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del dottore Bransby nel dopo pranzo di quello stesso giorno ch’io me n’era fuggito. Ma dopo non molto tempo lasciai di pensarvi sopra, e l’attenzione mia fu tutta preoccupata dalla mia fissata partenza per Oxford. Là, favorito dalla vanità de’ miei parenti, che mi dava agio di scialarla ne’ piaceri e d’abbandonarmi tutt’affatto allo sfarzo ed al lusso, tanto a me cari, mi posi tosto a gareggiare in prodigalità coi più ricchi e potenti eredi delle più ricche contee della Gran Brettagna.
Incoraggiato al vizio da questi mezzi, la mia natura manifestossi in tutto il doppio suo ardore, e nella pazza foga della mia dissolutezza, vigliaccamente spezzai sin l’ultimo filo d’una residua decenza. Ma sarebbe assurdo il trattenermi sulle particolarità delle mie stravaganze. Basterà il sapere che vinsi in dissipazioni lo stesso Erode attico e che, dando un nome ad un’infinità di nuove pazzie, aggiunsi una copiosa appendice al lungo catalogo dei vizii, che in quei giorni sventuratamente erano in voga nella più dissoluta parte d’Europa.
Parrà difficile a credere ch’io fossi tanto caduto dal grado di gentiluomo, da studiarmi di rendermi famigliari i più vili artifizi del giuocatore di professione, e mi fossi reso discepolo di questa spregevole scienza, e che la praticassi abitualmente come mezzo di accrescere le mie rendite, diggià elevatissime, a spalle de’ miei camerata baccelloni. E tuttavia era questa la triste verità. — La stessa enormezza di un tale attentato contro tutti i sentimenti di dignità e di onore era evidentemente la principale, se non la sola ragione della mia impunità. E chi mai tra’ miei più depravati compagni,