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tezza scrupolosamente protrarre sino al mattino, noi ci riunimmo a notte già alta. Le vivande copiose e squisite e i vini generosi versavansi a guazzo ne’ calici splendenti; nè vi ha dubbio si fossero lasciate in disparte seduzioni di ben altra pericolosa natura: a tale che, in sul primo impallidire dell’alba su ’n cielo, le nostre turpi stranezze, i nostri brutali delirii erano al colmo. Acceso furiosamente dai vapori del vino e dalla febbre del giuoco, io continuava, bestialmente ostinato, a voler fare un brindisi in un de’ più strani ed indecenti modi; quand’ecco a un tratto la mia attitudine distratta dall’impetuoso semiaprirsi di una porta, da cui ansia ansia si fè sentire la voce di un cameriere.

Precipitosamente annunziava che un incognito, dall’aria impresciata ed importuna, chiedeva di parlarmi nel vestibolo della casa.

Eccitato singolarmente dal vino, questa sì inattesa interruzione causommi minor meraviglia che piacere. Barcollante attraversai la sala, e in pochi passi mi trovai nel vestibolo. Nessuna lampada illuminava questa bassa e stretta stanza, in cui cominciava a penetrare il pallido lume dell’alba, quasi incerto e furtivo, a traverso l’arcuata finestra.

Ponendo il piè sulla soglia, distinsi la persona di un uomo, su per giù della mia statura, che indossava una vesta da camera di casimiro bianco, tagliata di moda, proprio come quella che in quell’istante io pure indossava. E tutto ciò potei vedere a quel debolissimo barlume, ma non mi fu possibile distinguere i lineamenti del viso. Messo appena il piè nella camera, e’ fu sopra di me, e, afferratomi il braccio con gesto imperativo, mi