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fabbrica, potevano benissimo assomigliarsi a quelle con cui noi talvolta mestamente ci perdiamo nell’infinito.

Durante i cinque anni di mia residenza colà, io non fui mai capace di determinare con precisione in qual punto più o men lontano dell’edifizio fosse sito il dormitorio, che erami stato assegnato in comune ad una ventina di altri miei condiscepoli.

La sala dello studio era la più vasta in tutto quello edifizio, — la più vasta su qualunque altra di qualsiasi fabbrica umana; era tale almeno l’idea ch’io me n’era formata. Essa era lunghissima, strettissima, lugubremente bassa e con finestre rotonde e il vôlto di quercia. In un angolo lontan lontano, pieno per noi di diacciato terrore, disegnavasi un ricinto quadrato di otto a dieci piedi, rappresentante nelle ore di studio il sacro recinto del nostro direttore, il reverendo dottore Bransby. Era una costruzione solida con porta massiccia; piuttosto che aprirla in assenza del superiore, noi avremmo preferito morire della pena forte e dura1. A’ due altri angoli della sala, due altri analoghi locali, oggetti, è vero, di venerazione assai men grande, ma tuttavolta di assai notevole terrore: nell’uno, era la cattedra del professore di umanità, — nell’altro quella del professore d’inglese e di matematiche. Collocati disordinatamente in mezzo alla sala si vedevano molti e molti banchi e leggii, tutti spaventosamente sopraccarichi di libri macchiati da’ sgorbi moltiformi delle dita; libri neri, antichi, rosi dal tempo e tanto impiastricciati di

  1. Massimo castigo dell’Istituto.

    B. E. M.