Fiume Arno entro Firenze
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FIUME ARNO
ENTRO FIRENZE
MEMORIA
dell'Ingegnere Architetto
GIUSEPPE MICHELACCI
FIRENZE
STAMPERIA SULLE LOGGE DEL GRANO
diretta da G. Polverini
1864
RIFLESSIONI
SUL FIUME ARNO
PER QUEL TRATTO CHE TRAVERSA LA CITTÀ DI FIRENZE,
CAUSE PRIMARIE DELLE INONDAZIONI DELLE CITTÀ
E PROVVEDIMENTI DA ADOTTARE PER LIBERARNELA IN FUTURO
L’Arno per causa delle frequenti sue inondazioni ha servito, e servirà di materia a varie artistiche discussioni. Gli idraulici più sommi della Toscana e molti altri stranieri hanno in vari tempi formati progetti diversi sul trattamento di questo fiume ora per una parte, ora per l’altra.
Molti sono quelli fatti di pubblico diritto per liberare la nostra dominante dal disastro delle inondazioni; ma per la enorme spesa, o per non essere stati creduti efficaci, restarono nell’abbandono, e se alcuno ne fu principiato non sortì il fine.
Dovremo ora noi perseverare a non far nulla? attenderemo che un’altra piena come quella del 3 novembre 1844 torni a desolare la città nostra? forse non vi sono modi per provvedervi? Non vi è cosa che dir si possa impossibile; vi sono delle strade che conducono a tutte le cose; e se noi avessimo buona ed assoluta volontà avressimo ancora tutti i mezzi conducenti e necessari. Ognun sa a quali danni rimane esposta questa fiorente città ogni qualvolta l'Arno la invade con i suoi trabocchi: la perdita di merci, cereali, e mobiliare incalcolabile sempre; le strade, i palazzi, e le case ripieni di sordida melletta; inabitabili i sotterranei, ed i piani terreni; corrotte le acque dei pozzi per la miscela con quelle degli smaltitoi, e delle sepolture eziandio; l’indebolimento delle fabbriche, e talvolta la minaccia di rovina, fomite di lunghe e dispendiose liti tra privati; il commercio ritardato, e compromessa la pubblica salute da epidemiche infezioni quindi deteriorazione dei ricchi, povertà dei cittadini, rovina totale dei poveri, lo scoramento generale.
Ed all’aspetto di sì spaventevoli disastri, seguiteremo a starcene inoperosi? sopporteremo che i nostri figli, i nostri nepoti maledicano nel rinnuovarsi dell’infortunio alla nostra inerzia? Non sarà minore il rammarico di lasciar loro a dimettere qualche debito, di quello che esporli a deplorare delle vittime, e soggiacere a danni immensi, a perdite irreparabili? L’esperienza ha dimostrato che tali infortuni avvengono una volta, o due nel corso di un secolo, ma non sarebbe meglio prevederli, impedirli? Chi ci assicura cohe a malgrado dei validi lavori ultimamente fatti del rialzamento, e ingrossamento degli argini, e a dispetto della sorveglianza che si pratica per la loro conservazione, non siano per rinnuovarsi? La natura è la stessa, mentre noi abbiamo all’opposto ragioni potentissime per indurci a temerla di più poiché di fronte alle condizioni materiali dell’Arno, che sono presso che le medesime dei tempi andati le cause delle inondazioni crescono sempre per lo sfrenato diboscamento dei monti, per il dissodamento delle valli, per la trascurata formazione di serre nei seni montani, e per il conseguente inevitabile rialzamento degli alvei nei fiumi, che comunque voglia impugnarsi anche da soggetti versatissimi nell'arte idrometica, pure è un fatto che si verifica progressivo e minacciante pericolo, come in futuro si avrà luogo di meglio conoscere sulla livellazione che con saggio provvedimento è stata fatta di tutto il corso dell’Arno, ad insinuazione dell’onorevole idraulico del nostro tempo Commendatore Alessandro Manetti.
Molto vi sarebbe a dire su questo argomento, imprendendo a ragionare dell’Arno dalla sua sorgente, fino al mare; ma essendone stato lungamente trattato da celebri uomini, come Viviani, Perelli, Manfredi, Grandi, Castelli, Guglielmini, Mayer, Ximenes, Morozzi, e vari altri, limiterò le mie riflessioni su quel tratto che Firenze attraversa, e dividerò in due articoli questa mia memoria.
Avrà per oggetto il primo di provare l’alzamento del letto del fiume, e di enumerarne le cause.
Comprenderà il secondo i mezzi atti a provvedere alla sua depressione ed allontanare per sempre i suoi trabocchi in città ed all’incanalamento delle acque putride e pluviali della città medesima.
Ho di sopra accennato che una delle cause che produce le alluvioni in Firenze, è il rialzamento dell’ Arno nel tronco che la traversa. Vorrei che ciò non fosse, vorrei potere non dividere la mia opinione con quelle dei nostri primi precettori della scenza idraulica, ma come non trovarsi stretti dalle ragioni che ne adduce in conferma il celebre Viviani, segnatamente nel suo discorso al Serenissimo Granduca Cosimo III, intorno al difendersi dai riempimenti e corrosioni dei fiumi, applicate all’Arno in vicinanza della nostra città? Come non curare le osservazioni fatte in proposito da Cornelio Mayer unitamente al Viviani medesimo nella loro relazione allo stesso Cosimo III, data dell’anno 1680? Quelle pure dell’architetto Buontalenti confermate dal Padre Grandi nella sua relazione de' 30 settembre 1735? Quelle del matematico Perelli nel suo discorso ai Deputati dell’Arno in occasione della visita eseguita in quel fiume nel 1740, e di molti altri versatissimi nella scenza delle acque, che parmi superfluo ricordare?
Non mi permetterò asserire che l’alveo dell’Arno entro Firenze siasi notabilmente elevato di letto quando è compreso tra due confini che sono le pescaje di S. Niccolò, e quella d’Ognissanti; ma se vero sia che la cresta, o capezzata di quest’ultima che nel 1803 fu tentato rialzare, sia stata effettivamente rialzata da circa tre quarti di braccio negli anni 1818, e 1819, sopra un progetto dell’architetto Cacialli, altronde valentissimo, come ne fanno fede un biglietto della R. Segreteria di Finanze al Soprintendente Generale delle RR. Possessioni de’ 10 luglio 1818, ed il successivo Rescritto de’ 30 luglio 1819, esistenti in filza N.° 13 registro secondo del 1819, e 1820, nell’Archivio della soppressa Camera di Soprintendenza Comunitativa di questo Compartimento, credo mi sarà concesso osservare e rimarcare, che l’alveo dell’Arno entro città ha subìto delle notabili, e visibili alterazioni.
Per non citare quelle che cadono sotto i sensi di tutti, e che sono specialmente i polmoni o greti, fatti più estesi ed alti fra la pescaja di S. Niccolò ed il Ponte alle Grazie, fra questo ed il Ponte Vecchio, ed i banchi di arena e ghiara, che in tempo di acque magre vengono a scuoprirsi tra il Ponte alla Carraja e la pescaja d’Ognissanti, che qualche anno indietro non si scorgevano fuori d’acqua, mi fermerò su quella striscia di restone, o ridosso, che incominciando dall’angolo che fa il muraglione alla cateratta dei Castellani, si estende fino al Ponte Vecchio, e al disotto ancora di esso.
Quando nel 1819 fu rifondato, e rifatto il terrazzino in testa degli Uffizi sull’Arno, il greto che ora vi si scorge era due braccia circa più basso. Poco inferiormente a quello allorchè nel 1794, o 1795, salvo, vennero restaurate le prime mensole che sostengono a collo le fabbriche lungo la via degli Archibusieri, dal punto d’appoggio di esse al greto, non si contavano meno di braccia quattro e mezzo, ed oggi non vi si conta una distanza maggiore di B.a 1 ½, o poco più.
Queste innormalità di superfice sembra strano che si verifichino tra una pescaja e l’altra, dove ragionevolmente, e per regola idrometrica formare si dovrebbe un piano ordinatamente inclinato, ma nel caso nostro la corrente spingendosi più, o meno impetuosa ora a destra, ora a sinistra, ed incontrando degli angoli sporgenti e rientranti, oltre gli ostacoli dei ponti, è possibile che nelle piene, più, o meno forti che durano assai, o che vengono per piogge universali e continue, si faccia talvolta uno sgombro delle deposizioni, e talvolta una mutazione delle medesime da destra, a sinistra, e viceversa, per modo da alterare visibilmente lo stato dell’alveo, senza diminuirne la capacità; ma il greto di cui or faceva parola è stazionario da qualche anno, e vedesi aumentare, anzichè decrescere, a scapito della caduta delle fogne provenienti dalla città, ed ho motivo di dubitare che per virtù della corrente venga ad essere depresso, dopochè da qualche anno a questa parte si vedono trasportate dall’acqua, e depositate sui nostri greti delle pillore di volume molto maggiore che non erano quelle trasportatevi prima del 1833, e 1834 circa, e crederei doversi argomentare che più facilmente si trova oggi esposta e minacciata dalle alluvioni la città nostra, per la ragione appunto, che molte materie ammassate nel tronco d’Arno che la traversa, oltre ad usurpare un ragguardevole spazio alle acque, ne rallentano la velocità, e crescendo di volume sono obbligate a distendersi, a penetrare per le fogne, ed a superarne ancora i ripari.
Se si instituisce un confronto tra lo stato attuale dell’alveo d’Arno al disotto della pescaja di S. Niccolò, e quello che era 14, o 15 anni addietro, sarà facile distinguere quanto maggiore ammasso di materie vi si riscontri al presente, e quanto vizioso siasi fatto sotto di quella serra il corso dell’acqua. Ove prima era un fondo alquanto esteso, oggi vi si scorge un polmone che immedesimandosi con la platea della pescaja, ne supera talvolta la cresta con la sua sommità, e gli opifici della Zecca sono per molto tempo dell’anno inattivi, non solo per causa della diversione delle acque, dipendente in parte dall’opera avanzata del già ponte sospeso poco al disopra di essi, ma per la massa straordinaria altresì delle ghiare che si depositano al disotto della pescaja, che ne fanno guazzare le ruote di movimento, per mancanza di cadente. M’ingannerò, ma credo sarebbe facile venire in cognizione dei diversi rialzamenti instituendo un confronto con le sezioni del fiume che furono eseguite dal ponte S. Trinità fino alla pescaja d’Ognissanti ne’ 31 ottobre 1812, a cura in quel tempo del Dipartimento di ponti e strade, che si trovano riferiti alla scala metrica in marmo situata presso il detto ponte, quali sezioni, che sarebbe utile estendere fino alla pescaja di S. Niccolò, potrebbero in seguito far conoscere delle variazioni cui può andar soggetto il greto del nostro fiume.
Vuolsi da alcuno che l’alveo d’Arno non sia soggetto a rialzare. Ognun sa che questo fiume di natura torrenziale, traendo la sua origine da sublimissimi monti, con rapido corso discendendo al piano, porta seco gran copia di terre e di pietre, e che i rivi, torrenti, e fiumi, influendovi grossi e carichi di torbe, ne depongono gran parte nel suo seno. Qual fatto più convincente del Ponte a Signa? Nell’anno 1690, l’arco maggiore di quel ponte permetteva il passo ai navicelli con albero elevato, e si ridusse a tale, che non ne ammetteva il passo anche senz’albero, per lo che convenne rialzarlo tutto per braccia 8 circa, nell’arco di mezzo, 26 anni or sono.
Forse la imponente quantità di ghiare, e pillore che vedonsi sopra, e sotto Firenze, sarà spinta dalle correnti fino al mare? ciò non è sicuramente, come lo dimostrano i greti che si estendono poco al di là della terra di Empoli, sempre composti di ghiare più minute, e quindi di arena, mano a mano che vanno a perdersi. Ad ogni piena si depositano nuove materie, ed i polmoni anderanno da destra, a sinistra, risaliranno a luoghi, a luoghi abbasseranno nell’avvicendarsi delle piene, come ho avuto luogo di osservare allorchè prestava il mio servizio nelle imposizioni del Val-d’-Arno di sotto, ma non si spingono oltre: quindi il rialzamento dell’alveo è indubitato, e mentre l’Arno in antico era navigabile, non lo è più da gran tempo. I Pisani hanno in varie epoche rialzati i parapetti entro città, lo hanno fatto i Fiorentini, ed a questa misura chi li condusse?... Ma tralasciando questo argomento sul quale è stato diffusamente trattato da valenti idraulici, e riportandomi allo scopo delle mie riflessioni, cioè all’Arno entro Firenze, dirò: che oltre alle cause in genere accennate per le quali è costretto nel tempo di massime piene inondare la città, ed in stato di quiete a non permettere lo scolo in sé delle acque putride delle fogne, con danno della pubblica igene, avvene altre locali, in parte vincibili, ed in parte da moderare, sebbene compariscano a prima vista senza rimedio.
In tempo di massime piene si presenta angusto il letto del fiume, specialmente dalla terrazza degli Uffizi, fino al Ponte S. Trinità; le luci del Ponte Vecchio sono insufficenti a cavar l’acqua sopravveniente, e per conseguenza sono rimaste basse in molti luoghi le sponde parapetti; la presenza inoltre di finestre e luci diverse che esistono in molte fabbriche che fanno spalla al fiume, permette l’ingresso alle acque; in stato di quiete e di magrezza, l’alzamento dei polmoni sul destro lato del fiume impedisce lo scolo in esso delle fogne, e ne sono causa l’opera avanzata del già ponte sospeso al disopra della pescaja di S. Niccolò, e lo scalo delle travi alla Porticciola poco al disotto del Ponte alle Grazie. Rimediare alle prime radicalmente, non è cosa da proporsi per le spese gravissime, ma sibbene alle altre, con l’alzamento delle sponde, con la chiusura delle finestre, e luci che sopra, concorrendo nel savio sentimento del celebre Tommaso Perelli, e con la soppressione dello scalo di piazza d’Arno, detta altrimenti delle Travi, nel modo che passerò qui appresso ad esporre.
Ho detto non potersi rimediare alle prime radicalmente, ma sostengo che si possa in gran parte. All’angustia della sezione del fiume tra sponda, e sponda, ed alla insufficenza delle luci del Ponte Vecchio è forza in qualche modo provvedere, verificandosi una notevole differenza di cadente fra ponte, e ponte; differenza che sta in proporzione della velocità, e della luce dei ponti, i quali sono può dirsi, un regolatore delle acque che smaltiscono, e che molto contribuiscono a trattenere la massa delle acque. Per impedimento di salute non potei di persona verificare tal differenza nella piena del 3 novembre 1844, ma fatti successivamente dei riscontri dallo stabile Mannelli, e dalla bottega in faccia a detto stabile nella Via degli Archibusieri, e posti a confronto con quelli analoghi praticati nella terza bottega in Borgo S. Jacopo, passato appunto il Ponte Vecchio, cioè sopra e sotto corrente al ponte medesimo, mi posi in grado di constatare che la variazione tra il pelo d’acqua superiore, e quello inferiore fu di braccia 1,60 in ragguaglio del che chiaramente si vede l'effetto che produce il detto ponte, e così quello degli altri, benché meno sensibile attesa la maggior luce che hanno. Se questa alterazione di cadente, se la massa delle acque che si contende il passo per le luci di quel ponte, possa o no danneggiarlo, lo lascio decidere ad altri ma io ritengo che sì.
Consultando alcune notizie autografe dell’ingegnere Ferdinando Morozzi, trovo che nella piena del 1° dicembre 1758, inferiore a quella del 1740, la sezione dell’acqua fatta sopra al Ponte Vecchio, senza quella traversata per la città, ascendeva a braccia quadre 2130 circa. Ora le luci del Ponte riquadrando braccia 1363 si verifica un eccesso di braccia 767. Sopravvenendo una piena superiore a quella citata, come si legge che molte sono state le piene maggiori, chi ci garantisce che non resti avulso com’è accaduto degli altri ponti in varie epoche?
Provata così l'innormalità, ed il rialzamento dell’alveo d’Arno entro Firenze, non meno che la insufficenza del Ponte Vecchio a cavare acqua, io credo che converrebbe rimettere la pescaja d’Ognissanti al livello in cui ne raccomandò la conservazione il matematico Viviani, ed anche più basso, previo un riscontro accurato delle platee dei ponti, che più o meno esigono pronte riparazioni, e di ambo le ripe. Onde provvedere allo scarico più ordinato delle materie dalla pescaja di S. Niccolò, sarebbe pure opportunissimo che nel ricostruire il ponte sospeso poco al disopra della medesima, venisse tolta quella diga, o traversante che gli serve di accesso, disponendo la fiancata destra del nuovo ponte presso che in linea retta con la parte destra dell’arco della Zecca, ove è situato il caterattone di scarico, o traforando almeno con arcate quel terrapieno, che dubiterei peraltro potessero efficacemente agire; correggerei la posizione dei due pennelli, sproni di muramento che vedonsi sul piano di quella pescaja, fatti coll’intendimento di volgere sulla sinistra una parte della corrente, e forse ancora potrebbero venire del tutto soppressi, previo un esame locale, ed un precedente accurato studio sulla convenienza di lasciarli sussistere o di moderarne gli effetti modificandone la direzione; procurerei che continuamente e per l'uso delle fabbriche e per le fornaci da calcina venissero estratte dai greti d’Arno tra le due pescaje i sassi più grossi che volta per volta vi fossero depositati dalle piene; sull’esempio di quanto venne per la prima volta applicato da Braccio Manetti, uno degli allievi del celebre Galileo Galilei, formerei nei punti più adattati dei greti gran copia di masselli grossi in quadro un braccio circa, e lunghi tra il braccio e mezzo, e le due braccia, che potrebbero essere utilmente impiegati alla base delle platee dei ponti sotto corrente, delle pescaje, non meno che dei muri, e delle fabbriche che servono di spalle al fiume; sopprimerei lo scalo delle travi, provvedendo a quel bisogno nel modo che poco sotto sarò a descrivere, e, per favorire sempre più lo smaltimento delle materie, preparerei in adattate stagioni, e prima delle piene di Primavera, e di Autunno i greti a cedere allo striscio ed impeto dell’acqua, smovendone con raspe di ferro, a guisa di erpice, la superfice, quanto più fosse possibile, coll’impiego di bufali, con altro mezzo artificiale, di cui la meccanica offrir potrebbe l’applicazione, come veniva ancora praticato in antico più volte l'anno dagli abitanti più prossimi all’Arno, col mezzo di aratri espressamente costruiti per il sassoso suo fondo, e dei quali conservavansi non è gran tempo le reliquie nel forte di questa città, eseguendo tale aratura in sensi trasversali per modo da formare sulla superfice tante figure romboidali.
Ho sopra proposto lo sbassamento della pescaja d’Ognissanti, e quando questo non servisse, vi praticherei due tagli, o callaje, uno a destra l'altro a sinistra, profondi quanto è la caduta della pescaja, larghi braccia sei, e ben fortificati nelle parti laterali, armati di cateratte a ribalta, che non oltrepassassero la cresta della pescaja, le quali cateratte non si dovrebbero aprire se non in tempo di massime piene, e dietro ordine delle autorità competenti. Queste cateratte sbasserebbero in parte il gran corpo dell’acqua, trascinerebbero più abbasso parte di quel ridosso di ghiare che sono sotto alla pescaja medesima, e terrebbero meglio scavato, e ripulito quel tronco d’alveo compreso tra le due pescaje. Potrebbe alcuno apporre che lo sbassamento della pescaja, come l’apertura delle due callaje, fosse per arrecar danno ai ponti, ed alle sponde, ma io sostengo il contrario, ed eccone le ragioni.
Per le notizie che abbiamo dai cronisti, nel 1077, i Fiorentini si servivano delle sponde d’Arno per mura delle loro case, come sono di presente sulla sinistra fra il ponte alle Grazie e quello di S. Trinità, che poi dette case o per rovina, o per altre cause furono tirate indietro e lasciate le vie lungo l’Arno, e che il fiume in quei tempi era molte braccia più profondo d’alveo che non è ora.
Sappiamo che le sponde dal Ponte alla Carraja in poi furono fatte nel 1324, e che in generale sono state successivamente rialzate, come ne fa fede il libro della Luna nell’Uffizio della Parte, ove ritrovasi che l’ultimo alzamento fu fatto nel 1685.
Riguardo ai ponti sappiamo di certo, che il Ponte Vecchio, esisteva avanti il 1077, che quello della Carraja fu fatto nel 1218, che quello a Rubaconte, o delle Grazie fu eretto nel 1236, e che nel 1252 fu inalzato l’altro di S. Trinità. Detti ponti essendo stati rifatti sui medesimi luoghi dopo le loro rovine, e quando l’alveo del fiume era tanto più basso, è argomento per credere che né gli attuali ponti, nè le sponde, mai potranno rimanere scalzati per lo abbassamento della pescaja, e per l’apertura delle callaje.
E che le pescaje poi siano state rialzate più volte, e notevolmente, ce lo conferma il Villani ove dice: «Per la mala provvidenza del comune di lasciare alzare le pescaje a coloro che avevano le molina in Arno, avendo egli alzato più di sette braccia l’antico suo letto»; e similmente lo notano altri, e tra questi il Viviani che così ne parla: «Le loro capezzate, corone state sollevate, e non poco in più volte, come chiaro vi apparisce ec.». A provare viemaggiormente che il proposto sbassamento della pescaja, e l’apertura delle callaje, non saranno per apportare pregiudizio alcuno nè ai ponti, nè alle sponde, giova qui riportare altri fatti.
Il diluvio del 1477 fece rovinare il Ponte Vecchio, ma non abbiamo notizia che la pescaja fosse portata via, che forse non vi sarà stata.
Nel 1269 per il legname attraversato rimasero ostrutte le luci del Ponte S. Trinità, e l’impeto della piena lo portò via; rotto quello, rovinò ancora l’altro della Carraja, e non si ha memoria che la pescaja delle molina fosse portata via, e notisi che di queste rovine prima ebbe luogo quella del Ponte S. Trinità, e poi l’altra del Ponte alla Carraja; che se fosse venuto il male dalla velocità del fiume, doveva prima cedere quello della Carraja, e poscia l’altro di S. Trinità, perchè un ponte fa steccaja all’altro.
Nel 1304 nuovamente fu portato via quello della Carraja, senza rovina della pescaja.
Nel diluvio veramente straordinario, e terribile del novembre 1333 che ruppe la pescaja d’Ognissanti, sì fece luogo alla rovina dei ponti alla Carraja e S. Trinità, e del Ponte Vecchio. «Stipato, così si esprime il Villani, per la proda, dell’Arno di molto legname, sì per istrettezza del corso dell’Arno, che vi salì, e valicò l’arcora del ponte, e per le case, e botteghe che v’erano suso, e per soperchio dell’acque, l’abbattè, e rovinò tutto, che non vi rimase se non due pile di mezzo» ed al Ponte a Rubaconte o delle Grazie, furono atterrate le sponde. L’essere rimaste in piedi alcune pile del Ponte alla Carraja, di S. Trinità, e quelle del Ponte Vecchio, e l’aver resistito il Ponte alle Grazie, è sicuramente una prova che poca, o punta colpa ebbe l'arrovesciamento e rottura della pescaja alla rovina dei ponti, ma sibbene il legname che otturò le luci dei medesimi, ed il gran carico dell’acqua salita tanto alto, la quale diede un urto alle fabbriche per rovesciarle. Che se detti ponti fossero stati svelti, e di pochi archi, come quello attuale di S. Trinità, non sarebbero forse rovinati, ancorchè non vi fosse stata la pescaja; ed infatti la piena del dicembre 1334 benchè fosse maggiore di quella del 1333, non avendo trovato pescaja, non abbattè nè il Ponte alle Grazie che vi era restato, nè le pile degli altri, nè tampoco allagò la città, perchè il precedente diluvio del 1333 fece abbassare il letto d’Arno da sei braccia, come ci fa sapere il Villani, per lo che doveva essere il Ponte alle Grazie in maggior pericolo, per essere rimasto più sollevato, ed avere maggior carico di acqua, circostanze tutte che ci fanno vedere quanto ne sono profondi i fondamenti.
Nella piena d’agosto 1520 fu portata via dalle acque la pescaja d’Ognissanti, ma non si legge che i ponti patissero in nulla, e già vi erano rifatti.
La piena del 1557, gettò a terra prima il Ponte S. Trinità, e dopo atterrò parte di quello alla Carraja, e notisi che la rovina di questi due ponti, ebbe luogo per le medesime cause della piena del 1269, senza memoria che la pescaja fosse portata via.
Questi son fatti a noi tramandati da storia fatale, ma vera, perchè concorde alle diverse notizie di accreditati autori, ed è su questi fatti che intendo appoggiare la mia proposizione, e provare che il progetto di sbassamento della pescaja d’Ognissanti, e l’apertura di due calle, non sarà mai per essere pregiudicevole, ma anzi di benefizio, almeno in piene eguali a quella del 3 novembre 1844.
Fin qui del modo d’impedire il trabocco delle acque dalle spallette; passando ora a quello di provvedere al più libero scolo delle acque putride provenienti dalle fogne della città, segnatamente sulla parte destra dell’Arno, credo che non vi sarebbe del tutto provveduto con la proposta depressione dell’alveo, senza abbattere ancora lo scalo delle travi poco sopra ricordato, la cui presenza fa sì che le materie si depositano al disotto del medesimo, e lungo la sponda fino alla fogna dei Castellani, e più oltre.
Questo argomento fu preso a trattare dal meritissimo Professore idraulico Abate Domenico De Vecchi in un suo progetto inserito nel giornale dei Letterati N.° 104 del marzo e aprile 1839, mediante il quale propone dirigere una parte della corrente dell’Arno a scorrere costantemente lungo il muro a destra che forma spalla al fiume, e serve di sostegno alla via tra il Ponte alle Grazie, ed il Ponte Vecchio, ma con tutto il rispetto per quel degno soggetto, dubiterei del conseguimento del fine che si è proposto, imperocché sebbene lo spirito, e la tendenza della corrente, siano per naturale disposizione rivolte a quella parte, ritengo che il maggior corpo delle acque, specialmente in istato di piene ordinarie passando al di fuori dell’ostacolo che egli invece di eliminare protrarrebbe per braccia quattro, potesse disporre le ghiare a depositarsi dietro di sé alla sua estremità (che che egli ne dica in contrario), e ciò tanto più, in quanto che alla distanza di braccia 160 circa da detta sua estremità, il muro, o spalla d’Arno forma un angolo sporgente in modo, che tirata una linea dal suo vertice parallelamente alla parete sinistra del canale da lui proposto in luogo di una parte dello scalo, ne investirebbe a mezzo la luce; quindi in tempo di acque ordinarie dubiterei che l'acqua diretta per quel canale avesse forza sufficente da torre, e sgombrare davanti a sé le materie che un precedente maggior volume di acque vi avesse depositate. E posto ancora che questo avvenisse, io credo che da quell’angolo (punto di sbocco del fognone dei Castellani) in poi, le materie si addosserebbero alla parete di seguito, e l’arresto di esse avrebbe luogo fino al di sotto della destra luce del Ponte Vecchio, come si osserva anche di presente. Ed in questo caso qual vantaggio avremmo ottenuto? Lo stato poco felice, anzi impedito delle fogne da quell’angolo fino al di là di detta luce sotto corrente rimarrebbe quale è di presente, e ne peggiorerebbero le condizioni coll’andare del tempo.
Questo inconveniente unito a quelli che la presenza di un corpo avanzato nel fiume, induce sovente sulla disposizione del greto che gli succede credo che debba tenersi in calcolo, avuto più specialmente riguardo alle ripetute incidenze, e riflessioni che per causa di quello è obbligata a fare la corrente dell’Arno, nel tratto compreso tra il Ponte alle Grazie, ed il Ponte Vecchio, fatto che non è punto da trascurare.
Lo scalo è instituito per servire all’introduzione delle travi, e pei carrettoni che vanno in Arno a caricar pillore, ghiara e rena (utilissimo sgombro). La sua pendenza è dell’11 per cento, e se resta arduo a sormontarsi ora che è largo tredici braccia, cosa sarebbe ridotto a sette nella cui larghezza non è dato alle bestie da tiro di montarvi con direzione serpeggiante? Ammesso ancora che le cose testé avvertite siano vani timori, e che il progetto sortisse l’effetto desiderato, sarebbe supplito ai difetti che si sono manifestati nel tratto precedente rispetto alle fogne provenienti dalle conce, e dal lavatojo dei Caval-Leggeri, contro le quali sono specialmente diretti i lamenti del pubblico? No certamente, e parmi dover concludere, se non prendo errore, che dal progetto dell’altronde meritissimo sig. De Vecchi, non possa ottenersi il fine precipuo, quello cioè di favorire il pronto scolo delle acque putride della città in Arno, come si era proposto; e poiché a questo fine pubblicava la sua memoria, io credo poter soggiungere che altri ve ne possono essere, più dispendiosi sì, ma di esito certo, come mi propongo qui appresso di riportare, oltre ad un nuovo scalo.
La difficoltà maggiore in questo caso consiste nel procurare il modo necessario per la più pronta, e meno incomoda introduzione dei legnami, e per offrire l’accesso in Arno ai carrettoni, cui mal si prestano altrove le sue ripe entro Firenze. La esistenza dello scalo attuale è riprovevole per ogni rapporto, e converrebbe remuoverlo affatto: Come dunque provvedere a tale bisogno?
Premesso che nelle stagioni invernali e piovose non è concesso ai carrettoni di scendere per lo scalo nel greto d’Arno, atteso l'impedimento dell'acqua, e che al trasporto delle materie fluviali, vien supplito col mezzo di navicelli, resterebbe a provvedere per quelli in tempo di magrezza d’acque, ed al modo d’introdurre le travi sulla piazza di questo nome, in ogni stagione dell’anno.
Sulle idee, e sul concetto in massima suggeritomi dall’onorevole Commendatore Alessandro Manetti Direttore del Corpo degli Ingegneri, sei anni circa or sono, mi detti a studiare il progetto che quindi meglio maturato riporto nelle tavole qui annesse, e tenendo dietro agli usi dello scalo che sono come ho sopra notato, l'introduzione delle travi e legname d’ogni genere, che col mezzo di opere a noi giunge per acqua, il comodo di accesso e recesso ai carrettoni, il bisogno di condurre all’acqua in estate i cavalli, e quello non minore ai tintori di lana e seta, di poter lavare in acqua corrente i tessuti, ed il filo in matasse di quelle manifatture, allorché l'acqua in varie epoche dell’anno è meno grave di torba, mi convinsi che a preferenza di quello del De Vecchi fosse adottabile. Come vedesi nella Pianta Tav. I, lo scalo sarebbe conservato nel sito ov’è l'attuale, e passando al disotto della via lungo l'Arno, avrebbe il suo termine a quella dei Saponai, traversando la Piazza delle Travi; due sarebbero le porte in fondo allo scalo, una nel punto segnato di lettera A, l'altra nel punto di lettera B, che non dovrebbe ritenere affissi. Per vedute di finanza la prima di esse dovrebbe nelle ore consuete di notte rimaner chiusa, meno che nel caso di piene in cui una cateratta in due pezzi posta in parallela direzione della porta dovrebbe scorrere per canale, ed essere congegnata in modo che un pezzo sovrapposto all’altro venisse a formare una valida resistenza contro la pressione dell’acqua che una volta introdottasi nell’antrone sottostante alla strada, non lascerebbe che rena, e melletta facile a remuoversi, abbassate le piene.
Per comodo dei tintori un batolo, o panchina larga braccia 2 ½, e corredata di tre o quattro scalini, servirebbe loro di lavatojo, quando appunto le acque un poco meno gravi di torbe, permettessero il lavaggio, lo che accade depresse che siano fino alla linea (Tav. II), che denota il livello delle acque ordinarie in tempo d’inverno. Per provvedere in fine all’accesso dei carrettoni, e cavalli nelle estive stagioni, un ponte pensile sommergibile la cui estremità potrebbe riposare sopra un vaggiolo di muramento, dovrebbe esservi adattato nel modo che dimostra la Tav. III, essendo naturale che alla base del batolo si mantenga costante, come vuolsi, un corso quantunque povero di acqua.
Ora favorito lo sgombro delle materie dall’alveo con lo sbassamento della pescaja d’Ognissanti, con la demolizione dello scalo della Porticciola alla Piazza delle Travi, con le modificazioni alla pescaja di S. Niccolò col ritiro della montata destra del ponte sospeso S. Ferdinando, con l’esportazione delle più grosse pietre per fabbriche, e per fornaci, con la formazione, e impiego dei masselli, e con lo artificiale smovimento dei greti, ove sia riconosciuto opportuno dopo gli enunciati provvedimenti, io credo che per gran parte sarebbe raggiunto lo scopo di meglio sfociare in Arno le acque delle fogne; ma quando si volesse più radicalmente a ciò provvedere, ed assicurare viemaggiormente dai trabocchi dell’Arno la nostra città per un corso di secoli, ritengo che l’apertura di un emissario, diversivo, entro cui venissero riunite le fogne tutte della parte settentrionale della città, come proposi con mia Memoria de’ 10 febbrajo 1845, sarebbe il più efficace modo di conseguire l’intento col doppio scopo igienico di una maggior nettezza, potendovi introdurre una porzione di acqua dell’Arno al suo incile che dovrebbe instituirsi in adattata località presso la pescaja di Rovezzano, condursi in prossimità della Zecca, e traversando Firenze portarne lo scarico, o nel fosso macinante, o in punto più basso fino all’Arno, secondochè un’accurata livellazione potesse consigliare compatibilmente con la maggiore economia della spesa.
Adottando questo partito che sarebbe sicuramente il migliore, e la cui idea non è nuova per noi, converrebbe richiedere solidamente tutte le finestre, fogne, e aperture di ogni genere che esistono nelle sponde, per modo che fosse tolta ogni comunicazione tra l’Arno, e la città; ed all’effetto di disturbare meno che sia possibile le fabbriche col passo di questo emissario, io credo che il suo andamento anche più retto potrebbe essere per la Via delle Torricelle, Corso dei Tintori, Canto agli Alberti, Via dei Neri, del Leone, Piazza del Grano, e traversando gli Uffizi sotto all’Arco per Via Lambertesca, Borgo SS. Apostoli, Santa Trinità, Parione, Borgo Ognissanti e Via del Prato, volgendo negli orti a sinistra presso la porta di questo nome, quando non fosse creduto meglio profittare della nuova progettata prosecuzione della Via Vacchereccia, nel qual caso dalla Via del Leone proseguirebbe per quella della Ninna e Piazza del Granduca, parallelamente alla Loggia dei Lanzi.
La sezione da dare a questo emissario che munirei di cateratte, una alla presa d’acqua, l’altra alle mura presso la Zecca, potrebbe essere di braccia 6, e più ancora comportandolo la larghezza delle strade per le quali dovrebbe percorrere, e questa sezione potrebbe essere ridotta a braccia 7, dal principio di Borgo Ognissanti fino alla Porta al Prato, da dove potrebbe tornare ad essere scoperto, malgrado che la massa delle acque in tempo di pioggia, venisse aumentando al che supplirebbe l’altezza dell’emissario che anderebbe a farsi maggiore a proporzione della sua pendenza, potendo anche ridursi a braccia 8, dalle mura in poi.
Ciò facendo è ragionevole che dovrebbe in pari tempo essere invertita la pendenza di quei rami di fogne che rimanendo sulla sinistra dell’emissario non vi potrebbero immettere che dopo un incollo cui anderebbero soggetti con danno dei fondi delle fabbriche adiacenti, chiusi che fossero stabilmente agli sbocchi che hanno di presente nell’Arno, ma ciò riuscirebbe facile, e di poco dispendio trattandosi di rialzare semplicemente il loro letto, e di poco le spallette in qualche caso.
Simile provvedimento converrebbe adottare eziandio sulla parte sinistra dell’Arno facile a conseguire da S. Lucia de’ Magnoli in Via dei Bardi, per tutta la parte occidentale della città, profittando dell’emissario già fatto in parte per la Gusciana e S. Rocco, e per la parte orientale, che è la minore, potrebbero conservarsi due o tre cateratte ben vigilate, non essendo altronde facile riunire, e scaricare per un solo canale tutta la quantità d’acqua proveniente dalla collina di S. Martino, e sue adiacenze, nè agevol cosa vincere con ordinato declive il punto culminante di S. Lucia de’ Magnoli, molte braccia superiore al piano, o livello della Piazzetta di S. Niccolò, posizione la più bassa di quella parte di città.
Come poi dal remuovere tutte le luci, finestre, terrazzini ec. che trovansi nelle ripe, si oscurerebbero stalle, cantine ed officine inclusive, e verrebbero notabilmente a deteriorare gli stabili cui appartengono, torno a proporre, che ove i casi lo permettessero, e la completa chiusura con massello di muramento riuscisse troppo dannosa, si facesse uso di trombe a troniera alte fin sopra al massimo punto di elevazione delle piene, che in altri si facessero piccole luci non maggiori di ¾ di braccio, armate con grossi cristalli messi a perfetta tenuta, sull’applicazione dei quali sto tentando degli esperimenti, avendo ottenuto lastre della grossezza di mezzo quattrino di braccio, e di prodigiosa resistenza; e che in qualche caso speciale si apponessero delle cateratte da regolarsi a indicazione di persone al servizio pubblico addette, e non dai particolari che dovrebbero soggiacere alla spesa relativa come proprietarj dei fondi, a comodo e sicurezza dei quali verrebbero destinate.
Nè sgomenti idea che la quiete del fiume, ed il lungo intervallo che per fortuna si verifica tra una escrescenza, e l’altra straordinarie, possa indurre negligenza trascuratezza nel sorvegliare, e rinnovare tali difese, giacchè a questo può essere efficacemente, e continuamente provvisto con l’instituzione di guardie, e visite ordinarie, da ripetersi occorrendo anche ogni di nelle stagioni piovose e più temibili.
Si opporrà da alcuni che l’acqua nelle grandi affluenze filtrando traverso le ghiaje che formano la base del nostro suolo, e giungendo facilmente alla superfice per mezzo dell’infinito numero di pozzi d’acque potabili, e dei così detti smaltitoi che a guisa di vaglio traversano il nostro pancone per se solo capace, se non fosse così traforato, di oppor loro un ostacolo. inonderà egualmente la città, ancorchè siano chiuse le comunicazioni laterali dell’Arno, ed a tale opposizione soggiungo: primo, scorrere un certo tempo prima che le filtrazioni giungano a livellarsi con le piene del fiume, nel qual tempo calano le piene medesime, che sono per solito di breve durata in fiumi dalla natura torrenziale com’è il nostro; secondo, doversi sopprimere tutti gli smaltitoi che fossero in qualche vicinanza del fiume, e supplire a quelli con vasi a tenuta; terzo, alzare ove occorra le gole dei pozzi, e chiudere tutte quelle aperture che fossero al disotto delle massime piene; quarto, rivedere tutte le pareti interne, e pavimentare con buono smalto tutte quelle cantine che fossero sferrate; finalmente usare ogni diligenza che stia ad impedire il meglio possibile le filtrazioni che comunque avvenissero non sarebbero mai tali da compromettere la intera città ma solo da molestare qualche privato.
Quanto poi al rialzamento delle spallette, o sponde io ritengo l’opinione medesima esternata dal matematico Perelli, cioè di alzarle un braccio circa principiando non solo coma egli dice dal tratto immediatamente superiore al Ponte a Rubaconte, e seguitando fino alla coscia del Ponte alla Carraja, ma tale inalzamento dovrebbe operarsi dalla fabbrica della Zecca inclusive, ed estendersi fino alle molina della Vaga Loggia sulla destra del fiume ove ricorrono orti, e fabbriche di particolari, regolando peraltro tale rialzamento a norma della cadente delle piene massime, per modo che resultasse di un mezzo braccio almeno superiore al livello di essa cadente, che tornerebbe bene fosse segnata nelle sponde, ed in tutti quei luoghi ove si possa, notandovi quelle variazioni che fa tra ponte, e ponte come sopra ho avvertito.
Questi sono i provvedimenti che io reputo necessarii, nella tenuità mia, mandare ad effetto almeno poco alla volta, quando non si voglia tener dietro a’ qualcuno dei diversi progetti di diversione di tutto, o parte dell’Arno da Firenze finora proposti, inattendibili i primi per le enormi spese che importerebbero, insufficenti i secondi, perchè diminuendo l’acqua di velocità, il deposito delle materie si farebbe maggiore, ed il rialzamento del letto d’Arno aumenterebbe.
Questo soggetto mi offrirebbe largo campo a considerazioni che come artista, sebbene debolissimo, mi ecciterebbero ad estendere i miei ragionamenti, ma dopo quello che è stato scritto in materia, da valenti ingegni crederei abusare dell’indulgenza di chiunque si degni dare un’occhiata a queste mie riflessioni, cui do termine, raccomandando l'effettuazione dei suggeriti provvedimenti, e più particolarmente di quello che si riferisce allo sbassamento della pescaja d’Ognissanti, che anche fino dall’anno 1548 sotto Giulio de’ Medici (poi Papa Clemente), formò soggetto di moltissime discussioni, il cui resultato condusse al partito di creare una gran calla in mezzo di quella pescaja, che tenuta aperta in tempo di piene, servir dovesse a scaricare nella parte inferiore le materie che fossero scese nell'alveo entro Firenze.
Possano queste mie riflessioni eccitar l’animo dei più valenti a proporre compensi anche migliori, che sarò sempre sodisfatto se anche in mezzo a qualche errore in cui fossi caduto, avrò conseguìto il fine, che non sia dimenticato un soggetto di sì alto interesse per la nostra Firenze.
Li 8 marzo 1848.
FIRENZE
STAMPERÍA SULLE LOGGE DEL GRANO
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1864