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volto verso la porta, era bastato a produrre, almeno in apparenza, un mutamento materiale nelle disposizioni locali dell’angolo opposto della camera. — Uno specchio ampissimo (almeno tale mi apparve in quel mio primo stupore) s’innalzava colà dove poc’anzi non vedevasi alcun mobile; e, siccome io m’avanzava verso di esso tutto agghiadato di terrore, la mia propria, somigliantissima immagine, pallida, come la morte e lorda di oscene macchie di sangue, facevasi pure incontro a me con passo debile e vacillante.
Dico che tale mi apparve la scena; ma essa però non era così. — Lo credereste?
Sentite! sentite!
Era il mio avversario, era Wilson medesimo che stava d’innanzi a me ne’ palpiti dell’agonia. La sua maschera e il suo mantello giacevano sul pavimento dov’ei li aveva gittati. Non un filo dei suoi vestimenti, non una linea in tutta quella sua fisionomia così caratteristica e singolare, niente, ahi! niente che non fosse mio, mio, sapete — mio!
L’assoluto dell’identità!
Era Wilson, Wilson! — ma Wilson che omai più non susurrava le sue misteriose parole; tanto che avrei proprio potuto credere di essere io stesso allorchè, parlando, mi disse:
— Tu hai vinto, e io soccombo. Ma d’ora innanzi tu pure sei morto: — morto al mondo, morto al cielo, morto alla speranza! Tu esistevi in me; or contempla nella mia morte, contempla in questa stessa immagine, che è la tua, come tu se’ stata veramente, irremissibilmente l’assissino di te stesso!