversi e codardi, ma solo per gradi. Eppure, quanto a me, ogni principio di virtù mi abbandonò di primo colpo, issofatto, a guisa d’un mantello che ci scivoli da le spalle; e, da una perversità relativamente ordinaria, corsi con passo di gigante ad enormezze più che da Eliogabalo. Lasciate ch’io vi narri ampiamente qual fu la strana sorte, quale l’accidente unico, o rarissimo, che mi trascinò a tale stato, di maledizione. Che! non lo so? la morte mi si avvicina; e l’ombra che la precede ha versato pietosa i suoi dolei influssi sul mio povero cuore. Nell’attraversare questa mesta valle di pianto, io più non sospiro che alla pietà — era lì per dire alla simpatia — de’ miei simili. Ai quali, in certo qual modo, io vorrei persuadere di essere stato lo schiavo di ferree circostanze, che impudentemente sfidavano ogni uman sindacato.
Amerei ch’essi, nelle molteplici e minute circostanze che loro esporrò, scuoprissero a mio vantaggio qualche piccola oasi di fatalità nello sterminato deserto di tanti errori. Vorrei, ch’e’ m’accordassero ciò che, infine, non mi potran rifiutare; chè, sebbene questo mondo abbia conosciuto tentazioni grandissimamente pericolose, nessun uomo sinora fu unqua tentato in questa maniera — e nessuno per certo cadde al modo mio. È egli dunque per questo, che niun conobbe mai gli stessi dolori? O non avrò io proprio vissuto che di sogni? Nè, dunque, io morrò vittima dell’orrore e del mistero delle stranissime fra tutte le visioni di quaggiù?
Io sono il discendente di una razza segnalata in ogni tempo per un’indole immaginosa ed eccitabile sovranamente; e la mia prima infanzia stessa comprova ch’io aveva intieramente ereditato il carattere della mia famiglia. Col crescere degli anni questo carattere disegnossi più fortemente, e divenne per mille modi una ragione di serie inquietudini pei miei amici, e di pregiudizio, effettivo per me stesso. Per natura e per volontà io mi diedi ai più selvaggi capricci e fui in balia delle passioni più indomabili. Spiriti deboli, e disgustati anche dai difetti della fisica mia costituzione, i miei parenti non potevano molto adoprarsi per frenare le pessime tendenze che in me allignavano sì spiccate. Fecero, è vero, qualche tentativo per migliorarmi; ma, perchè debole e mal diretto, non riescirono, — lo che fu per me un motivo di completo trionfo. Da allora, la mia parola in casa fu legge, e in un tempo in cui pochi pochissimi fanciulli smettono gli abili di loro età, io venni lasciato al mio libero arbitrio, e mi trovai signore di tutte le mie azioni, — il nome eccettuato.
Le prime impressioni della mia vita di studente sono legate ad una vasta e stravagante casa dello stile d’Elisabetta, in un mesto e remoto villaggio1 della vecchia Inghilterra, il quale era abbellito di spessi, giganteschi e nodosi alberi, — villaggio le cui case mostravano un aspetto di secolare antichità, di storica importanza.
Questa piccola e venerabile cittadetta era un vero nido di bei sogni, fatto per esilarare gli spiriti e destarli alla contemplazione. Pensando a quei suoi viottoli profondamente ombrosi, solitari, strani, anche adesso provo un sentimento arcano, consolatore; e tuttavia mi inebbriano gli effluvii graditi de’ mille suoi tigli, e mi balza il petto d’indefinibil contento ai rintocchi lenti e solenni della campana che, d’ora in ora, — quasi eco misteriosa di altra terra — rompeva la quiete della bruna ammosfera nella quale perdevasi e s’addormentava il gotico e merlato campanile.
E io provo tutto il piacere che m’è possibilmente dato ancor oggidì provare, divagando e trattenendomi sopra queste minuziose ricordanze della scuola e de’ suoi sogni. Inabissato, come sono, nella sventura (sventura, pur troppo ohimè reale e trista!) credo mi verrà perdonato se vado in cerca d’un sollievo qualunque, pur tenue e cortissimo, in questi fanciulleschi e vaghi particolari. D’altronde, sebben volgari e di per sè stessi ridicoli, ei pigliano nell’immaginazione mia un’importanza tutta circostanziale a causa di lor intimo nesso coi luoghi e l’epoca dove oggimai arrivo a discernere i primi ambigui avvisi del destino, che da quel tempo cotanto intensamente m’avvolse nella sua ombra. — Lasciate, oh! lasciate dunque che me ’n ricordi!
Vecchia, come dissi, ed irregolare era quella casa, — vasto il terreno, tutto cinto da alto e solido muro di mattoni, incoronato da strati di calcinaccio e di vetri rotti. Questa cinta, non indegna di una prigione, segnava i limiti di quel dominio; e noi non uscivamo di là che tre volte per settimana — una al giovedì, nel dopo pranzo, quando, accompagnati da due prefetti, ci si permetteva di far brevi passeggiate in comune, traverso le vicine campagne; e due volte alla domenica, allorchè — con una regolarità di militi in rassegna — ci recavamo ad assistere agli uffizii del mattino ed ai vespri nell’unica chiesa del villaggio.
Il direttore della nostra scuola era anche il curato di questa parrocchia.
Con quale profondo sentimento di ammirazione e di perplessità io era assuefatto a contemplarlo dai banchi remoti della nostra tribuna allor ch’ei saliva a passi lenti e solenni la scaletta del pulpito! Come mai — io pensava — quest’uomo venerabile, dall’aspetto sì modesto e benigno, dal camice sì giusto e pulito e con isfarzo chiericale, ampio, ondeggiante e così ben soppressato, — come mai, dico, potev’egli essere quegli stesso che, pochi momenti prima, con viso acre ed asciutto e in vesti lorde di tabacco, pretendeva — la sferza in mano — di eseguire in iscuola leggi draconiane? — Paradosso veramente straordinario, la cui unica mostruosità soltanto ci impedisce di potergli trovare una spiegazione qualsiasi!
In quell’angolo di muro massiccio aprivasi misteriosamente una porta nera e pesante, chiusa a bandella, munita di chiavistello e sormontata da una cresta di acute punte di ferro. Quali sentimenti di profondo terrore non ci spirava tal porta! Ed essa non si apriva mai, mai — tranne che per le tre periodiche nostre uscite al passeggio, ed al rispettivo ritorno: allora, ad ogni suo stridere cupo sugli arpioni, noi presentivamo un mesto influsso di mistero, — un mondo indefinito di osservazioni solenni, un arruffio di pensieri ancora più cupi.
Quel vasto recinto si stendeva in forma regolare divisa in più parti, di cui le tre o quattro maggiori formavano la corte di ricreazione, la quale era piana e coperta d’uno strato di sabbia pura e sottile. In essa — ben me ’n ricordo — non alberi, non panche, nè altro di analogo qualsisia. Naturalmente, essa aprivasi al di dietro della casa. Innanzi poi la facciata si distendeva un piccol giardino, in cui qua e là elevavansi bossi ed altri arbusti: però, ben di rado noi attraversavamo questa sacra oasi, in occasione cioè del nostro primo arrivo alla scuola o di definitiva partenza, o forse anco allora che un amico, un parente avendoci fatto chiamare, ebbri di gioia e di amore, ci avviavamo alla casa paterna alle vacanze del Natale o del S. Giovanni.
Ma, e la casa? — mio Dio, qual vecchia e curiosa fabbrica ell’era mai! —
Lo confesso, a me sembrava un vero palazzo di fate; e, in verità, non sarebbesi potuto trovare uscita di sorta ne’ suoi andirivieni, non fine in quegli avviluppatissimi anditi e suddivisioni. Sarebbe stato difficile in qualsiasi momento conoscere dove eravate, se cioè al primo od al secondo piano: dall’una all’altra stanza potevate star certi di trovare due, tre od anche quattro scalini per salire e discendere. Gli scompartimenti laterali poi, innumerevoli, inconcepibili; giravansi e così ben intrigavansi l’uno l’altro, che le nostre idee più esatte e fisse, relativamente all’insieme di quella fabbrica, potevano benissimo assomigliarsi a quelle con cui noi talvolta mestamente ci perdiamo nell’infinito.
Durante i cinque anni di mia residenza colà, io non fui mai capace di determinare con precisione in qual punto più o men lontano dell’edifizio fosse sito il dormitorio, che erami stato assegnato in comune ad una ventina di altri miei condiscepoli.
La sala dello studio era la più vasta in tutto quello edifizio, — la più vasta su qualunque altra di qualsiasi fabbrica umana; era tale almeno l’idea ch’io me n’era formata. Essa era lunghissima, strettissima, lugubremente bassa e con finestre rotonde e il vôlto di quercia. In un angolo lontan lontano, pieno per noi di diacciato terrore, disegnavasi un ricinto quadrato di otto a dieci piedi, rappresentante nelle ore di studio il sacro recinto del nostro direttore, il reverendo dottore Bransby. Era una costruzione solida con porta massiccia; piuttosto che aprirla in assenza del superiore, noi avremmo preferito morire della pena forte e dura2. A’ due altri angoli della sala, due altri analoghi locali, oggetti, è vero, di venerazione assai men grande, ma tuttavolta di assai notevole terrore: nell’uno, era la cattedra del professore di umanità, — nell’altro quella del professore d’inglese e di matematiche. Collocati disordinatamente in mezzo alla sala si vedevano molti e molti banchi e leggii, tutti spaventosamente sopraccarichi di libri macchiati da’ sgorbi moltiformi delle dita; libri neri, antichi, rosi dal tempo e tanto impiastricciati di ghirigori, di iniziali, di intieri nomi, di grottesche figure e d’altrettali numerosi capolavori di temperino e di penna, che avevano intieramente perduto l’originalità della primitiva lor forma, dell’immemorabile lor passato. In fine, ad un’estremità della sala trovavasi un’enorme secchia d’acqua, vero tinello; e, dall’altra, un orologio di dimensioni strabocchevolmente prodigiose.
Sepolto tra le massiccie mura di questo venerabile, istituto, io passai nondimeno senza noia e senza disgusti gli anni del terzo lustro di mia vita. Il fecondo cervello dell’infanzia non avendo bisogno di un mondo d’incidenti esteriori per essere occupato e per ottenere un po’ di svago, quell’apparente e lugubre monotonia della scuola mi ha conceduto eccitamenti più intensi e più vivi di tutti quelli che la mia posteriore e potente gioventù ne abbia chiesto alla stessa voluttà, o la stessa mia virilità al delitto. — Tutta fiata io debbo credere che il primo svolgersi delle mie facoltà intellettuali fu in gran parte straordinario, ed anzi assai sregolato. In generale — e forse è molto deplorabile — gli avvenimenti dell’esistenza nostra infantile non lasciano sull’uomo, giunto agli anni maturi, un’impressione ben delineata. E di tutto quel tempo beato resta solo un’ombra grigiastra, un debole ed irregolare ricordo, sogni confusi di vaghi e tenui piaceri e di fantasmagoriche pene. Eppure io non posso dir questo di me. Importa veramente che sin dalla mia infanzia con tutta l’energia dell’uomo fatto io abbia sentito tutto quanto anco al dì d’oggi sento scolpito nella mia memoria in linee tanto vive, profonde e durevoli, quanto l’esergo delle medaglie cartaginesi.
E nondimeno, nel fatto, cioè secondo l’ordinario modo di vedere d’ognuno, quanto di poco notevole eravi mai in tutte queste cose per risvegliar l’interesse di cari ricordi! La sveglia del mattino, l’ordine del coricarsi la sera, le lezioni da imparare, le recite, le brevi vacanze periodiche, le passeggiate, la corte di ricreazione colle sue piccole confidenze, con le sue agrette contese, i suoi divertimenti, i suoi intrighi; tutto ciò, dico, per un’anima lungamente cullatasi in fallaci illusioni d’oro, conteneva un ammasso di sensazioni potenti, un universo di moltiformi emozioni, di surrecitazioni appassionate e inebbrianti. — Oh, come è buono, come è eccellente questo nostro secolo di ferro!
In realtà la mia ardente natura, entusiasta, imperativa, non tardò a far di me un carattere distinto tra que’ miei camerata, e, poco a poco, direi naturalmente, mi diede una tal quale superiorità su tutti coloro che mi avanzavano di poco in età, sopra tutti, ad eccezione d’un solo. Era questi uno studente che, senz’ombra alcuna di parentela con me, portava lo stesso mio nome di battesimo, lo stesso mio nome di famiglia; — circostanza poco notevole in sè, poichè il mio, non ostante la nobiltà delle sue origini, era un di quei comuni appellativi che, come per diritto di prescrizione, paiono essere quasi sempre stati proprietà delle moltitudini.
Pertanto in questo racconto io ho assunto il nome di Guglielmo Wilson, nome fittizio, che tuttavia non si discosta molto dal vero. Tra coloro che, secondo l’espressione dell’istituto, componevano la nostra classe, quegli solo che portava il mio nome osava gareggiare con me negli studi della scuola, nei giuochi e nelle dispute di ricreazione; e con orgoglio rifiutava fede alle mie asserzioni, ed una completa sommissione alla mia volontà; insomma, sempre ed in ogni modo avversava la mia dittatura. Notate bene: se mai ci ebbe quaggiù un dispotismo supremo ed assoluto, illimitatissimo, e’ fu ed è quello di un fanciullo di genio che s’erge sugli animi meno energici e pronti de’ suoi camerata.
Per me, sorgente di serie noie e di grandi imbarazzi la ribellione di Wilson; e tanto più che, — in dispetto alla millanteria con cui mi faceva un dovere di trattarlo in pubblico, lui e i suoi pretendenti, nell’intimo io sentiva di fortemente temerlo; e l’uguaglianza che con tanta facilità e’ manteneva rimpetto a me, mi appariva, e lo era, come una vera prova della sua superiorità, — poichè da parte mia doveva perdurare in un continuo sforzo per non esserne dominato.
Nondimeno, una tale superiorità, o piuttosto uguaglianza, non era in fin fine riconosciuta ed ammessa che da me solo; per una cecità inesplicabile, sembrava che i nostri camerata non sospettassero la cosa menomamente. Invero, la sua gara, la sua resistenza, e in modo speciale l’impertinente e maligno suo impicciarsi ne’ fatti miei, non oltrepassava i limiti di private intenzioni. Egli sembrava egualmente spoglio di quella ambizione che mi spingeva continuo a dominare su tutti, ed alieno da quell’energia appassionata che mi somministrava i mezzi di oprare. Sarebbesi potuto credere che, in tale rivalità, e’ fosse unicamente spinto e diretto a contrariarmi, a sorprendermi, a mortificarmi con una specie di disio stravagante, fantastico, — quantunque alcune volte io non potessi a meno di notare con senso confuso di stupore, d’umiliazione e di collera, che a’ suoi oltraggi, alle sue impertinenze, alle sue contraddizioni egli accoppiava una cert’aria d’affetto la più fuor di luogo, e — certamente — per me penosissima. Nè mi poteva render conto d’una condotta tanto strana, se non col supporla effetto di una finissima albagía, che sarcasticamente si permettesse i modi volgari di patrono e di giudice.
Forse quest’ultimo indizio nella condotta di Wilson fu quello che, unito alla nostra omonimia ed al fatto puramente accidentale della nostra simultanea entrata alla scuola, diffuse l’opinione tra’ nostri condiscepoli delle classi superiori, che noi fossimo fratelli. D’ordinario non erano eglino usi darsi pensiero degli affari ed abitudini dei più giovani loro colleghi. Ma, per verità, se noi fossimo nati di stessa madre, certo saremmo riusciti gemelli; avvegnachè, dopo ch’io abbandonai la casa del dottore Bransby, appresi così per caso che il mio similissimo omonimo era nato a’ dì 19 gennaio 1813: — vedete coincidenza notevolissima; questo era pure il giorno preciso della mia nascita!
Può sembrare strano che, a dispetto dell’ansia continua in cui io viveva a causa della rivalità di Wilson e dell’insopportabile suo spirito di contraddizione, io non provassi veramente per lui un odio assoluto e profondo. Senza fallo, ogni dì tra noi due suscitavansi querele, in cui accordandomi egli in pubblico la palma della vittoria, nondimeno si studiava di darmi a conoscere ch’ei solo l’avea meritata; e non pertanto un sentimento d’orgoglio da parte mia e di vera dignità da parte sua ci permetteva di mantenerci in uno stato continuo di stretta convenienza, mentre poi esistevano reciprocamente ne’ nostri caratteri moltissimi punti di conformità atti a svegliare in me un giusto sentimento, cui solo la nostra rispettiva situazione impediva di maturarsi in amicizia.
Per verità, mi riescirebbe, nonchè difficile, quasi impossibile il definire, o meglio il descrivere i veri miei sentimenti rispetto a lui: dirollo; essi formavano un amalgama il più eterogeneo, dai più strani colori; — specie di petulante animosità, che non era ancor odio, non istima, ed ancor meno rispetto; ma tenea del timore e d’un’immensa ed irrequieta curiosità. Credo inutile aggiugnere pel moralista che amendue, Wilson ed io, eravamo gl’inseparabili tra’ camerata.
Non fu l’influsso di un’ostilità tutta seria e spiccata, bensì l’anomalia e l’ambiguità di quelle nostre relazioni (schiette o dissimulale, esse erano sempre numerose), che indebolirono tutti i miei assalti contro di lui in forza di un sarcasmo vivo e persistente. E quali ferite non può egli aprire un umore inflessibile e severo? — Ma su questo punto i miei sforzi non ottenevano mai un trionfo regolarmente perfetto, neanco quando i miei disegni eran orditi con tutte le sottigliezze della malizia; imperciocchè il carattere del mio omonimo era quello di un’austerità tutta piena di ritenutezza e di calma, la quale mentre gli lasciava la soddisfazione dei piccanti suoi frizzi, lo metteva in grado di rimanersene invulnerabile, senza essere tocco dalle stimmate del ridicolo. Tuttavia, un punto solo io scorgeva in lui vulnerabile, ed era un’imperfezione fisica che, procedendo forse da un’infermità di costituzione, non avrebbe mai offerto appiglio ad un antagonista, se non avesse avuto più nimiche disposizioni delle mie. Il difetto del mio rivale consisteva tutto nella laringe; per cui quando parlava il tono della sua voce non poteva oltrepassare quello d’un bisbigliamento sommesso sommesso. Ed è da quest’imperfezione che io traeva tutti i ripieghi della mia nimicizia.
Le rappresaglie di Wilson erano moltiformi, ed egli usava un cotal suo genere di malizia che mi poneva addosso il più nero umore. In qual modo abbia avuto sin da principio la sagacità d’indovinare, che una cosa di così piccol rilievo potesse inquietarmi, è tale quistione ch’io non ho mai potuto risolvere: tuttavia, non sì tosto e’ l’ebbe scoperta, con pertinacia straordinaria mise in opra questa nuova tortura. Io aveva provato sempre avversione al nome sventurato della mia famiglia ed al mio nome personale, cotanto comune e quasi tutt’affatto plebeo. Le stesse sue sillabe mi suonavano ingrate ingrate all’orecchio; e quando, il primo giorno del mio arrivo, udii un altro Guglielmo Wilson rispondere all’appello della scuola, io provai contro di lui un astio ben amaro, e doppiamente mi increbbe che quel nome fosse portato da uno straniero, — uno straniero, che così sarebbe stato cagione ch’io l’intendessi profferire due volte, — che continuamente sarebbesi trovato al mio cospetto, e i cui affari nel comune andazzo delle occupazioni del collegio spessissimo ed inevitabilmente si sarebbero confusi co’ miei in ragione appunto di questa coincidenza detestabile.
Il sentimento d’irritazione, destomi da tale accidente, si faceva più vivo ogni quando per nuove circostanze venisse messa in maggior evidenza la riassomiglianza morale o fisica tra il mio rivale e me. Io non aveva scoperto il fatto notevolissimo della parità de’ nostri anni, ma io ben vedeva che eravamo della stessa statura, e m’accorgeva esistere una rassomiglianza singolarissima nel complesso delle nostre fisonomie e de’ nostri lineamenti. — Mi sentiva egualmente inasprito dalle voci che correvano sulla nostra parentela, voci che generalmente trovavano fede nelle classi superiori. In una parola, nessuna cosa più seriamente mi poteva disgustare (sebbene mi studiassi con grande cura di celare ogni contrassegno, di questi timori) di una semplice allusione alla nostra somiglianza, sia rispetto allo spirito, che alla nascita ed alta persona. Nondimeno, io non aveva ragione alcuna di credere che una tale rassomiglianza — eccettuato il fatto della parentela, e tutto quanto Wilson medesimo potesse vederne — fosse stata per un solo istante oggetto di commenti o di note pei nostri condiscepoli. Che egli tenesse d’occhio questo fatto in ogni sua apparenza e con altrettanto studio quant’io stesso ne usava, era cosa evidentissima; ma che egli avesse potuto scuoprire in simili circostanze un volto tanto conturbato per simili ansie e contrarietà, io non potrei attribuirlo, come già accennai, che alla di lui sagacia veramente sottile.
Wilson mi dava sempre il suo ripicco con una perfetta imitazione di me stesso, ne’ gesti e nelle parole; e mirabilmente rappresentava la sua parte. Facil cosa invero era lo imitare i miei modi; — il mio incesso, i miei portamenti e’ se li appropriava con una garbatezza finita; e, a dispetto del suo costituzionale difetto, sapeva imitare la mia voce completamente. Bisognava però, intendiamoci, che non tentasse i toni elevati: però la chiave era identica, e la sua voce, purchè egli parlasse sommesso, diventava l’eco perfetta della mia.
Mi riesce impossibile il dire sino a qual punto un ritratto così singolare (che per verità non potrei chiamare caricatura) mi tormentasse. A me non restava che una consolazione; ed era, almeno secondo quanto mi pareva, che quell’imitazione fosse soltanto avvertita da me, e ch’io solo dovessi ingozzarmi i misteriosi sorrisi e gli strani sarcasmi del mio omonimo. Soddisfatto d’avere prodotto sul mio cuore il disiato suo effetto, pareva ch’egli si consolasse in segreto della puntura inflittami, e si mostrasse singolarmente sdegnoso dei pubblici applausi che la sagacia del suo ingegno con tanta facilità gli procurava. Come mai i nostri camerata non conoscevano i suoi disegni? come mai non ne scorgevano i portamenti? perchè non ne dividevano la gioia beffarda? Lo confesso; duranti più mesi di viva inquietudine, fu questo per me un enimma veramente misterioso e sinistro.
Era forse la graduale e fina lentezza del suo modo d’imitare, che ne facesse più difficile il discernimento, o doveva io piuttosto la mia sicurezza a quell’aria di padronanza sì bene assunta dal copista strano, che nel mio caso non ritraeva le semplici lettere (è solo degli spiriti ottusi farsi imitatori materiali), ma esprimeva perfettamente l’originale, a mia grandissima ammirazione ed a mio marcio dispetto?
In verità non mi riuscirebbe tanto facile il darvi adequata risposta.
Ho già spesso cennato di quella sua aria di straziante protezione ch’egli avea assunto verso di me; già dissi di quel suo frequente ed officioso intromettersi nelle mie volontà; intromissione che prendeva di spesso il carattere dispiacente d’avvertimento, — avvertimento non dato, è vero, a viso scoperto, ma suggerito, insinuato. Ed a me toccava riceverlo con una ripugnanza che andavasi aumentando col crescere dell’età. Tuttavia, oggimai che mi trovo si distante da quell’epoca, è debito mio il rendergli questa stretta giustizia, che io riconosco di non rammentarmi di un solo semplice caso in cui le suggestioni del mio emulo abbiano partecipato a quel carattere di errore e di follia, privo sempre di maturità e di esperienza, che sarebbe stato naturale alla sua età; — riconosco, che il suo senso morale, se non i suoi talenti e la sua prudenza, facilmente per finezza vinceva il mio; e che adesso io sarei un migliore uomo, e conseguentemente meno infelice, se avessi meno sdegnato i consigli portimi in quel suo susurro misterioso, che m’inspirava un odio sì forte e un disprezzo sì amaro.
Pertanto, a lungo andare, io diventai eccessivamente ribelle all’odiosa sua sorveglianza, ed ogni giorno più apertamente detestai ciò ch’io teneva come un’insopportabile soperchieria. Dissi che, nei primi anni del nostro vivere al collegio, i miei sentimenti a rispetto suo si sarebbero potuti facilmente piegare in bell’amicizia; ma, duranti gli ultimi mesi del mio soggiorno alla scuola, quantunque l’importunità della sue abituali maniere si fosse apertamente scemata, i miei sentimenti, in proporzione quasi simile, eransi proprio volti in un odio reale. E vi fu — almen lo presumo — una circostanza in cui egli ben di ciò s’accorse; e da quel dì m’evitò, o affettava almeno d’evitarmi.
Se la memoria non mi falla, fu verso quest’epoca che, in un alterco violento con lui sostenuto, alterco in cui dimenticò la sua circospezione abituale, parlando ed oprando con un lasciar fare contrario all’indole sua, io scopersi, o credetti di scuoprire nel suo accento, nell’aria sua, nel complesso della sua fisionomia, un non so che, che a tutta prima fecemi vivamente trasalire, e dappoi profondamente interessommi, destando nel mio spirito come delle oscure visioni della prima infanzia, — ricordi strani, confusi, rapidi, — ricordi d’un tempo in cui la mia memoria non era ancor nata. Nè meglio io saprei definire quell’ibrida sensazione ond’era preso, se non col dire che mi riesciva difficile lo sbarazzarmi dall’idea che io avessi già conosciuto l’anteriore mio essere in un’epoca molto antica, in un passato estremamente, ineffabilmente lontano.
Tutta fiata, cotale illusione svanì altrettanto rapidamente, quanto rapidamente erami comparsa; e qui io non la noto che per far conoscere l’ultimo giorno da me passato col mio fatale omonimo.
Il vecchio ed ampio edilizio, ne’ suoi innumerevoli e grandi scompartimenti, comprendeva molte e vaste camere in comunicazione tra loro, che servivano di dormitorj al maggior numero degli allievi. Vi era nondimeno (come di necessità si trova in cotali fabbriche, tanto sventuratamente disegnate, e più sventuratamente erette) un’infinità di cantoni, cantucci e nascondigli — vere frangie, rimasugli o ritagli di sì gran costruzione — dei quali tutti l’economico spirito del dottore Bransby aveva saputo trarre vantaggio, trasformandoli egualmente in dormitorj: ma siccome non erano che semplici camerette, non potevano servire che ad un solo individuo. E una di queste piccole camere era appunto occupata da Wilson.
Una notte — volgeva il quinquennio della mia dimora colà, e immediatamente in seguito all’alterco di cui ho parlato, — approfittando dell’ora in cui tutti i miei camerata quietavano in profondo sonno, mi alzai da letto, e, una lampada in mano, sguisciai a traverso un labirinto di stretti corridoi, avviandomi verso la stanzetta del mio rivale. Era già molto tempo ch’io mi stillava il cervello per fargli un bel tiro, un di que’ brutti, odiosi tiri in cui sino a quel dì non era potuto riescire. Sin d’allora, dico, essendomi fisso nel proposito d’eseguire il mio disegno, risolvetti di fargli provare la malvagità di cui ero capace.
Pian piano giunsi alla sua cameretta; posai sulla soglia la mia lampada, cuoprendola col paralume, e cheto cheto, quasi rattenendo il fiato, mi spinsi innanzi. Procedetti d’un passo e mi posi ad ascoltare il sordo rumore della sua tranquilla respirazione. Certo ch’ei dormiva profondamente, ritornai alla porta, presi la lampada e mi appressai al letto. Essendo chiuse le cortine, le ritirai adagio adagio per effettuare i miei propositi; ma, in questa, la luce viva della lampada brillò tutta quanta sul dormiente, e nell’attimo stesso i miei occhi si arrestarono sulla di lui fisionomia. — Rimasi a divorarmelo cogli occhi; — quand’ecco un intirizzimento, una vera sensazione di ghiaccio invade ogni più recondita fibra dell’esser mio. Violento battemi il cuore, mi vacillano le ginocchia, e tutta l’anima è presa da un orrore intollerabile ed inesplicabile. Il mio respiro era convulso; — avido avvicinai ancor più la lampada alla sua faccia.
— Eran quelli, eran quelli i lineamenti di Guglielmo Wilson? — Lo erano?!
Ed io pure scorgeva ch’erano i suoi, ma tremava, tremava a verga a verga, come in un accesso di febbre, al solo immaginarmi che non fossero i suoi. — Ma qual cosa era dunque in essi che mi potesse a tal segno confondere? Io lo contemplava, e sentiva il mio cervello dar di volta sotto l’influsso di mille incoerenti pensieri. No, egli non mi sembrava proprio così, e nemmeno mi appariva tale nella sveglia od alle ore della nostra ricreazione.
— Dio! lo stesso nome! i lineamenti stessi! entrati lo stesso dì al collegio! E poi quella beffarda ed inesplicabile imitazione de’ miei passi, della mia voce, delle mie abitudini, de’ miei modi! E che! era egli dunque ne’ limiti delle possibilità umane che ciò che vedeva adesso, fosse il semplice effetto dell’abitudine di quell’imitazione sarcastica? — Vinto di terrore, tremante dal freddo, estinsi la lampada, e silente e mogio mogio uscii di camera, rifacendo i miei passi....
Alcuni giorni dopo, io aveva dato l’addio a quelle per me sì ingrate e terribili mura3.
Dopo lo spazio di più mesi da me passati presso i miei parenti nel più assoluto ozio e nella più deplorabile spensieratezza, io venni condotto al collegio di Eton. Questo breve intervallo di tempo era bastato per affievolire i miei ricordi degli avvenimenti del collegio Bransby, o almeno ad operare un notevole mutamento nella natura dei sentimenti inspiratimi da simili rimembranze. La realtà, la parte viva del dramma per me più non esisteva. Per la qual cosa adesso quasi quasi sembravami avere motivo di dubitare della testimonianza dei sensi miei; e quasi sempre al rammentarmi quell’avventura meco stesso maravigliava degli eccessi vivaci della nostra credulità, e rideva pensando alla veramente prodigiosa forza di fantasia, ch’era retaggio di mia famiglia. La turbinosa follia, a cui immediatamente e spensieratamente mi abbandonai, cancellò ogni traccia del fosco passato, e — qualche raro baleno eccettuatone — assorbì brevissimamente ogn’impressione seria e soda, solo lasciando nei ricordi della giovine mente le leggerezze e le fanciullaggini della precedente mia esistenza.
Non è tuttavia mio intendimento di qui tracciare il corso delle sciagurate mie dissolutezze, che, sfidando impunemente ogni legge, eludevano qualunque sorveglianza. Tre anni, tre anni, dico, di ogni sorta di pazzie, fatte senza profitto alcuno, s’intende, mi avevano infine inoculato gli abiti del vizio più profondo, e promosso in un modo singolare ed anormale le facoltà della fisica mia costituzione. Un dì, dopo un’intiera settimana di sregolatezze le più brutali, io invitai una compagnia di studenti fra i più dissoluti a un’orgia segreta nella mia stanza. Dovendosi quella scena di sfrenatezza scrupolosamente protrarre sino al mattino, noi ci riunimmo a notte già alta. Le vivande copiose e squisite e i vini generosi versavansi a guazzo ne’ calici splendenti; nè vi ha dubbio si fossero lasciate in disparte seduzioni di ben altra pericolosa natura: a tale che, in sul primo impallidire dell’alba su ’n cielo, le nostre turpi stranezze, i nostri brutali delirii erano al colmo. Acceso furiosamente dai vapori del vino e dalla febbre del giuoco, io continuava, bestialmente ostinato, a voler fare un brindisi in un de’ più strani ed indecenti modi; quand’ecco a un tratto la mia attitudine distratta dall’impetuoso semiaprirsi di una porta, da cui ansia ansia si fè sentire la voce di un cameriere.
Precipitosamente annunziava che un incognito, dall’aria impresciata ed importuna, chiedeva di parlarmi nel vestibolo della casa.
Eccitato singolarmente dal vino, questa sì inattesa interruzione causommi minor meraviglia che piacere. Barcollante attraversai la sala, e in pochi passi mi trovai nel vestibolo. Nessuna lampada illuminava questa bassa e stretta stanza, in cui cominciava a penetrare il pallido lume dell’alba, quasi incerto e furtivo, a traverso l’arcuata finestra.
Ponendo il piè sulla soglia, distinsi la persona di un uomo, su per giù della mia statura, che indossava una vesta da camera di casimiro bianco, tagliata di moda, proprio come quella che in quell’istante io pure indossava. E tutto ciò potei vedere a quel debolissimo barlume, ma non mi fu possibile distinguere i lineamenti del viso. Messo appena il piè nella camera, e’ fu sopra di me, e, afferratomi il braccio con gesto imperativo, mi susurrò all’orecchio queste parole: Guglielmo Wilson!
In un attimo m’era ritornata la ragione.
Nel contegno dello straniero, nel tremito nervoso del suo dito, ch’ei teneva alzato tra i miei occhi e il barlume crepuscolare, eravi qualcosa che mi riempiva di completo stupore: questo però non era quello che più mi avesse meravigliato. Ma l’importanza del fatto, la solennità dell’ammonizione contenuta in quella singolare parola, parola sommessa, stridula, e soprattutto il carattere, il tono, la chiave di queste sillabe, semplici, famigliari, è vero, ma nondimeno susurrate con alto mistero, ecco quanto sorse ad agitarmi l’anima con mille rimembranze stranissimamente ravvolte del mio passato; e che, quasi tocco di pila voltaica, mi scosse ogni fibra. — E, prima che fossi rinvenuto in me, egli era scomparso.
Sebbene tale avvenimento avesse veracemente prodotto un effetto vivissimo sulla mia immaginazione, nondimeno quest’effetto finì con l’andare del tempo per indebolirsi e farsi nullo. Invero accadde che, nel giro di più settimane, ora mi dèssi alle più scrupolose ricerche, ora restassi profondamente avvolto in una nube di meditazione calma. Io non mi studiai per niente di dissimularmi l’identità dell’individuo singolare che si frammetteva con tanta ostinazione ne’ miei affari e mi stancava co’ suoi ufficiosi consigli. Ma, e chi era egli mai cotesto Wilson? — E donde veniva? — E quale il suo scopo? — Non mi è dato di poter rispondere a nessuno di tali quesiti: soltanto, relativamente a lui, constatai che un subitano accidente nella sua famiglia avevalo costretto ad abbandonare l’istituto del dottore Bransby nel dopo pranzo di quello stesso giorno ch’io me n’era fuggito. Ma dopo non molto tempo lasciai di pensarvi sopra, e l’attenzione mia fu tutta preoccupata dalla mia fissata partenza per Oxford. Là, favorito dalla vanità de’ miei parenti, che mi dava agio di scialarla ne’ piaceri e d’abbandonarmi tutt’affatto allo sfarzo ed al lusso, tanto a me cari, mi posi tosto a gareggiare in prodigalità coi più ricchi e potenti eredi delle più ricche contee della Gran Brettagna.
Incoraggiato al vizio da questi mezzi, la mia natura manifestossi in tutto il doppio suo ardore, e nella pazza foga della mia dissolutezza, vigliaccamente spezzai sin l’ultimo filo d’una residua decenza. Ma sarebbe assurdo il trattenermi sulle particolarità delle mie stravaganze. Basterà il sapere che vinsi in dissipazioni lo stesso Erode attico e che, dando un nome ad un’infinità di nuove pazzie, aggiunsi una copiosa appendice al lungo catalogo dei vizii, che in quei giorni sventuratamente erano in voga nella più dissoluta parte d’Europa.
Parrà difficile a credere ch’io fossi tanto caduto dal grado di gentiluomo, da studiarmi di rendermi famigliari i più vili artifizi del giuocatore di professione, e mi fossi reso discepolo di questa spregevole scienza, e che la praticassi abitualmente come mezzo di accrescere le mie rendite, diggià elevatissime, a spalle de’ miei camerata baccelloni. E tuttavia era questa la triste verità. — La stessa enormezza di un tale attentato contro tutti i sentimenti di dignità e di onore era evidentemente la principale, se non la sola ragione della mia impunità. E chi mai tra’ miei più depravati compagni, non avrebbe contraddetto alla più evidente testimonianza dei sensi, anzichè sospettare di una tale condotta il gioviale, il franco, il generoso Guglielmo Wilson, — il più nobile e il più liberale compagnone di Oxford, — quegli le cui follie (così esprimevansi i suoi parassiti) non erano che follie giovanili di fantasia sfrenata — i cui errori, inimitabili capricci, — i più neri e schifosi vizii, una stravaganza spensierata e superba?
Eran valichi due anni da che io menava questa vita scioperata e gioconda, allorchè giunse all’università un giovane di fresca nobiltà — un cotale Glendinning, — ricco, così voleva la pubblica voce, come il greco Erode, e a cui queste sfondate ricchezze eran costate un bel nulla. Non tardai ad accorgermi come ei fosse uomo di ben meschina intelligenza, quindi naturalmente il designai vittima eccellente de’ miei industriosi talenti. Cominciai a porlo in impegno di giuocare spesso, e con l’abituale astuzia del giuocatore m’indussi a lasciargli guadagnare considerevoli somme per farlo cadere con più certezza ne’ miei lacci. Da ultimo essendo ben maturo il mio disegno, risoluto di vederne la fine, m’imbattei seco lui in casa d’uno de’ miei camerata, il signor Preston, egualmente legato a noi due, il quale — è mio dovere rendergli questa giustizia — non nudriva il menomo sospetto sul mio disegno. E, a colorire debitamente la cosa, io aveva avuto cura d’invitare una società di otto a dieci persone, ed erami particolarmente studiato di far sì che l’introduzione delle carte sembrasse affatto accidentale e non avesse luogo che per proposta del merlotto cui voleva trar nella rete. Insomma, a tagliar corto, in così abbietto affare io non ommisi veruna delle sottili bassezze, tanto conosciute in simili occasioni, per cui riesce una vera meraviglia che si trovi sempre della gente tanto allocca da rimanerne vittima.
La nostra veglia s’era già di molto avanzata, quando feci in modo di prendere ad unico mio avversario il giuocatore Glendinning. Scelsi il mio giuoco favorito, l’écarté4. I componenti la nostra società, interessati dalle grandiose proporzioni del nostro giuoco, avevano tutti abbandonato le carte e facevano cerchio intorno a noi. Il nostro villan rifatto, che sino a prima sera io aveva ben eccitato a tracannare, mescolava le carte e le dava, e giuocava in modo sì strano e nervoso che riconoscevansi benissimo i vapori del vino, non tali però da mettergli il cervello fuori di posto.
In pochissimo tempo egli era diventato mio debitore di una somma enorme, allorquando, tracannato un colmo bicchiere di Oporto, fece appunto quanto io aveva freddamente preveduto; propose, cioè, di raddoppiare la posta già enormemente elevata. Affettando io con bel garbo una ragionevole resistenza, e dopo soltanto che il mio reiterato rifiuto ebbelo spinto ad acerbe parole, che diedero al mio consenso l’apparenza d’essermene piccato, m’indusse infine ad accettare. Il risultamento, s’intende, fu quale doveva essere: la vittima erasi completamente ingarbugliata ne’ lacci miei; in meno di un’ora i suoi debiti si furono quadruplicati. E già da un po’, di tempo la sua fisionomia aveva perduto quella tinta fiorita che le dava il vino; ma qui mi accorsi con vivo stupore ch’essa aveva dato luogo a un pallor di morte. E dico con istupore, poichè io aveva preso sulla persona di Glendinning le informazioni più accurate. Mi era stato dipinto per un ricco sfondolato, tale che le somme sin qui perdute, sebbene realmente forti, non avrebbero potuto — almen secondo le mie supposizioni — seriissimamente sconcertarlo, e molto meno commuoverlo in modo violento. L’idea che più naturalmente presentossi al mio spirito, si fu che il vino gli perturbasse disgustosamente lo stomaco. Intanto, a salvare il mio carattere agli occhi degli amici, anzi che per motivo di interesse, io stava per insistere perentoriamente a che s’interompesse il giuoco, allorchè alcune parole profferite a mio fianco tra gli astanti, ed una esclamazione, disprezzantissima di Glendinning mi fecero capire ch’io aveva oprato la sua completa rovina, e messelo in condizione d’essere omai un oggetto di pietà per tutti, — tanto, che manco il diavolo gli avrebbe più potuto far danno.
Mi riuscirebbe assai difficile il dire quale condotta io avrei adottato in questa circostanza. La deplorabile condizione del mio avversario aveva desto in tutti gli astanti un’aria d’impaccio e di disgusto: da alcuni minuti dominava un silenzio perfetto, durante il quale sentiva quasi con dispetto formicolarmi le guancie sotto le divoratrici occhiate di sprezzo e di rimprovero che mi vibravano gli stessi più moderati della società; confesserò egualmente che, atteso la subitanea straordinaria interruzione seguitane, momentaneamente il mio cuore sentissi come sgravato da un insopportabile peso.
Ed ecco le pesanti imposte della porta spalancarsi con impeto tanto vigoroso e violento che, quasi d’incanto, rimasero estinti tutti i doppieri. Se non che la luce morente lasciommi accorgere che lì erasi introdotto uno straniero, — un uomo a un di presso della mia statura, strettamente avvolto in un mantello. Nondimeno regnava una fitta oscurità, e soltanto da tutti misteriosamente si sentiva che egli si trovava in mezzo a noi. E prima che ciascuno fosse ritornato in sè dall’eccessivo stupore causatoci da sì inusitata violenza, udimmo una voce bassa bassa, eco perfettissima della mia, che diceva: «Signori, io non cerco scuse alla mia condotta, perchè, regolandomi di questa fatta, io non faccio che adempiere un dovere. Certamente voi non conosceste, quanto dovreste, il vero carattere della persona che ha guadagnato in questa notte all’écarté un’enorme somma a lord Glendinning. Quindi io vo’ proporvi un facile ed eccessivo spediente per procurarvi gl’importantissimi di lei contrassegni. Pregovi, signori, esaminiate a tutto vostro agio il soppanno delle maniche del sinistro braccio e i vari plichi che troverete nelle tasche piuttosto comode della ricamata veste da camera di cotesto nostro signore.»
Nell’atto ch’ei parlava, si era fatto un silenzio sì perfetto, che sarebbesi persino sentito cadere uno spillo sul tappeto. Ciò detto, e’ partissi subitamente, stravolto come era entrato. — Potrò io descrivere, potrò io almen rilevare le mie sensazioni? Evvi bisogno forse di dire che io provai tutti gli orrori del dannato? Certamente mi restava poco tempo a rifletterci sopra. — Sentii mille braccia villanamente afferrarmi, e gridar: lumi, lumi! — E lumi comparvero. Mi frugarono dal capo alle piante, e tra il soppanno della mia sinistra manica rinvennero tutte le figure principali dello écarté, e nelle tasche del mio pastrano alcuni giuochi di carte esattamente simili a quelli di cui ci servivamo nelle nostre riunioni, ad eccezione che le mie eran delle migliori, e gli onori lievemente piegati ai lati, e le carte basse piegate sulle alte, in modo appena visibile. Mercè tale disposizione, il povero ingannato che scarta, come s’usa, nella lunghezza del mazzo, scarta invariabilmente in modo da dare un onore al suo avversario; mentre l’astuto giuocatore, scartando, in lunghezza, non passerà mai alla sua vittima alcuna carta che possa essergli di svantaggio.
Una tempesta d’indignazione non mi avrebbe tanto atterrito quanto lo sprezzante silenzio e la calma sarcastica che successero a quella scoperta.
— Signor Wilson, disse il nostro ospite, mentre piegavasi a raccogliere a’ suoi piedi un magnifico pastrano foderato di preziosissima pelle, signor Wilson, eccovi; questa è roba vostra (È a notarsi che facendo in quel giorno assai freddo, nel partirmi di casa mi era cacciato indosso l’abito del pastrano, piuttosto leggiero, lo stesso pastrano che m’era poi tolto nella camera da giuoco). Suppongo, aggiunse poi osservando con un riso amaro le pieghe del mio vestito, essere superfluo qui cercare altre prove della vostra industria. Per verità parmi ne possiate avere abbastanza. Credo però che voi comprenderete la necessità di lasciare Oxford, — e in ogni modo di uscire sull’istante da casa mia.
Avvilito, gettato proprio nel fango, è però probabile che in quel momento avrei ben io saputo cacciargli in gola con un’immediata violenza personale l’insultante linguaggio, se la mia attenzione non fosse tosto rimasta colpita da un fatto della più meravigliosa natura. Il pastrano recatomi, è inutile il dica, era foderato di pelli sopraffine, di una vera rarità e di un prezzo straordinario. Il taglio poi, di mia invenzione, era tutto di fantasia, avvegnachè in simili frivolezze io fossi molto e molto difficile, spingendo i miei gusti di Ganimede sino ai limiti dell’assurdo. — Allorchè, dunque, il signor Preston mi presentò quello da lui raccolto per terra vicino la porta della camera, mi sentii come agghiacciato dallo stupore, accorgendomi che io già teneva il mio sul braccio, intorno a cui senza neanco addarmene avealo ravvolto, — e che il nuovo offertomi era un’esatta esattissima contraffattura, in ogni sua più solide particolarità. L’essere singolare da cui per mia fatale sventura era stato smascherato, era avvolto, ben lo ricordo, in un palandrano; e mi ricordo altresì che, fra tutti, io solo era venuto al giuoco con tale soprabito. — Che fare? Serbai il più che potei la mia calma di spirito, presi pur quello offertomi da Preston e, senza che alcun vi badasse, lo soprapposi al mio; quindi vibrato uno sguardo di sfida e di minaccia, mi slanciai fuor della sala.
Quello stesso mattino, per tempissimo, lasciai precipitosamente Oxford, avviato al continente, in una vera agonia di orrore e di onta.
Ma io fuggiva invano. Il mio maledetto destino mi perseguitò trionfalmente, provandomi che il suo misterioso potere sino a quel dì erasi appena fatto sentire. In fatto, appena messo piede in Parigi, io ebbi una prova dell’interesse detestabile di Wilson pe’ miei affari. E gli anni passavano, — passavano, ed io non aveva un istante di respiro. Sciagurato! — Con quale importuno ossequio, con quale tenerezza di spettro a Roma, e’ s’immise tra la mia ambizione e me! a Roma? — E a Vienna? — E a Berlino? — E a Mosca? Perchè dunque non troverò giuste ed amare ragioni di maledirlo dall’imo cuore? Preso d’un panico, io mi diedi infine alla fuga di fronte alla sua misteriosa tirannia, come se inseguito da peste, e fuggii...., fuggii sino agli estremi limiti della terra.....
Ma fuggii invano!
E sempre e poi sempre interrogando in segreto l’anima mia, ripeteva a me stesso: — Chi è desso? — Donde viene? — Quali sono i suoi disegni? — Ma l’anima non mi dava alcuna risposta. E allora mi poneva col maggiore studio a investigare le forme, il metodo, le fattezze singolari dell’insolente sua sorveglianza. Ma, e qui pure io non rinveniva gran che a fondare una qualche plausibile congettura. Ed era veramente degno di nota che, nelle moltissime circostanze in cui egli, pur di recente, mi si era messo contro sul cammino, sempre ci si fosse messo per attraversare disegni e spostare operazioni, la cui riuscita mi avrebbe costantemente tratto ad amari disinganni. — Meschina giustificazione però, questa, per un’autorità tanto imperiosamente usurpata! Risarcimento ben infelice ai miei diritti naturali di libero arbitrio, tanto accanitamente, tanto insolentemente violati!
Già da molto e molto tempo io aveva avuto motivi di notare che il mio carnefice, in quella che con esattezza ed accortezza miracolose obbediva alla mania di una toletta identica alla mia, si era sempre collocato, tutta fiata che gli piacesse inframmettersi alle mie volontà, in modo ch’io non potessi discernere i lineamenti del suo viso.
Chiunque potess’essere questo dannato di Wilson un simile mistero era però il colmo dell’affettazione e della stoltezza. Come poteva egli mai aver supposto un solo istante che — nel mio strano consigliere di Eton, nel distruttore dell’onor mio a Oxford, nell’avversario di mia ambizione a Roma, della mia vendetta a Parigi, del mio ardente amore a Napoli, e di ciò ch’ei chiamava mia cupidigia in Egitto, — che in quest’essere, dico, mio cattivo genio, io non riconoscessi lo stesso Guglielmo Wilson de’ miei anni di collegio, il mio omonimo, il mio camerata, il mio rivale, il rivale esecrato e temuto dell’istituto Bransby? — Come mai? come mai?
Impossibile! impossibile!
Ma affrettiamoci alla scena finale dell’orribile dramma.
Sino a quest’epoca io m’era vigliaccamente sottoposto al suo tirannico impero. Il sentimento di rispetto profondo con cui erami abituato a considerare il carattere elevato, la imponente saggezza, l’onnipresenza e l’onnipotenza apparenti di Wilson, unito ad una tal quale sensazione di terrore che mi ispiravano certi fatti e privilegi della sua natura, aveano desto in me l’idea della mia debolezza, anzi della completa mia impotenza, ed aveanmi consigliato — a mia grave amarezza e ripugnanza — a sottomettermi ciecamente all’arbitraria sua dittatura. Se non che, dopo questi ultimi tempi, essendomi dato con calore al bere, l’influsso eccitatore del vino sul mio temperamento ereditario rendevami ogni dì più intollerante a qualsiasi soperchieria e sindacato. Dapprima me ne lagnai sommesso, — esitai dappoi — e resistetti infine. Era egli un semplice atto d’immaginazione che mi facesse credere che la resistenza del mio carnefice sarebbe scemata in ragione della mia fermezza? Forse questo era possibile; ma in ogni caso io cominciava a sentire l’ispirazione di una ardente speranza, e finii per nudrire nel fondo dei miei pensieri la cupa e disperata risoluzione di liberarmi una volta in fine da quest’orribile schiavitù.
Nel carnovale del 18.... io mi trovava in Roma: — una sera mi era recato a un ballo in maschera nel palazzo del duca di Broglio, napoletano. Quella sera io aveva oltre il mio costume abusato di vini, e la soffocante ammosfera delle affollate sale mi irritava d’una maniera incomportabile. La stessa difficoltà di aprirmi un passo tra la folla contribuì non poco ad irritare e ad inasprire l’umor mio, poichè io andava febbrilmente in cerca (mi permetto di tacere a chi legge il poco onorevol motivo) della giovane, gaia e bellissima moglie del vecchio e stravagante duca di Broglio. In una sua confidenza poco prudente avevami ella aperto il segreto sul costume che avrebbe indossato; e siccome io l’aveva scorta da lungi, i miei sforzi erano tutti per arrivare a lei. Ed ecco, in questo stesso momento, sento una mano dolcemente posarmisi in su la spalla, — e quindi il notissimo, il profondo, il maledetto misterioso susurro nelle mie orecchie!
Preso di rabbia frenetica, bruscamente mi voltai verso chi con tanta indegnità mi aveva sturbato, e di botto lo presi violentemente pel collo. Come aspettavami, portava egli un abito assolutamente simile al mio: un mantello spagnuolo di velluto turchino, e intorno alla vita una bella cintura chermisina da cui pendeva una draghinassa. Una maschera di seta nera celava affatto il suo volto.
— Scellerato! — sclamai qui con voce soffocata da rabbia — ed ogni sillaba che fendeva le mie labbra era un vero alimento al fuoco della mia collera: — scellerato! impostore! infame maledetto! oh, tu non mi vesserai più sino alla morte! Seguimi in fine, o ti scanno lì lì innanzi a tutti!
E mi apersi il passo nella sala da ballo verso una piccola attigua anticamera, irresistibilmente trascinandolo meco.
Entrando, lo spinsi furiosamente lungi da me; e balenante andò egli a percuotere contro il muro: sacramentando, chiusi la porta a chiave, e gli ordinai di sfoderare la spada. Esitò un momento; quindi tratto un lieve sospiro, la sguainò silenziosamente e posesi in guardia.
La lotta fu breve. Inasprito dalle ardenti eccitazioni di cotal fatto, pareva che in un solo de’ miei bracci sentissi l’energia e la potenza d’una moltitudine. In pochi secondi lo spinsi contro l’intavolato, e là, in mia piena balía, raddoppiando un su l’altro i colpi, gli immersi la spada in petto con una efferatezza brutale.
In questa, udii persone appressarsi alla porta. Fui sollecito di prevenire un importunissimo affollarsi, e subito mi rivolsi verso il mio avversario moribondo. Ma dove è mai lingua d’uomo che valga sufficientemente ad esprimere lo stupore, l’orrore onde fui invaso allo spettacolo che allor s’offerse a’ miei occhi? Il brevissimo tempo in cui erami volto verso la porta, era bastato a produrre, almeno in apparenza, un mutamento materiale nelle disposizioni locali dell’angolo opposto della camera. — Uno specchio ampissimo (almeno tale mi apparve in quel mio primo stupore) s’innalzava colà dove poc’anzi non vedevasi alcun mobile; e, siccome io m’avanzava verso di esso tutto agghiadato di terrore, la mia propria, somigliantissima immagine, pallida, come la morte e lorda di oscene macchie di sangue, facevasi pure incontro a me con passo debile e vacillante.
Dico che tale mi apparve la scena; ma essa però non era così. — Lo credereste?
Sentite! sentite!
Era il mio avversario, era Wilson medesimo che stava d’innanzi a me ne’ palpiti dell’agonia. La sua maschera e il suo mantello giacevano sul pavimento dov’ei li aveva gittati. Non un filo dei suoi vestimenti, non una linea in tutta quella sua fisionomia così caratteristica e singolare, niente, ahi! niente che non fosse mio, mio, sapete — mio!
L’assoluto dell’identità!
Era Wilson, Wilson! — ma Wilson che omai più non susurrava le sue misteriose parole; tanto che avrei proprio potuto credere di essere io stesso allorchè, parlando, mi disse:
— Tu hai vinto, e io soccombo. Ma d’ora innanzi tu pure sei morto: — morto al mondo, morto al cielo, morto alla speranza! Tu esistevi in me; or contempla nella mia morte, contempla in questa stessa immagine, che è la tua, come tu se’ stata veramente, irremissibilmente l’assissino di te stesso!
Note
- ↑ Stoke — Newington, presso Londra. — Come si disse, questa novella è una rimembranza della vita di collegio del Poe.
B. E. M.
- ↑ Massimo castigo dell’Istituto.
B. E. M.
- ↑ Se qualche gentile vorrà qui riscontrare questo passo col testo, ho persuasione che la sua sagacia non mi porrà a carico la piuttosto ampia libertà di cui stimai far uso. — E ciò valga pure per altre libertà che non è il caso di notare, perchè certamente lo possono essere già state dal lettore.
B. E. M.
- ↑ Giuoco di carte a due, poco differente dal trionfo.
B. E. M.