Elegia di madonna Fiammetta (Laterza, 1939)/Nota
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NOTA
Quando accettai da Luigi Russo l’incarico per questa edizione dell’Elegia di Madonna Fiammetta1, ero persuaso che un’attenta revisione del testo quale si leggeva nelle piú recenti edizioni, sui manoscritti fiorentini, sarebbe bastata per offrire un nuovo testo certamente ridotto a miglior lezione, ma senza sostanziali novitá. Ma le cose mi si cominciarono a complicare subito quando volli rendermi conto dei criteri con cui G. Gigli aveva fatta l’edizione per la «Bibliotheca Romanica» di Strasburgo. Il Gigli, dopo avere accennato all’edizione Giuntina del 1517 e alla ristampa del 1524, dice: «Il testo di questa veramente pregevole edizione fu poi comunemente seguito nella maggior parte delle posteriori ristampe, da una delle quali abbiamo noi tolto quello che presentiamo ai lettori della Bibliotheca Romanica e le cui varianti con la Giuntina del 1524 abbiamo registrate in nota». È strano che il Gigli non dia l’indicazione precisa dell’edizione di cui egli si serví, ma piú strano ancora è che siano date in nota le varianti di quella edizione dalla quale si afferma che siano derivate la maggior parte delle posteriori ristampe, e fra queste, è da credere, quella scelta dal Gigli. Ma le varianti date in nota dimostrano in modo lampante che le differenze fra il testo della Giuntina del 1524 e quello ristampato dal Gigli, non sono né poche né soltanto formali, e che in molti passi si tratta di periodi completamente diversi. Quale dei due testi è da ritenere originale?
Prima di ricorrere all’edizione del Moutier, yolli vedere il testo pubblicato da P. Fanfani nel 1859 per la collezione «Diamante» del Barbèra. Merita sentire il nuovo editore: «Questa opera, la quale fra quelle di Boccaccio non è certamente l’ultime di pregio, è per altro la piú tartassata dagli editori; ché tutti hanno avuto mania di correggere e correggere: né sempre sulla fede di codici, come asseriscono, ma spesso, e troppo spesso, a fantasia e contro l’uso buono degli antichi scrittori. Il piú scapigliato per altro fra tutti gli editori non dubito punto di affermare che fosse il Moutier, il quale trascurate le buone edizioni antiche, ed avuto poco rispetto a que’ codici de’ quali tanto e con tanto pro asserisce di essersi servito, ha per forma rabberciata a casaccio il testo in moltissimi luoghi, che il fatto suo è una maraviglia ed una pietá: e maraviglia maggiore e maggior pietá è il vedere che la edizione da esso rimpasticciata si è pur citata nella Tavola del Vocabolario della Crusca». Aggiunge il Fanfani che per il suo testo egli si era servito dell’edizione Giuntina del 1533, di quella Fiorentina del 1826, e che aveva consultata l’edizione del 1472, e, per i luoghi che l’avevano richiesto, i migliori manoscritti fiorentini. Non mi parve possibile che il Moutier, che conoscevo con diretta esperienza per un onesto editore delle opere del Boccaccio, meritasse tutto il male che il Fanfani ne diceva, e notai intanto che il testo dato dal Gigli coincideva con questo dato dal Fanfani. A che cosa gli era servito dunque il controllo con l’edizione Giuntina del 1533, ristampa di quella del 1524?
Un po’ di luce mi venne dall’edizione Moutier pubblicata nel 1829, nella cui prefazione si legge che Filippo Giunti, riproducendo nel 1594 l’edizione Giuntina del 1517, vi apportò molti emendamenti arbitrar! di cui non c’era testimonianza nei manoscritti, e che le edizioni posteriori al 1594 non erano che ristampe dell’edizione di Filippo Giunti. Per provare le sue affermazioni il Moutier cita in una lunga nota una serie di quegli emendamenti arbitrari, e segnala un passo intero del capitolo terzo che stampa in corsivo e che sospetta apocrifo, «e probabilmente un’aggiunta dell’editore del 1594». L’elenco degli emendamenti ritenuti arbitrar! offerto dal Moutier, mi diede l’occasione di controllare che alcuni di essi si trovavano ancora nell’edizione del Fanfani e in quella del Gigli.
Còmpito non lieve per un editore che non volesse lasciare le cose al punto di prima: controllare se le innovazioni indicate dal Moutier apparvero per la prima volta nella stampa del 1594; controllare il maggior numero possibile di manoscritti per rintracciarne le eventuali tracce.
È quello che ho fatto, ottenendo risultati che posso affermare sicuri: la maggior parte delle innovazioni della stampa del 1594 erano giá nell’edizione di messer Tizzone Gaetano di Pofi pubblicata a Venezia nel 1524 e da allora riprodotta nella maggior parte delle edizioni del sec. XVI; tutte le edizioni anteriori al 1524 e tutti i manoscritti esaminati confermano che quelle innovazioni si debbono all’intervento arbitrario di messer Tizzone, e che quindi vanno escluse dal testo genuino, compreso quel passo del capitolo terzo segnalato dal Moutier; le edizioni moderne dell’Elegia, posteriori a quella del Moutier (oltre a quelle giá citate del Fanfani e del Gigli, l’edizione Sonzogno, 1883, e quella Salani, 1934), conservano nel testo buona parte degli interventi arbitrari di messer Tizzone.
Per il mio lavoro ho avuto bisogno di consultare edizioni e manoscritti che si trovano fuori di Firenze. Sono lieto di poter qui manifestare la mia gratitudine per la liberalitá e la sollecitudine con cui mi sono stati inviati manoscritti o edizioni rare dalle Biblioteche: Universitaria di Bologna, Nazionale di Milano, Estense di Modena, Nazionale di Napoli, Universitaria di Padova, Nazionale di Palermo, Nazionale di Parma, Nazionale di Roma, Nazionale di Venezia. Un ringraziamento particolare debbo al Bibliotecario Direttore della R. Biblioteca Marucelliana di Firenze, E. Jahier, che mi ha spontaneamente offerto il suo prezioso aiuto per la ricerca di stampe e manoscritti nelle Biblioteche fuori di Firenze e per la richiesta del prestito, dandomi modo di consultare tutto nella Biblioteca da lui diretta.
Durante l’esplorazione dei manoscritti dell’Elegia, la fortuna mi è stata favorevole nel mettermene subito sotto gli occhi uno contenente delle chiose marginali, che un attento esame e il confronto con chiose analoghe che si trovano nell’autografo del Teseida, mi rivelarono per sostanzialmente autentiche del Boccaccio. Interessante in queste chiose il criterio nuovo con cui furono stese, rispetto a quelle del Teseida: il Boccaccio cita la sua fonte trascrivendo versi di Virgilio, di Ovidio, di Lucano, di Seneca, etc. Testimonianza dell’amorosa cura e predilezione per questa sua opera.
EDIZIONI
L’Elegia fu stampata per la prima volta a Padova nel 1472. Un esemplare di questa edizione si trova presso la R. Biblioteca di Parma, segnato col n. 647. Prima del testo del Prologo si legge: «Iohannis Bochacii Viri eloquentissimi ad Flamettam Panphili amatricem libellus materno sermone aeditus: Incipit Prologus artificiosus». In volgare è invece il sommario del primo capitolo: «C. primo in nel quale Fiametta si duole del suo nascimento et chome poi che è nata è stata felice insino che non cognobbe Cupido et come sarebbe stata felice se l’amore fussi stato secundo». Segue il testo del primo capitolo con le suddivisioni in paragrafi come generalmente si trovano nei manoscritti, con un po’ di spazio fra l’uno e l’altro. È probabile che l’autografo del Boccaccio contenesse delle brevi rubriche ad ogni paragrafo, ma la tradizione manoscritta che conosciamo non ce l’ha conservate integre (quelle che si trovano nel codice Riccardiano 1065 e nel Magliab. II, II 22 sono incomplete, e il testo di quelle che ci sono lascia dei dubbi sulla sua genuinitá). In questa edizione, per i primi quindici paragrafi, ci sono delle brevissime indicazioni in latino sul contenuto di ognuno di essi. Per ordine: «Fata iniqua malum portendentia; Somnium infortunatum; Signa futuri mali; Laudes ipsius connumerat; Primum Panphili amorem exponit; Fatetur se ipsius Panphili amore captam; Hic primi amoris infelicitatem diei exponit; Alloquitur mulieres admirative quod tam cito in ignotum arderet; Hic amorem suum celare cogitat; Hic sui corporis cultura et forme superbiam declarat; Hic insolita verba et furiosa loquitur; Hic nutricem suam alloquitur ut sibi consulat; Nutricis ad Flamettam saluberrimum consilium; Aliud consilium multis exemplis coroboratum et responsio falsa». Per tutto il resto dell’opera mancano i sommarii non solo ai paragrafi ma anche ai capitoli; la divisione sussiste tuttavia per lo spazio in bianco.
Alla fine del testo: «M.CCCC.LXXII. Die. XXI. March. Finis Fuit Fiamete.
Bar. Val. Patavus F. F.
Martinus de septem arboribus Pritenus.»
È molto probabile che la fonte manoscritta di questa edizione fosse giá alquanto alterata formalmente da caratteristiche tali venete, ma l’editore deve averle accresciute e deve aver commesso di suo moltissimi errori di lettura. Per le rubriche latine si rimane nell’incertezza se esistessero tali e quali nella fonte manoscritta, o fossero in volgare e tradotte dall’editore. Meno probabile, ma non da escludere del tutto, mi pare una terza ipotesi, che cioè siano opera originale dell’editore.
Una ristampa di questa edizione, che a me non è riuscito rintracciare, sembra debba essere quella che porta la data del 20 settembre 1480 senza indicazione del luogo. Il prologo, infatti, è preceduto dalla seguente rubrica: «Ioannis Boccacii ad Flametam Pamphili amatricem libellus materno sermone editus», che è nell’edizione del 14722.
Delle altre tre edizioni conosciute del sec. XV, due furono stampate a Venezia, rispettivamente, nel 1481 e nel 1491, la terza non porta né la data né il luogo3. Il testo dell’Elegía si presenta con le medesime caratteristiche in tutte e tre le edizioni, e, in particolare, quella del 1491 è una ristampa dell’edizione del 1481. In questa l’opera è divisa in nove capitoli per ognuno dei quali c’è un breve sommario quale si trova in quasi tutti i manoscritti. Ogni capitolo è a sua volta diviso in paragrafi che si distinguono dallo spazio lasciato vuoto per la lettera iniziale. Prima del prologo si legge: «Incomincia il libro di madonna Fiammetta da lei alle innamorate mandato». Al testo dell’Elegia segue una epistola di Hieronymo squarzafico Alexandrino alle donne innamorate: «mi pare giusto et convenevole...», scritta a Venezia ex Aedibus solite habitationis die. 19 Iunii 1481. Alla fine della lettera: «Finisse il libro di madonna fiameta a l’amorose donne mandato composto per misser boccazo poeta illustre et impresso in ne l’alma citade di Vinesia per magistro Philippo de piero negli anni del signore MCCCCLXXXI. Iohanne mozenicho felicissimo ducha imperante». Lo Squarciafico vuole illustrare con la sua epistola alle donne innamorate il «sugetto» del libro e la cagione «la quale mosse il... ligiadro poeta Iovanne boccazo» a scriverlo, ma gli piace prima accennare ad «una assai degna fitione poetica». Ed eccolo alle citazioni erudite di Nicandro «anticho poeta greco», di «Apuleio madaurense» e di «Ausonio gallo», il quale scrisse la favola di Cupido che era andato all’Èrebo, e, veduto «da le herodiade matrone», alle quali egli in questa vita «havea facto de molti gravissimi affanni suffrire», fu da esse preso e posto in croce sopra un mirto. Di tanta efficacia sono «gli amorosi advenimenti che sustengono gli innamorati pecti, che doppo questa vita cierchano anchora di quelle fiamme amorose vindicarsi». E questo ancora dimostra Virgilio nell’atteggiamento di Didone verso Enea nell’inferno. Dai pensieri amorosi procedono «tanti cocenti martiri, tante suspitione d’animo, tante mutatione di mente che meritamente quello di Plauto nella Cistellaria possiamo dire: «Io son tutto d’amore squassato, e me cruccio e sono agittato e non so dove. E son senza anima tirato e non tirato, e cosí nulla di fermo ho in l’animo mio. Sonno in un loco dove non sono e lá e l’animo mio. Sí che l’animo amoroso è come il refluxo de l’eurippo mare che mai non sta forte». Il Boccaccio scrisse quest’opera «per amore de madonna Maria figliola naturale de l’inclito re Roberto di Neapoli signore, la quale essendo in Franza maridata in uno nipote del re, per certe differenze come negli signori sogliono accadere, non fu troppo del marito contenta, ma d’uno siculo innamorata lungamente da lui abandonata si dolse; o vero d’alcuna altra de piú bassa conditione, o vero che tal cosa senza nessuno pensare egli l’abbia fatto, ch’io nol credo; pur la prima opinione mi pare essere vera. Scripsi ancora il Philostrato per costei quando il padre di madonna Maria non volse che l’andasse in Franza dal suo marito... Questo è che nel dicto libro finge Chriseida havere Troylo abandonato e essere possia de Diomede innamorata». Per il Filocolo lo Squarciafico rimanda a quanto egli aveva scritto sulla vita del Boccaccio per l’edizione di quell’opera nel 1467. In fine, l’elogio del Boccaccio come prosatore in volgare: «Quanto sia polito, terso e eloquente il nostro Boccacio, in questo suo idioma volgare ciaschuno huomo d’ingegno il può e debbe per il piú excellente che alcuno altro iudicare, dico in soluta orazione. E tutti li suoi libri quali in questa vernacula lingua egli ha scripto testimonianza verissima ni mostrano. E questo tu Phedrone che in questo e in ogni altra cosa ti reputi havere iudicio, questo per il dovere, e non ti muova l’origine di Firenze dove tu sei e de la quale il poeta di cui scriviamo fu citadino; ma la veritá ti muova a questo diffendere: perché molte fiade vi vedo a la bibliotecha del nostro Antimaco brixiense di molte cose degne di memoria disceptare. Sí che se mai di questo nulla intervenisse, tu con Antimaco principe di l’achademia vi priego che la veritate voliati diffensare. E voi, amorose donne con Dio e felice ne li vostri amori stative in pace».
L’edizione del 1491 porta nel frontespizio il titolo di Fiammetta. Prima del prologo: «Commenda il libro ditato a Fiammetta da essa alla innamorata mandato explecto per lo illustre poeta et oratore gravissimo Giovani Boccacio». Alla fine dell’opera segue l’epistola dello Squarciafico senza l’indicazione del luogo né della data, e quindi: «Finisse il libro di madonna fiammeta a l’amorose donne mandato composto per miser Iohanne boccazo poeta illustre et impresso in Venesia per Maximo de Papia negli anni del signore MccccLxxxxi Adi xxiii Septembre». Come si è giá detto, è una materiale ristampa dell’edizione del 1481.
L’edizione che non porta indicazione di luogo né di data, ha prima del prologo la medesima rubrica che si trova in quella del 1481 («Incomincia il libro di madonna frammetta da lei alle innamorate mandato»). Alla fine del testo dell’opera, dopo le parole «finis Deo Gratias Amen» che si trovano anche nell’edizione del 1481, non c’è altro. Il testo dell’Elegia si legge con le medesime caratteristiche nelle due edizioni, ma qua e lá qualche piccolo errore dell’una non si trova nell’altra, e viceversa. Quella senza data nel complesso è piú corretta. Vagliando ad una ad una tutte le differenze del testo, sará forse possibile stabilire quale delle due edizioni è piú antica (a me pare che l’edizione senza data derivi da quella del 1481), ma al caso nostro basta avere stabilito che rappresentano una fonte unica.
Nei primi anni del sec. XVI l’edizione con l’epistola dello Squarciafico fu ristampata due volte: nel 1503 e nel 1511. La prima ha per titolo: Fiammetta | Opera gentile et elegante nominata | Fiammetta che fiamma d’amore | a l‘amorose donne mandato | composto per lo illu | stre poeta et orato | re Iohanne | Boccacio. Prima del prologo si trova la medesima rubrica che è nell’edizione del 1491. In fine, dopo l’epistola dello Squarciafico: «Finisse il Libro di madonna Fiammeta a l’amorose donne mandato composto per Miser Iohanne Boccazo poeta illustre et Impresso in Venesia negli anni del signore MDIII Adi xxvmiii Luio»4. È evidente che il nuovo editore ha tenuto presente l’edizione del 1491.
Nel 1511 fu ristampata l’edizione del 1503 col medesimo titolo e sottotitolo (dal sottotitolo furono eliminate le parole «che fiamma d’amore» che non davano senso; e infatti nel testo della lettera dello Squarciafico dalla quale provengono, seguiva ad esse la parola «significa»), ma con l’aggiunta «cum grande diligentia novamente emendata». In fine, dopo l’epistola dello Squarciafico: «Finisse il Libro di madonna fiametta a l’amorose donne mandato composto per Misser Ioanne Boccazo illustre poeta et Impresso in Venetia negli anni del signore MDXI Adi xxiii Decembrio»5.
L’edizione Giuntina del 15176 porta il titolo: Fiammetta del Boccaccio. Precede l’opera una breve lettera di dedica di Bernardo di Giunta a Cosimo Rucellai, della quale ecco il passo che può avere qualche interesse: «Voi leggendo il presente trattato troverrete una donna ne’ lacci d’Amore involta, e in essi miserissima quanto alcuna altra non ne fu giamai. Li cui sospiri, le cui lagrime, le cui dolenti rammaricationi, e a voi, e a qualunque, altro che quinci leggiera per aventura potranno essere utilissimo exemplo di non mettersi incautamente negli amorosi pericoli. Appresso quanto la lingua nostra habbi, e frutti e fiori, apertissimamente vederete. Il che anchora a ciascuno, che come voi di quella si diletta (benché pochi ne sieno) di non piccola consolatone gli fia cagione. Noi ci siamo ingiegnati quanto sono bastate le forze nostre di ridurla nella primiera perfettione, e massimamente poi che io feci pensiero di mandarla fuori sotto a il nome vostro. Alla qual cosa fare, n’è bisognato usare non poca diligenza per essere ella stata pel passato da molti stampatori externi lacerata e guasta, e in oltre qui scritta da huomini poco pratichi e trascurati, e in lettera piuttosto per far memoria de’ baratti su pe’ libri de’ mercatanti buona, che per iscrivere poesia, dove di qualche parte d’ingegno s’habbia a dare inditio. Pure l’habbiamo racconcia in maniera che voi paragonandola con qualunque altro bollissimo testo commenderete la opera nostra e terrete questo picciolo dono charo appresso di voi. Il che faccendo io che altro non cerco mi terrò d’ogni mia fatica oltre appagato».
Prima del prologo: «Incomincia il libro chia | mato elegia di madon | na Fiammetta da lei | alle innamora | te donne mandato.
L’opera è divisa in nove capitoli ognuno dei quali è preceduto dal solito sommario. I capoversi corrispondono alle suddivisioni dei capitoli in paragrafi come nei manoscritti.
Alla fine dell’opera si legge: «Qui finisce la Elegia di Madonna Fiammetta composta per Messer Giovanni Bocchacci Fiorentino». Segue un elenco degli errori di stampa con le rispettive correzioni, e il richiamo al lettore perché «dovunque nella distintone dell’opera si trova stampato libro, legga capitolo», e quindi l’indicazione del luogo e della data: «Stampato in Firenze per Philippo di Giunta l’anno del Signore M.D.XVII, del mese d’aprile, Leone decimo Pontifice».
Per stabilire il testo pubblicato nella sua edizione, il Giunti tenne poco conto delle edizioni precedenti, e ricorse direttamente alle fonti manoscritte servendosene, in genere, con acume e con discernimento sia per la parte formale, sia per il contenuto. Ma, come vedremo, l’edizione avrá poca fortuna. Fu ristampata infatti, insieme con la lettera del Giunti al Rucellai, un anno dopo a Venezia «per Cesare Arrivabene Venetiano» in una edizione col frontespizio: Fiammetta del facon | dissimo orator et poeta Giovanni Boccaccio. Do | po la ultima e piú fedel firentina impressione no | vamente revista. Correti prima gli errori | scorsi per incuria del impressor a suoi | lochi segnati: et redutta etiam a | piú leggibili charattere et \ commoda forma: come \ facilmente si vede7. Dagli stessi Giunti fu ristampata nel 1524 e nel 15338; e fu tenuta presente per l’edizione veneziana di Nicolò Zoppino, nel 1525 (Fiammetta Amoro | sa del M. Giovanni | Boccaccio Ri | corretta | di nuovo)9. Le correzioni sono limitate alle innovazioni ortografiche di cui lo Zoppino si vanta in una epistola al lettore, che precede l’opera. Ma ecco nel 1524 l’edizione che dominerá incontrastata per tutto il sec. XVI e per i secoli successivi: La Fiammetta del Boc' | caccio. Per Messer | Tizzone. Gaeta| no di Pofi. No | vamente | Revista. L’opera è preceduta da una lettera di dedica di messer Tizzone «a la illustrissima et excellentissima Signora Dorothea di Gonzaga Marchesana di Bitonto», che è importante trascrivere:
«Essendomi io per fede gran tempo fa senza altra consideratione obbligato a voi illustrissima et excellentissima Signora Dorothea nel vero fermo sostegno d’ogni valore, di corregger la Fiammetta (peso oltre al devere agli homeri miei gravissimo) et non volendo venir meno a voi sola, né a la fede, la quale in me tal luogo possiede che non mai da gli infiniti valori de la nemica fortuna offesa ricevette, né da que’ de l’inevitabil morte ricever la potrebbe, molti giorni sono che conchiusi (che che avenir ne devesse) a gran rischio, et in mano di tutto l’altro mondo, metter l’honor mio sodisfacendo a voi et quella osservando. Veramente di quanto male sono io per soffrirne, doler non mi potrò d’altri che di voi, che cosa a me non convenevole commandaste, e di me, che udita la cosa diffidi molto piú che troppo al commandamento di presente consenti. Ma che deveva io rispondere altro che volentieri, havendolomi commandato chi interamente allhora commandar mi poteva sí come al presente può? Donde altro far non potendo, né volendo, l’opra in lungo tempo, in quel modo che saputo ho migliore, da me posta in effetto, et in fino a qui con tema non picciola rattenuta, hora, senza altrimenti pensarvi, ho fermato al destinato luogho suo liberamente consegnare. Et ove io non possa (essendo per lunghissima distanza mal mio grado col corpo diviso) con la lingua far l’opra, et il venire, dal non potere interdetto veggendomi, e mandandola, sí come ad una vostra pari far conviensi, con l’animo da la vostra servitú non mai lontano reverentemente dico. A due bellissime mani, e divine anzi che no, da un fidelissimo servo, questa leggiadrissima et amorosissima opra si presenta. E di cotal presente altro ristoro non cheggio, che degniate imprima per iscusa mia almeno dir publicamente queste poche parole: Io come quella che commandar li poteva, quel che ha fatto gli ordinai. E poi col vostro ingegno da la natura diligentemente polito e condotto con la sua piú fina lima in quella acutezza che si possa maggiore, scaltritamente sopplire in quello, in che col mio rozzo mancai. Ma che meraviglia è s’io mancai, risarcendo io tutto solo quella Fiammetta, la quale da molti scrittori e stampatori stracciandosi quanto si possa piú, sí sparuta era, che non piú per bellissima, anzi homai (di lei ognun gabbandosi) per bruttissima si giudicava? Hora s’amendue queste dimande da voi veramente dono di Dio per gratia de’ mortali al mondo conceduto, impetrerò, primieramente piú grado sarò a voi che a tutto l’altro mondo, et appresso, i morsi di qualunque maldicente da molto poco stimerò. Ma se per disgratia mia, forse per aggiunger questa a tante altre che mi soprastanno, o forse per non voler voi tanta fatica torre, l’addimandate gratie si negasseno, io, per margine del libro, tanto di spazio lascio, che in quello gli huomini experti, lontani da la animositá, de la lingua amadori, et inchinati al bene amare l’excellentissimo autor de l’opra (non prendendone io punto disdegno) potranno e col tempo, cosí al pristino luogo suo riducerla, come io al potere essere agevolmente bene intesa, l’ho ridotta. Donde s’ad alcun gentile et innamorato spirito cadesse ne l’animo di veder l’industriosa arte, con la molta dottrina del radissimo messer Giovanni Boccaccio, la forza infinita d’Amore, i modi bellissimi et dolcissimi di parlare, la vera osservanza de l’utilissima nostra commune lingua, gli argutissimi andamenti in un perfetto amare adoperati, gli affetti amorosi, et non infiniti da una donna adoperati, uno infelicissimo fine d’amore nato da felicissimo principio fra duo amanti accaduto, un continovo dolere et con pianto amarissimo, et con lamento assai degno di compassione, et in brieve quanta forza ha sopra i mortali la non pieghevole fortuna, legga e bene et attentamente legga questa rinata Fiammetta, rinata dico, perciò che morta era da tanti infino a qui laceramenti sofferti. Questa veramente, senza animositá leggendosi, a gli huomini et a le donne di ciascuna etá e d’ogni qualitá porgerá sommissimi soccorsi: de’ quali hora essere io vorrei, a ciò che soccorrendomi ella imprima appo voi gratia a me convenevole haver mi facesse, e poi l’animo d’alcun disponesse sí che per lettera s’adoperasse a guisa che io sapessi, al ricevere di cotal presente, il sembiante che farete, grato o sdegnoso, e le parole che userete, dolci o pur d’amaritudine colme; a ciò che io co’ vostri diletti, se ne riceverete, possa allegrarmi, e co’ vostri dispiaceri, se ne havrete, attristandomi, possa in qualche parte rimediar nel futuro. Il quale (sallo Dio) che per voi, per tutte le persone ad Amor soggette, per tutti que’ che per la loro bontá la mia fatica non biasimeranno, e per me vorrei che lungo fosse e con letizia compiuta, senza piú.»
Un primo accomodamento di carattere esteriore fu apportato alla distribuzione dei capitoli che nei manoscritti e nelle edizioni precedenti sono nove con relativi sommari. Messer Tizzone elimina i sommari e riduce i nove capitoli a sette libri. Il perché è facile supporlo: i capitoli quali li trovava nelle edizioni precedenti non avevano nessuna proporzione fra di loro perché ce n’erano due (il IV e il IX) che comprendevano poche pagine, e uno (il V) che aveva una estensione di circa metá dell’opera intera. Messer Tizzone volle rimediare a tali evidenti sproporzioni, e, lasciando intatti i primi due capitoli, fuse insieme il III e il IV, fece diventare IV, V e VI libro, rispettivamente i capitoli V, VI e VII, e per il VII e ultimo aggregò il capitolo IX all’ VIII. Occorre rilevare che questa distribuzione è del tutto arbitraria? Chi non sa che era nella consuetudine del Boccaccio distribuire le sue opere in capitoli o libri molto lunghi accomunati con altri brevi o brevissimi?
Alla fine del testo dell’Elegia c’è l’errata-corrige che comprende poco piú di cinque pagine, e in fine c’è l’indicazione: «Impressa in Vinegia per Bernardino di Vitale, e compiuta a duo di settembre de l’anno MDXXIIII».
Con quali criteri messer Tizzone eseguisse la promessa di corregger la Fiammetta, è presto detto: tenendo presenti un paio di edizioni di cui una a me par certo che dovesse essere la Giuntina del 1517 o una ristampa, il nuovo editore corregge come gli pare e qualche volta si lascia sedurre a inserire qualche piccolo pezzo interamente suo. Trascrivo qui il principio del Prologo mettendo in corsivo le parole che hanno risentito dell’intervento dell’editore: «Suole a’ miseri crescer di dolersi vaghezza, quando di sé discernono o sentono in alcuno compassione. Adunque acciò che in me volonterosa piú che altra di dolermi [omesso: di ciò] per lunga usanza non si menomi la cagione ma s’aumenti, mi piace o nobili donne, ne’ cuori de le quali Amore piú che nel mio forse felicemente dimora, narrando i casi miei tentare di farvi, s’io posso, pietose. Né mi curo che ’l mio parlare agli uomini [omesso: non] pervenga».
Correzioni di tal genere abbondano per tutto il testo, e bisogna riconoscere che spesso sono fatte in modo che apparentemente il senso riesce piú chiaro. Per esempio, a pag. 68 della nostra edizione, il passo «Certo non io: anzi cosí come fedelmente parlava, cosí con fede le parole e le lagrime riceveva», nel quale concordano i manoscritti e le edizioni anteriori a quella di messer Tizzone, fu da costui corretto in questa forma: «Certo non io: anzi cosí come fedelmente pareva che parlassi e che piangessi, cosí con fede...». Messer Tizzone non rimase persuaso di quel parlava che secondo lui doveva essere riferito a Panfilo, e rimaneggiò secondo la sua interpretazione.
Altre volte gli capita di rimaneggiare piú infelicemente. Per esempio, a pag. 52 della nostra edizione, il passo «... tanto era piú il mio disio ardente che tosto le quattro volte si consumassero, che veloce il corso suo», parve oscuro al nuovo editore, e fu cosí modificato: «...tanto era il mio disio piú ardente, quanto piú tosto le quattro volte del suo veloce corso voluto avrei che consumate fossero». E potremmo ancora continuare con esempi simili, ma ci preme di piú fermarci alle interpolazioni vere e proprie, che sono due: una è di poche parole, ma cosí ben trovata che può lasciare perplessi. A pag. 81 della nostra edizione si legge: «...per che indietro trattami, sopra gli stesi tappeti con alcune altre mi ponea a sedere»; nell’edizione di messer Tizzone: «... per che indietro trattami sopra i distesi tappeti, e tra me dicendo: — Ove sei, o Panfilo? — con alcune...». L’interpolazione, e non c’è dubbio che sia tale, è intonata al contesto: basta leggere nella pagina precedente: «...cosi mi ricorreva alla bocca: — O Panfilo, ora fossi tu qui a vedere, come giá fosti! — ...». Ma messer Tizzone s’era provato a ben altro nel capitolo terzo, pag. 47 della nostra edizione. Al passo «... lascio questo andare, intrando in altri», messer Tizzone aggiunge: «varii e nuovi pensieri. Io dolorosa stava sola, e pur di lui del tutto pensosa dimorava, e or qua e or lá per la camera mi voltava, e alcuna fiata fra me stessa diceva, dandomi con la mano sotto ’l capo appoggiata al mio letto: — Ora giugnesse qui il mio Panfilo! — E cosí stando, in questi e in altri pensieri entrava». Non c’è che dire: l’episodietto è inventato bene, ma la saldatura lascia un po’ a desiderare perché a distanza di poche righe c’è una ripetizione inutile. La concorde lezione dei manoscritti e delle stampe precedenti non ammette discussione. E si badi che messer Tizzone nella lettera di dedica non accenna a manoscritti, e che la collazione da me fatta fra il testo della sua edizione e quello delle edizioni precedenti, non mi ha offerto nessun elemento positivo per dedurre che l’editore ne avesse presente qualcuno10.
Quale fosse la pretesa di messer Tizzone nell’accingersi a mescolare un po’ del suo nell’opera degli altri quando ciò non fosse giustificato né dall’oscuritá del passo né dal desiderio di sostituire forme piú moderne, non si può dire: vanitá, o scopo preciso di imporre la sua edizione che cosí riparava a ipotetiche lacune delle precedenti? È certo che il sistema fu messo in pratica anche per l’edizione del Teseida (1528), con l’aggiunta di una intera ottava fra la 17a e la 18a del libro IV11; e anche in questo caso l’interpolazione è fatta con giudizio. Fra le ristampe di questa edizione (Venezia, Vitali, 1525; Venezia, De Gregori, 1525; Venezia, Vitali, 1534; Venezia, Padovano, 1540), ce n’è una senza indicazione del luogo né della data12. Lo Zambrini la mette fra le edizioni del ’400, ma è da escludere senz’altro tale ipotesi, perché l’edizione di messer Tizzone presuppone la Giuntina del 151713; quindi potrá esser questione se sia anteriore o posteriore all’edizione del 1524, ma poiché il testo è identico nell’una e nell’altra, per noi la cosa non ha alcun interesse14.
Nel 1542 l’edizione di messer Tizzone fu ristampata da Gabriel Giolito de Ferrari, col titolo: L’Amorosa | Fiammetta di | M. Giovanni Boccaccio | nuovamente per M. Lodo | vico Dolce da ogni er | rore emendata | et dal medesimo ag | giuntovi una nuova tavo | la delle cose degne | di memoria.
La lettera dedicatoria di messer Tizzone fu sostituita con una di Gabriel Giolito «alle gentili et valorose donne della cittá di Casale di Monferrato». La tavola del Dolce premessa al testo dell’opera, è come un indice-sommario col richiamo delle pagine. Per il resto il Giolito si attiene fedelmente all’edizione di messer Tizzone.
Non occorre tener dietro alle numerose ristampe dell’edizione del Giolito per tutto il ’50015, fino alla nuova edizione Giuntina del 1594, nel cui frontespizio si legge: La | Fiammetta | di M. Giovanni | Boccacci | di nuovo ristampata | e riveduta con ogni diligenza | con testi a penna con pos | tille in margine | e con la tavola nel | fine delle cose piú notábili. In Firenze | per Filippo Giunti | M.D.XCIIII.
Ecco che cosa dice di questa nuova edizione Filippo Giunti nella lettera a Iacopo di Francesco Nerli nobilissimo fiorentino, Reggente dell’Accademia de’ Desiosi:
«Tre son le ragioni, s’io non m’inganno, per le quali io mi credo far cosa grata alla memoria di questo splendientissimo lume di nostra Patria, ancorché, per se medesimo, egli abbia con l’egregie sue opere, lasciataci in guisa chiara la luce sua, che poco gli dee calere, che altri piú cerchi chiarificarla. Non per tanto non è che ’l tempo non si sia ingegnato, con la sua costumata voracitá, non dirò di trangugiar né di spegnere (essendo stata da’ bianchi cigni condotta salva al tempio la medaglia del nome suo), ma con alcun neo bruttar la sua candidezza, e con qualche maglia, come si dice, offuscargli alquanto di questa sua chiarissima luce. I nei e le maglie, che nella bianchezza e nella chiarezza delle sue opere si ritruovano, per via delle stampe e forse prima, per l’ignoranza de’ copiatori, in esse ha potuto inducerle il tempo, ma non ve l’ha giá potuto poi mantenere. Ed io ora mi credo d’esser stato assai buon contrastator di sua pessima volontá, rendendole al Mondo, suo malgrado, purgate da ogni macchia, e chiare, e lucenti come fur mai, avendo in questa operato, senza riguardo di spesa né d’altra cosa, e nell’altre opere altresí, operando pur tuttavia che con testi a penna, e da persone intendenti, sieno riscontre, e ridotte alla lor prima e vera lettura: e questa delle tre ragioni è la prima. La seconda è questa altra, senza contrasto, che mandando fuori novellamente questa sua opera da lui intitolata Fiammetta, nella quale, sotto nome di Panfilo, egli descrive un amor di sua gioventú, e amor veramente da gloriarsene, io la mandi fuora segnata in fronte dal nome d’uno de’ rami del materno suo albero, qual siete voi, estratto del chiaro sangue dell’antica stirpe de’ Nerli, e giovane, e forse non men che si foss’egli in quel tempo, ora acconcio ad amare. La terza sí è il contrassegnarla di nome studioso di questa lingua come ce ne fa ampia fede la vostra Desiosa Accademia che, sotto ’l vostro reggimento, dando opera conti nova a tali studi, con progressi degni di tutta quella nobilissima gioventú, si viene avanzando. Ricevete adunque si fatto dono, cosí volentier com’io il vi presento, e dietro alle vestigie d’un cotanto chiaro parente, sforzatevi, si come egli, di poggiare a famosa gloria, che N. S. vi doni intera felicitá.»
La mancata esplorazione delle edizioni precedenti a questa del 1594 ha fatto si che si ripetesse dal Moutier in poi l’affermazione che in essa per la prima volta era apparsa la divisione dell’opera in sette libri, e che il testo aveva subito delle forti modificazioni rispetto alla lezione dei manoscritti. Ma la divisione in sette libri risale all’edizione di messer Tizzone, e la novitá apportata da Filippo Giunti consiste soltanto nei sommari premessi ai vari libri quali si trovavano giá nell’edizione Giuntina del 1517 e in quelle anteriori a quest’ultima. Quanto al testo, si segue prevalentemente l’edizione di messer Tizzone, ma qua e lá anche la Giuntina del 1517. Dico la Giuntina, ma se si vuol dar credito a quanto dichiara Filippo Giunti nella epistola a Iacopo de’ Nerli, si può anche pensare a qualche manoscritto. Ciò che bisogna escludere è che la dichiarazione di Filippo Giunti possa far credere che la concordanza quasi completa col testo dell’edizione di messer Tizzone, debba attribuirsi a testimonianze di manoscritti. La tavola delle cose piú notabili è quella del Dolce apparsa giá nell’edizione Giolito del 1542 e poi sempre riprodotta nelle edizioni successive, ed anche le postille in margine derivano da una delle tante ristampe dello stesso Giolito. E si può aggiungere inoltre che il tentativo di accomodare il testo della Giuntina del 1517 con quello dell’edizione di messer Tizzone, era giá stato fatto nell’edizione veneziana del 1527.
Le edizioni posteriori a questa del 1594 16 sono una riproduzione di essa fino all’edizione Moutier (1829), tranne una, che ripete per conto proprio il terzo tentativo di accomodare il testo della Giuntina del 1517 con quello dell’edizione di messer Tizzone. Si tratta dell’edizione fiorentina, tanto esaltata dal Fanfani, del 1826: La | Fiammetta | di messer | Giovanni Boccaccio | In firenze dalla tipografia di Jacopo Ciardetti e C. MDCCCXXVI. L’opera è preceduta dalla lettera di Bernardo di Giunta a Cosimo Rucellai che si trova nell’edizione Giuntina del 1517 e nelle ristampe del 1524 e I533, e ciò ha fatto credere che questa edizione fosse una ristampa della Giuntina del 1517. La divisione in libri corrisponde con quella dell’edizione di messer Tizzone e Giuntina del 1594; i sommari con quelli dell’edizione Giuntina 1594; il testo è contaminato fra quello della Giuntina 1517 e l’altro della Giuntina 1594. Si capisce che non vi mancano le interpolazioni di messer Tizzone.
Di edizioni antiche il Moutier ebbe conoscenza limitatissima: cita quella Padovana del 1472 e quella senza data descritta dal De Bure, e confessa di non avere avuto possibilitá di riscontrarle; conosce invece l’edizione Giuntina del 1517 e le ristampe del 1524 e del 1533. Ignora del tutto le vicende del testo dell’Elegia nell’intervallo fra il 1517 e il 1594, e attribuisce quindi a Filippo Giunti tutte le variazioni che il testo dell’edizione del 1594 presenta rispetto a quello stampato nel 1517 e a quello che gli risultava dal confronto dei manoscritti Riccardiani. Come il Moutier stesso dichiara nella prefazione, il testo della sua edizione è fondato principalmente sul codice Riccardiano 1568, e, in via complementare su altri due Riccardiani: 1082 e 1110. Nessun conto tenne degli altri tre manoscritti Riccardiani.
L’Elegia ritornava cosí nel suo appetto originale con la divisione in nove capitoli, e col testo in gran parte ricondotto alla vera lezione. Evidentemente il Moutier non poteva riparare a tutto: rimase cosí nella sua edizione, stampato in corsivo, tutto il passo aggiunto da messer Tizzone poco dopo il principio del capitolo III; e qua e lá dove le ristampe dell’edizione del 1594 gli pareva che dessero un senso piú chiaro, mantenne quella lezione. Qualche volta gli avvenne anche di ritenere errata la lezione esatta della stampa e di correggere con la scorta dei suoi manoscritti. In proposito non occorre che ci dilunghiamo di piú perché piú avanti daremo la tavola delle differenze fra l’edizione Moutier e la nostra. Purtroppo, dopo il Moutier, venne il Fanfani; e si ritornò cosí al punto di prima, cioè a un testo contaminato fra l’edizione Giuntina del 1517 e quella di messer Tizzone per mezzo della Giuntina del 1594. E il Fanfani fu seguito, non tenendo conto delle edizioni commerciali, dal Gigli nella sua edizione per la Bibliotheca Romanica di Strasburgo17.
MANOSCRITTI
R. Biblioteca Mediceo Laurenziana.
1. — Laurenziano XLII, 7. Cartaceo della fine del sec. XIV,
di carte scritte e numerate 66. L’Elegia comincia a c. 1a col prologo, che non è preceduto da rubrica. L’opera risulta divisa in
nove capitoli preceduti da appositi sommari tranne il primo e
l’ultimo. La carta 16 è di scrittura piú recente sostituita ad una
che mancava. È questo l’unico manoscritto dell’Elegia che ha ai
margini le chiose che illustrano e spiegano gli accenni mitologici
del testo. A c. 66aTesto in apice, alla fine del testo: «Qui finisce ebbro chiamato Elygia della nobele donna fiametta da ley a tutte le donne
enamorate. Amen. Deo Gratias»18.
2. — Laurenziano XLII, 8. Cartaceo del sec. XV, di carte scritte 80. A c. 1a, prima del prologo: «Il libro chiamato Elegia di Madonna Fiammetta dallei alle innamorate donne mandato». L’opera è divisa in nove capitoli preceduti da sommari. A c. 80a, alla fine del testo: «Finito illibro di Madonna Fiametta mandato alle innamorate donne e belle a dí vi d’agosto MCCCCXXII».
3. — Laurenziano XLII, 9. Cartaceo del sec. XV, di carte scritte 152. Contiene l’Elegia e la traduzione in volgare delle Epistole di Ovidio. L’Elegia è acefala per la mancanza di alcune carte in principio.
4. — Laurenziano XC sup. 941. Cartaceo del sec. XV, di carte scritte e numerate 137. A c. 1a, prima del prologo: «Incomincia il libro chiamato Elegia di madona fiameta da lei mandato a le inamorate donne e in prima il prologo». L’Elegia è divisa in nove capitoli preceduti da rubriche. A c. 137a, alla fine del testo: «Explicit liber iste feliciter die vicesima nona aprillis noctis sub silentio a.° domini MccccLvii. E scrita de manu propria de Ihanne de la camara».
5. — Laurenziano XC sup. 942. Cartaceo del sec. XV, di carte 83 recentemente numerate in rosso nel margine inferiore. Di un’antica numerazione con le lettere dell’alfabeto è traccia nel margine superiore. La prima carta è segnata D=; le altre precedenti mancano, ma non tutte, perché qualcuna si trova spostata fra carte seguenti. Le carte 8 e 9, infatti, dovrebbero stare in principio perché contengono il capitolo IV quasi intero, e il seguito si trova appunto nell’attuale prima carta. L’Elegia finisce a c. 51b; da c. 52a a c. 56b contiene la Storia del calonacho di Siena; da c. 57a c. 83b, il Corbaccio, mutilo in fine.
6. — Laurenziano Ashburnhamiano 1257. Cartaceo del sec. XV, di carte scritte 106. A c. 1a, prima del prologo: «Incomincia il libro chiamato Elegia di madona Fiameta da lei mandato alle inamorate donne. Et in prima il prologo». L’Elegia è divisa in nove capitoli preceduti da rubriche. Il testo finisce a c. 97a. Da c. 98aa c. 106b è trascritta la novella di Ippolito e Lionora.
7. — Laurenziano Ashburnhamiano 1258. Cartaceo del sec. XV, di carte scritte 75, a doppia colonna. Oltre l’Elegia (cc. 1a -45b ), contiene il Corbaccio (cc. 46a-68a ) e Rime di Dante. L’Elegia è divisa in nove capitoli preceduti da rubriche. Prima del prologo: «Qui apresso incomincia lo libro che si chiama elegia di madonna frammetta dallei alle inamorate donne mandato prolagho».
R. Biblioteca Riccardiana19.
8. — Riccardiano 1065. Cartaceo del sec. XV, di carte numerate in rosso recentemente 78, scritte a doppia colonna. Contiene l’Elegia e il Corbaccio. Dell’Elegia, per la perdita di 11 carte, manca tutto il capitolo I. L’opera è divisa in nove capitoli preceduti da sommari; anche i paragrafi di ciascun capitolo hanno delle brevi indicazioni sul contenuto. Alla fine del testo, a c. 50b: «Qui finiscie il libro chiamato elegia della nobile donna madonna Fiammetta mandato dallei a tutte le donne innamorate si debbono, finis». Il codice è in cattivo stato di conservazione a causa dell’umiditá.
9. — Riccardiano 1072. Cartaceo del sec. XV, di carte scritte e numerate 73. A c. 1a comincia il prologo dell’Elegia senz’altro. La divisione in nove capitoli si arguisce dallo spazio lasciato vuoto, ma mancano le rubriche. Alla fine del testo, a c. 73a: «Qui finiscie il libro chiamato Elegia della nobile donna madonna fiammetta mandato dallei a tutte le donne innamorate. Deo gratias Amen».
10. — Riccardiano 1082. Cartaceo del sec.. XV, di carte 72. A c. 1a, prima del prologo: «Incomincia il libro chiamato Elegia di Madonna Fiammetta dallei alle innamorate donne mandato. Prologo. Composto per messer Giovanni Bocchacci da Ciertaldo, cittadino fiorentino». Subito dopo, la rubrica: «Copiato di mano di Giovanni Tolosini, del mese d’ottobre MCCCCXI». Il testo dell’Elegia è diviso in nove capitoli preceduti da rubriche. A c. 71b, alla fine dell’opera: «Qui finiscie il libro chiamato Elegia della nobile donna Madonna fiammetta mandato dalley alle innamorate donne. Deo grazias amen amen».
11. —Riccardiano 1110. Cartaceo del sec. XV, di carte scritte 155. A c. 1a, il prologo senz’altro. L’Elegia risulta divisa in otto capitoli, ma mancano le rubriche. A c. 155b, alla fine dell’opera, il copista (Pietro di Benedetto de’ Benedetti) trascrisse alcune lodi per la Vergine.
12. — Riccardiano 1148. Cartaceo del sec. XV, di carte 100. Manca in principio la carta che conteneva il prologo e buona parte del primo paragrafo del capitolo primo; anche in fine manca una carta che conteneva l’ultima parte del capitolo nono. I paragrafi si susseguono l’uno all’altro senza divisione in capitoli.
13. — Riccardiano 1568. Cartaceo del sec. XV, di carte 293, ma sono due codici riuniti insieme, il secondo dei quali contiene l’Elegia (cc. 236a-292íb). Il prologo è preceduto dalla rubrica: «Inchomincia ilibro chiamato Elegia di madonna Fiammetta, dallei alle innamorate donne mandato». L’opera è divisa in nove capitoli preceduti da sommari. Alla fine del testo, a c. 292b: «Scritto per mano... di Iachopo a honore di Madonna Piera». Il primo nome fu abraso.
R. Biblioteca Nazionale di Firenze20.
14. — Magliabechiano II, II, 22. Cartaceo del sec. XV, di carte scritte e numerate 73, (antica numerazione 107) senza contare 11 carte mancanti in principio che contenevano il Prologo, tutto il capitolo I e i primi quattro paragrafi del capitolo II dell’Elegia il cui testo finisce a c. 71b. Da c. 72a a c. 73b, il capitolo in terza rima Per gran forza d’amor commosso e spinto. Tra la c. 6 e la c. 7, manca una carta che conteneva buona parte dell’ultimo paragrafo del capitolo II e parte del primo paragrafo del capitolo III. Tra la c. 13 e la c. 14 mancano dalle tre alle quattro carte che contenevano gran parte dell’ultimo paragrafo del capitolo III, tutto il capitolo IV, e il primo paragrafo del capitolo V. Tra la c. 36 e la c. 37 manca una carta che conteneva parte del paragrafo che comincia «o felice colui...» (cap. V). Tra la c. 40 e la c. 41 manca una carta che conteneva parte deirultimo paragrafo del capitolo V, tutto il primo paragrafo e parte del secondo del capitolo VI. Tra la c. 49 e la c. 50 manca una carta che conteneva parte del paragrafo che comincia «da poi che la vecchia...» (cap. VI). Tra la c. 56 e la c. 57 manca una carta che conteneva gran parte del primo paragrafo del capitolo VII. Tra la c. 65 e la c. 67 mancano due carte che contenevano parte dell’ultimo paragrafo del capitolo VII e i primi tre e parte del quarto del capitolo VIII. Non può essere coincidenza casuale che la mancanza delle carte si ha per l’appunto nell’inizio di ciascun capitolo. Probabilmente qualche proprietario del codice che giá in qualche parte doveva essere mutilo, eliminò le carte che potevano testimoniare facilmente la incompletezza del manoscritto; ed è stato un vero peccato, perché cosí son venute a mancare non poche delle rubriche che precedono i vari paragrafi, conservate in buona lezione da questo codice.
15. — Magliabechiano II, II, 187. Cartaceo del sec. XV, di carte scritte 39, a doppia colonna. Il testo comincia senz’altro col prologo e seguita senza divisione in capitoli, ma è mantenuta la suddivisione in paragrafi per mezzo dei capiversi. Il testo rimane interrotto a c. 39a poco dopo il principio dell’ultimo paragrafo del capitolo VIII.
16. — Palatino 484. Cartaceo del sec. XV di carte scritte 51 a doppia colonna, ma la vecchia numerazione segna 58; mancano infatti le carte 4, 5, 6, 7, 51 e 52. A c. 1a: «Inchomincia il prolagho del libro di madonna fiammetta dalei alle innamorate donne mandato chonposto et chonpilato per messere giovanni bocchacci poeta fiorentino». Altra rubrica si trova prima del capitolo I, e e per gli altri capitoli fu lasciato lo spazio in bianco.
17. — Palatino 517. Cartaceo del sec. XV, di carte scritte 79. A c. 1a: «Incomincia il libro chiamato Elegia di Madonna fiammetta dallei alle inamorate donne mandato prologo conposto e conpilato per messere Giovanni bocchacci». L’opera è divisa in nove capitoli preceduti da rubriche. I paragrafi hanno la lettera iniziale grande colorata. A. c. 79a, alla fine del testo: «finito il libro Ellegia di Madonna fiammetta fatto e compilato per Messer Giovanni bocchacci da ciertaldo poeta fiorentino deo gratias amen». Il codice appartenne a Piero del Nero.
18. — Palatino 658. Membranaceo del sec. XV, di carte scritte e numerate 49, a doppia colonna. A c. 1a: «Incomincia il libro chiamato Elegia di Madonna fiammetta da ley a le inanrorate donne mandato conposto per l’excellentissimo poeta misser giovanni Boccaccio, proemio». L’opera è divisa in nove capitoli preceduti da rubriche. I paragrafi hanno la lettera iniziale grande colorata. A c. 49b, alla fine del testo: «Qui finisse il libro chiamato Elegia de la nobil donna Madonna phiammetta mandato da lei a le inamorate compilato per l’excellentissimo poeta misser Giovanni boccaccio di certaldo nobilissimo Citadino di Firenze. Scripto per mi Arsenio plepiliça essendo in annual regimento capetanio a la barga nel mille quatrocento vinti nuove di xv genaro feliciter Amen Amen Amen». Il copista ebbe a disposizione piú di un codice poiché in qualche punto nota che altri codici leggono diversamente.
19. — Panciatichiano 19. Cartaceo del sec. XV, di carte scritte 42, a doppia colonna. Manca una carta in principio, che conteneva il prologo, e i primi due paragrafi del terzo del primo capitolo dell’Elegia. L’opera è divisa in nove capitoli preceduti da rubriche. I paragrafi hanno la lettera iniziale grande colorata. A c. 42b, alla fine del testo: «Qui finiscie il libro chiamato elegia della nobile donna madonna fiammetta mandato dallei ad tutte le donne inamorate deo gratias amen».
20. — Panciatichiano 20. Cartaceo del sec. XV, di carte numerate 118; miscellaneo. L’Elegia, adesposta e anepigrafa, comincia a c. 39a e rimane interrotta a c. 81a, con le parole «che a lei posso volgere la mente» (cap. V, verso la fine del paragrafo che comincia «o felice colui»). Il codice è deteriorato per l’umiditá.
Biblioteca Carducci21.
21. — Manoscritti 43. Cartaceo della seconda metá del sec. XV, di carte scritte 102. Nella carta di guardia è scritto di mano del Carducci: «Dono di Mario Menghini a me Giosuè Carducci in Madesimo, 27 ag. 1899». L’Elegia è divisa in nove capitoli senza rubriche. A c. 102b, alla fine del testo: «Ego Gerardus lugensis scripsi hunc librum tempore sanctissimi in Cristo patris et domini: Domini Sixti divina providentia Papae quarti die vero xxii mensis maij MCCCCLXXII. In amenissima et potentissima civitate Viterbij.
Biblioteca Ambrosiana.
22. — Ambrosiano D, 29 inf. Cartaceo della fine del sec. XIV, di carte numerate 76. In una carta di guardia in principio è scritto: «La fiammetta di Gio: Boccaccio. Hic codex fuit aliquando Petri Bembi Card, ut colligitur ex nonnullis brevibus notis ad oram libri appositis; deinde Vincentii Pinelli a cuius heredibus tota eius bibliotheca Neapoli empta fuit anno 1609, iussu Ill.mi Card. Federici Borrom. Ambrosianae Bibliothecae fundatoris.
Antonius Olgiatus primus eidem Bibliothecae Praefectus scripsit anno 1609».
In una successiva carta di guardia si legge: «Questa fiameta è de mi And. mussolini mandadami per misser mio padre da... per Eg. chapitanio Misser pollo conttarini di 1442 adi 7 hott...».
Piú sotto c’è la data 1443, 22 luglio, e piú sotto ancora: «Io. Vinc. Pinelli. La fiammetta di G. Boccacci ex libris Petri Bembi Cardinalis come si vede per le postille scritte di sua mano». L’Elegia è divisa in nove capitoli preceduti da rubriche. Prima del prologo: «Incomincia il libro chiamato Elegia di madonna fiammetta da lei ad le innamorate donne mandato prologo». Le postille del Bembo, pochissime, mettono in rilievo qualche vocabolo, o qualche particolare forma verbale o speciali locuzioni. Soltanto nel principio del prologo c’è il richiamo alla Vita Nuova di Dante. Qualche postilla: mammella; vaga vaga; grieve; sonnocchioso; rimirata; quanta di noia; dar luogo etc. Alla fine del testo: «Qui finisce il libro chiamato elegia della nobile Madonna Fiammetta mandato da lei ad tutte le donne Innamorate alleluja alleluja».
23. — Ambrosiano 183 inf. Cartaceo del sec. XV, di carte scritte 64 («ex libris Ioh. Ang. Marelli Bibliothecae Ambrosianae custodis»). L’Elegia è divisa in nove capitoli preceduti da rubriche tranne il primo e il prologo. Alla fine del testo: «Qui finisce il libro chiamato Elygia della nobile donna Madonna Fiamecta mandato da ley a tucte le donne Namorate».
R. Biblioteca Estense di Modena.
24. — Manoscritti, 825. Cartaceo della seconda metá del secolo XV, di carte scritte 57. Le prime 37 contengono l’Elegia, le altre 20, il Corbaccio, scritto dalla medesima mano. L’opera è divisa in nove capitoli preceduti dai rispettivi sommari scritti in tempi piú recenti. Alla fine del testo: «A dí vi setembre MCCCCLXV In la Rocha de palaçol». Segue la poesia, anonima, O sommo di virtú fontana viva.
R. Biblioteca di Parma.
25. — Manoscritti, 2806. Membranaceo della fine del sec. XIV o del principio del sec. XV, di carte numerate 65, scritte 60. A c. 2a, la rubrica: «Incomincia il libro chiamato Elegia di madopna Fiamecta da ley a le innamorate dopne mandato. Prologo». Segue il testo con scrittura calligrafica a tutta pagina. La lettera iniziale del Prologo è miniata con figura che rappresenta Fiammetta in atteggiamento doloroso. Nel margine inferiore della pagina c’è arabescato uno stemma principesco con le iniziali di Giovanni e Maria. L’opera è divisa in nove capitoli preceduti da rubriche, e i capitoli in paragrafi con lettere iniziali grandi e colorate. Il codice proviene dalla Biblioteca di Ioh. Bern. De Rossi, è in ottimo stato di conservazione ed è fra i migliori per la correttezza generale del testo e per il mantenimento delle abitudini grafiche del Boccaccio. Insignificante l’influenza dialettale del copista caratterizzata dal continuo scambio fra e ed i.
Alla fine del testo, a c. 61a: «Qui finisci il libro chiamato Elegia di la Nobile dompna Madopna Fiamecta mandato da ley a tucte le Inamorate dompne.
Questo libro è di [spazio vuoto].
Ego Iohannes matheus Caualinus Scripsi».
Biblioteca Oliveriana di Pesaro22.
26. — Manoscritti, 805. Cartaceo del sec. XV, di carte 159. L’Elegia è divisa in nove capitoli senza rubriche. A c. 159b, alla fine del testo: «Questo libro chiamato Fiammetta fo scripto per me Francescho de Lello de Raniero degli Almerichi da Pesaro et finito adí xx. di marzo 1465.
R. Biblioteca Nazionale di Roma.
27. — Manoscritti, 508. Cartaceo del sec. XV, di carte 122, scritte tutte a doppia colonna; miscellaneo. Da c. 1a a c. 33b contiene il volgarizzamento del Primo bello punico di Leonardo d’Arezzo, traslatato in vulgare per uno suo amico; da c. 35a a c. 70a, il volgarizzamento delle Epistole di Ovidio; da c. 71a a c. 122a, l’Elegia divisa in nove capitoli senza sommari per i quali fu lasciato lo spazio in bianco.
R. Biblioteca Marciana.
28. — Manoscritti Italiani, X, 29. Cartaceo del sec. XV di carte numerate e scritte 71. A c. 1ai a: «Chomincia il libro chiamato elegia di madonna fiammetta dallei alle donne innamorate mandato. prolagho». Nel margine di sinistra, accanto alle prime linee del prologo, una mano diversa e piú recente scrisse: «Ioannis Boccaccii viri eloquentissimi ad Flamettam Ponphili amatricem libellus materno sermone editus». Tali parole si trovano nell’edizione Padovana del 1472 ed è probabile che dalla stampa siano passate nel codice. L’opera è divisa in nove capitoli senza rubriche per le quali fu lasciato lo spazio in bianco. Nel capitolo VI ci sono frequenti postille marginali in latino che vogliono mettere in rilievo alcuni passi. Per esempio: «Dico nota: hic nutrix dat bonum consilium»; eletio sue mortis cum deliberatione»; hic ratio loquitur»; hic dicit ultima verba ante quam vadat ad mortem deliberatam», etc.
29. — Manoscritti Italiani, X, 30. Cartaceo della seconda metá del sec. XV, di carte numerate 103, scritte 102. Mancano le prime tre carte, delle quali la terza conteneva il prologo e il principio del capitolo I. L’opera è divisa in nove capitoli senza rubriche per le quali fu lasciato lo spazio in bianco. Le lettere iniziali dei paragrafi sono grandi colorate; piú grandi e con fregi in oro le lettere iniziali dei capitoli. La carta 100 è mutila di un quarto. A c. 102a, alla fine del testo: «Finis presentis libelli, laus deo. 1469. die ultimo mensis octobris. pgom. I. B.».
30. — Manoscritti Italiani, X, 192. Cartaceo del sec. XV, di carte scritte 168. A c. 1a, il prologo dell’Elegia, senz’altro. La divisione in capitoli non è visibile, ma ogni paragrafo ha l’iniziale grande colorata. L’opera finisce a c. 61b, con la seguente rubrica: «Qui finiscie il libro indittulato Elegia di madonna Fiammetta mandato alle innamorate donne. Finis». Da c. 162a a c. 163b, la canzone Lasso che farò io poi che quel sole di maestro Antonio da Firenze; da c. 164a a c. 167a, il capitolo Piangi tu che pur dianzi eri felice di Bernardo Pulci; da c. 167b a c. 168a, la canzone Le cittá magnie fioride e civili di Mariotto Avanzati.
31. — Manoscritti Italiani, XI, 53. Cartaceo del sec. XV, di carte scritte 146, miscellaneo. L’Elegia si trova da c. 77a a c. 143b, scritta a doppia colonna. Nel margine superiore della c. 77a c’è l’indicazione della data e del copista: «MccccLv adí 18 auosto in Sibecha scritto per mano di Cristofallo Perazio». L’opera risulta divisa in nove capitoli, ma mancano le rubriche. In fine manca la carta che conteneva buona parte del capitolo nono.
Biblioteca vaticana.
32. — Capponiano 216. Cartaceo della fine del sec. XV, di carte scritte 158. A c. 1a, il prologo dell’Elegia senz’altro. L’opera risulta divisa in nove capitoli, ma mancano le rubriche23.
33. — Urbinate-Latino 690. Cartaceo del sec. XV, di carte 126. L’Elegia è divisa in nove capitoli senza rubriche24.
34. — Urbinate-Latino 1170. Membranaceo del sec. XV, di carte 149. L’Elegia è divisa in nove capitoli preceduti da rubriche. Il codice ha delle miniature, ed è in ottimo stato di conservazione25.
⁂
Mi limiterò ad accennare brevemente, ripromettendomi di trattarne presto piú ampiamente, alle questioni principali che presenta la classificazione dei manoscritti esaminati.
Una prima constatazione che si può fare è che tutti concordano nel leggere: Ipomedon invece di Ipomenes (pag. 71); danna o donna invece di di Susanna (pag. 95). Inoltre è quasi generale la lacuna di una o piú parole al passo: «li quali, poi che alquanto hanno [mirato] e le bellezze delle donne...» (cap. V, pag. 93). Qualche codice legge mirato o guardato, o considerato, ma il confronto con gli altri manoscritti prova sicuramente che si tratta di congettura di copisti, come è avvenuto anche per il caso di Susanna. E si possono aggiungere ancora: «maggiore [di] lui la salita...» (pag. 50); «...di che io che giá in ciò studiosissima...» (pag. 81). Per Ipomedon è interessante notare che cosí si legge anche nella chiosa, e che quindi molto probabilmente l’errore era giá nell’autografo. Per gli altri casi occorrono particolari osservazioni. Il testo originale del Boccaccio leggeva veramente la causa di Susanna? Io ne dubito, anche perché la frase «esaminare la causa» non mi pare boccaccesca. D’altra parte bisogna tener conto che nei manoscritti si oscilla fra la causa e l’accusa. La frase originale non era per caso l’accusata donna? C’è un manoscritto che legge così, ma non è indipendente dagli altri. Certo l’errore dei manoscritti si spiega meglio ammettendo per lezione originale l’accusata donna. Per la lacuna a pag. 93, causa di dubbi è la lezione data dalla Giuntina del 1517: «...i quali poi che alquanto hanno e la bellezza delle donne e le loro danze considerate, quelle commendando...». Si spiega come l’editore dinanzi ad un passo lacunoso dei manoscritti e delle edizioni precedenti, abbia integrato con considerate, ma perché avrebbe aggiunto quelle commendando, che è un di piú, non necessario ad integrare la lacuna? Sarebbe questo l’unico punto della Giuntina non giustificato né dalla testimonianza dei manoscritti né da quella delle edizioni precedenti; ed io per ora credo che sia troppo poco per ammettere che la Giuntina del 1517 abbia attinto ad una fonte manoscritta indipendente da quella che si conosce.
Per il passo a pag. 50 i casi sono due: o lui è una zeppa provocata da lui del rigo successivo, e allora sará da eliminare e il senso non ne soffrirebbe molto; o fa parte del testo, e allora è necessario congetturare [di]. La medesima situazione si presenta a pag. 81: se è una zeppa si elimina e il senso va benissimo; se fa parte del testo, allora bisogna ammettere una lacuna [fui] dopo studiosissima.
Non mancano altri casi dubbi che avrebbero bisogno di essere discussi, ma due in particolar modo meritano di essere segnalati. Nel cap. I, a pag. 9, nel passo «... benché della loro salute porgano ad essi segno, elli privano loro del conoscimento debito», quasi tutti i manoscritti leggono lui invece di loro, e per mantenerlo bisognerebbe riferirlo a segno e dare a conoscimento senso passivo; e tutto il costrutto ne soffrirebbe molto nel senso e nella sintassi. Nel cap. V, a pag. 106, nel passo «... le quali, cose a te assai leggiere, e a me grandissime, conterranno», ho mantenuto la lezione comune a quasi tutti i manoscritti che però potrebbe risolversi anche in conteranno, ma il senso non è molto soddisfacente. Peggio che mai, a me pare, congetturando contenteranno, che è in qualche codice e che si trova nelle edizioni anteriori alla nostra26.
Non m’indugio in altri casi, poiché qui a me interessa affermare che i codici esaminati fanno capo ad un manoscritto che aveva alcuni passi sicuramente errati. Si possono imputare tali errori ad un autografo? Certo la cosa non si può escludere dalle possibilitá, ma è poco probabile. Comunque, rimane assodato che la tradizione manoscritta che conosciamo proviene da un’unica redazione, e che qualche caso di varianti che lasciano incerti sulla scelta, trova la sua giustificazione nel fatto che il comune capostipite aveva le chiose marginali, alcune delle quali consistevano nel dichiarare con un sinonimo il significato di un vocabolo del testo.
Ai fini della classificazione si distinguono nettamente due folti gruppi di manoscritti, uno dei quali ha un ottimo rappresentante nel codice Parmense che non ha l’equivalente in nessun altro rappresentante del secondo gruppo, al quale appartengono, oltre al Laurenziano XLII, 7, l’Ambrosiano 183 inf., il codice della Biblioteca Nazionale di Roma. Altri manoscritti hanno seguito una via indipendente dai due gruppi.
Il nostro testo è il risultato del controllo fra i migliori rappresentanti dei due gruppi e fra i manoscritti indipendenti. Passi che hanno bisogno di essere discussi, ce ne sono, ma gli elementi forniti dalla tradizione manoscritta sono stati tutti vagliati. Per una maggior sicurezza su alcuni passi che possono dar luogo a dubbi o a soluzioni diverse, non c’è che da augurarsi che venga fuori qualche manoscritto che si riveli veramente indipendente dalla tradizione che conosciamo27.
Ecco la tavola delle correzioni piú importanti rispetto al testo dell’edizione Moutier28:
Edizione Moutier | Nostra Edizione |
Prologo, | » | 3 | Né mi curo però che il mio parlare agli uomini pervenga | Nè m’è cura perché il mio parlare agli uomini non pervenga |
» | » | pietosa lagrima | pietose lagrime | |
» | » | le leggiate | leggiate | |
» | » | o tutte | e tutte | |
Cap. I | » | 5 | conveniente | si conviene |
» | » | trapassati | trapassanti | |
» | 6 | nobili | e altri nobili | |
» | » | mali | danni | |
» | » | me sola | a me sola | |
» | 7 | retinente | renitente | |
» | » | vaga | vaga vaga | |
» | 8 | vero veduti | veri creduti | |
» | » | avvenir doveva | avvenne | |
» | » | disposta | di posta | |
» | 9 | gloriava | gloriavano | |
» | » | mirando | rimirando | |
» | 10 | ragguardamento | ri guard amento | |
» | » | niuno | niuno altro | |
» | 11 | In cosí | A cosí | |
» | » | fermò | mostrò | |
» | 15 | mi rendè | rendè | |
» | 16 | le risposi | pur le risposi | |
» | » | cacci | esturbi e cacci | |
» | 19 | furono rifiutati | rifiutai | |
» | 20 | incomportabile | importabile | |
» | 21 | da quelle di costui piú possenti fu tocco | da quel di costui piú possente fu cotto | |
» | » | pendente | precedente | |
» | 22 | combattendo | combattono | |
» | » | si muove | se ne venne | |
» | » | si fa | si fe’ | |
» | 23 | se tu | tu | |
» | » | sommamente | solamente | |
» | 25 | il volere nel | il volerne | |
» | 26 | fu lunga | fu luogo lunga | |
» | 28 | priegovi | priegole | |
» | » | se io dicessi che questa | se questa | |
» | 30 | senno | se non | |
Cap. II | » | 31 | Poi | Noi |
» | 32 | soperchia | soperchia dolcezza | |
» | 36 | sperava | spera | |
» | » | serbano | debbono | |
» | » | e siccome egli per addietro senza te | e cosí come, tu non con lui | |
» | 37 | del vecchio | del vecchio padre | |
» | » | la morte | a morte | |
Cap. III | » | 47 | dal consapevole | dal mio consapevole |
» | » | lasciai | lasciava | |
» | » | intrando in altri varii e nuovi pensieri. Io dolorosa stava sola e pur di lui del tutto pensosa dimorava, e or qua e or lá per la camera mi voltava, e alcuna fiata fra me stessa dieva, standomi con la mano sotto ’l capo appoggiata al mio letto: ora giugnesse qui il mio Panfilo. E cosí stando in questi e in altri pensieri entrava. Alcun’altra volta | intrando in altri. Alcun’altra volta | |
» | » | che avvenne | che ll’è avvenuto | |
» | 49 | o piú gentile | o gentile | |
» | 52 | di lui ragionando | di lui | |
» | 53 | e i prieghi | in prieghi | |
» | » | in qualunque parte | in alcuna parte | |
» | 54 | i libri | in libri | |
» | » | mi faceano | mi si faceano | |
» | 55 | quelle notti | quelle volte | |
» | » | e inverso me gridando | inverso me gridare | |
Cap. IV | » | 58 | trovai | truovo |
» | 62 | quasi ripresa ogni | quasi ogni ripresa | |
Cap. V | » | 64 | essendo | sedendo |
» | » | nel ragionare | nel loro ragionare | |
» | 65 | ripresi | riprendessi | |
» | 66 | male meritò il ferire di Pitone | male merite di ferire il Fitone | |
» | 67 | con la nuova sposa | con la nuova sposa e cosí per contrario tagli la vostra spada | |
» | » | seguirá | segnerá | |
» | 68 | veramente | giustamente | |
» | 69 | e che tu | E tu | |
» | » | mi sforzi | cosí mi sforzi | |
» | 71 | con isperanza | in isperanza | |
» | 72 | maggiore | maggiore il disio | |
» | 73 | adempirebbe | adempie | |
» | » | supplisco | supplico | |
» | » | ne le pareva | me ne pareva | |
» | 77 | ricerca | ricrea | |
» | 78 | dell’antica Cuma | dell’antiche Cume | |
» | » | vicina è l’isola Pitacusa | vicine l’isole Pittaguse | |
» | 81 | Poi | . Noi | |
» | 83 | ritogliendo | ricogliendo | |
» | 87 | venute | divenute | |
» | » | indusse | inducesse | |
» | 89 | la falce | la tua falce | |
» | 90 | recentissime | recettissitne | |
» | 92 | antiquata | antica | |
» | 93 | li direbbe | si direbbe | |
» | » | i cari | li chiari | |
» | 95 | escidio | assedio | |
» | 98 | poco amabile | poco ama | |
» | 99 | alla quale | al quale | |
» | 100 | né l’aguto spuntone né la tagliante spada cignevano | nell’aguto spuntone, né la tagliante spada cigneva | |
» | 104 | rasciutte | rasciugare | |
» | 105 | o tu bellezza | e tu bellezza | |
» | » | alle fonti | alle sue fonti | |
» | 106 | contenteranno | conterranno | |
» | 107 | sianti piú cari | siati piú caro | |
Cap. VI | » | 109 | alla qual dimanda | alla quale |
» | 110 | liti | lati | |
» | » | mi ricolsi acciocché di ciò niuno s’accorgesse | mi ricolsi |
» | 110 | la vita errante | la vita errante ne’ suoi luoghi | |
» | 111 | contrarie | contrario | |
» | » | affetto | affezione | |
» | 112 | infinite | infinte | |
» | 113 | di te verso di me | da te verso me | |
» | 116 | alle bugie | alle mie bugie | |
» | » | o arpie e lupi | o caspie rupi | |
» | 118 | svegliassi | svelassi | |
» | 125 | niuna forza | niuna cosa | |
» | 126 | malizia | milizia | |
» | 127 | chi in alcuna cosa | chi in niuna cosa | |
» | 128 | ti diede | ci diede | |
» | » | l’immobile ordine temere | il mobile ordine tenere | |
» | » | credute | credute da donna essere pensate | |
» | 131 | oltre al suo piacere | oltre al mio piacere | |
» | 133 | palpitando | palpando | |
» | 135 | aggiungerai | aggiungerá | |
» | 136 | togliendole | tenendole | |
» | 137 | fossero pietose | fossero state pietose | |
» | » | mi corsero | m’occorsero | |
» | 138 | scellerati | scedanti | |
» | » | i paurosi | a’ paurosi | |
» | » | confusa | confusa, e, per lo migliore | |
Cap. VII | » | 139 | fiorifero | florigero |
» | 142 | egli fosse si | egli fosse ora si | |
» | 143 | credendolo e non creden-dolo | credendolo | |
» | » | supremo | superno | |
» | » | da’ miei | per li miei | |
» | » | che vi puote | che piú vi puote | |
» | 144 | tornò | tirò | |
» | 145 | che questo | che che questo | |
» | 146 | dicevano solamente | che solamente | |
» | » | di che assai appare di noi | a che assai appare lui poco di noi | |
» | 148 | mi doveva | non doveva | |
» | » | aspettandolo | aspettando | |
» | 149 | sanitá | infermitá | |
Cap. VIII | » | 151 | opera in me | opera più verso me che l’usato |
» | » | alla morte | alla mia morte | |
» | 152 | Dico che | Dico adunque che | |
» | 153 | si conservasse | si convertisse | |
» | » | il dimostrò | il dimostra | |
» | 156 | descritte | in pene descritte | |
» | 158 | s’appigli | s’appicchi | |
» | 159 | e con piú sostenuta | e piú sostenente | |
» | » | continua | continuo | |
» | » | nel tristo seno | nel tristo senno | |
» | » | il male | in male | |
» | 161 | se non di Panfilo | se non Panfilo | |
» | 165 | le seconde febbri | le febbri | |
Cap. XI | » | 166 | Tale | Adunque tale |
» | 168 | da lungi | dalla lunga | |
» | » | e continua | in continua |
⁂
Le Chiose oltre che nei margini del codice Laurenziano XLII, 7, giá descritto, si trovano raggruppate insieme nelle carte 167-177 del codice Riccardiano 1126 (cartaceo, del sec. XV, miscellaneo). I due manoscritti hanno in comune errori e lacune, presentano il testo trascritto con le medesime deformazioni dialettali originariamente venete, ma contaminate con influenze meridionali, e coincidono nel dare la seguente avvertenza: «Per aver vera notizia di questo libro il quale non nomina onde fossero questi due amanti se non con latenti significazioni, è da sapere che madonna Fiammetta fu della cittá di Napoli dove essa si denomina in questo libro quando dice nella nostra Partenope, cioè Napoli, così denominata da una vergine che vi morio che ebbe nome Partenope; e Panfilo fu della cittá di Venezia, e questo dimostra il presente libro quando dice delle parti di Illiria però che Illiria è proprio quel paese ove è posta Venezia». Il compilatore veneto di questa avvertenza, per dare a Panfilo come patria Venezia, accomoda al suo scopo il testo dell’Elegia che non legge Illiria, ma Etruria.
I due manoscritti sono tuttavia indipendenti l’uno dall’altro perché alcune chiose che non si trovano nell’uno sono nell’altro, e viceversa. Per dare il testo critico delle Chiose non basta ricostituire il capostipite dei due manoscritti, ma bisogna eliminare tutte le deformazioni dialettali che erano giá nel capostipite: e questo è stato fatto tenendo presente il testo dell’Elegia del codice Laurenziano XLII, 7, che presenta le medesime deformazioni del testo delle Chiose.
A dimostrare l’autenticitá delle Chiose, basta il confronto di alcune di esse con altre corrispondenti dell’autografo del Teseida:
Elegia, 174: «Due sono gli usi di Venere, cioè Venere licita e Venere illicita. Venere licita è di stare il marito con la moglie e però dice santissima; illicita si è d’appetere il marito altra donna che la sua, e la donna altro uomo che il suo marito».
Teseida, 197:29 «La quale Venere è doppia, perciò che l’una si può e dee intendere per ciascuno onesto e licito disiderio, sì come è disiderare d’avere moglie per avere figliuoli, e simili a questo... La seconda Venere è quella per la quale ogni lascivia è disiderata».
Elegia, 176: «Febo s’innamorò della figlia d’Ameto re di Tessaglia, e volendo seguitare il suo amore si trasformò in forma d’uno pastore e posesi a guardare l’armento del detto Ameto...».
Teseida, 114: «Fu Febo innamorato d’una figliuola d’Ameto re di Tessaglia, la quale non potendo altrimenti avere, si trasformò in pastore e posesi col detto re, e stette con lui guardandogli il bestiame suo, in così fatta forma, sette anni».
Elegia, 176: «Giove ancora s’innamorò di Europa figliuola di re Agenore e sorella di Cadmo e di Fenice, con la quale non potendo avere a fare, stando la detta Europa in uno prato a cogliere fiori, lui si trasformò in giovenco e faccendo atti piacevoli ad essa li quali molto le piacquero; e per umiltá del detto giovenco li montò addosso da pie’, e lui subito la portò via e passò il mare e andò a Creti ed ebbe a fare con lei».
Teseida, 79: «Agenore, re di Fenicia, aveva una figliuola bellissima, la quale aveva nome Europa, la cui bellezza sappiendo Giove e piacendogli forte, si trasformò in forma d’uno bellissimo tauro, e andonne lá dove questa giovane era con altre compagne: e quivi si mostrò sì mansueto e sì bello, che a queste giovani e massimamente ad Europa piacque e venne volontá d’averlo, e accostoglisi, e vedendolo così mansueto lo prese per le corna, e dopo molto avere veduta la sua mansuetudine vi salì suso: il quale quando si senti adosso costei sì come egli disiderava, incontanente cominciò a correre verso il mare... ultimamente si mise in mare, e notando ne la portò in Creti, e quivi ebbe di lei piú figliuoli».
Elegia, 177: «Calisto fu una giovinetta d’Arcadia figliuola di Licaone e fu donzella di Diana dea delle selve e delle cacciagioni; della quale Giove s’innamorò e trasmutossi in forma di Diana ed ebbe a far con lei, e ’ngravidolla e nacque Arcas il quale fu pur cacciatore. E Giunone volendosi vendicare dello strupo che avea commesso con Giove la trasmutò in orsa, la quale, Arcas predetto suo figliuolo andando a cacciare, non credendo che la madre fosse orsa, la volle sagittare per ucciderla; ma Giove per ricompensa dell’amore ch’ella avea avuto per lui la trasmutò in cielo e anche lo detto Arcas: e però si chiama Orsa maggiore e Orsa minore».
Teseida, 202: «Fu questa Calisto una bellissima giovane d’Arcadia, la quale aveva botata a Diana la sua virginitá, e seguivala per li boschi cacciando; della quale Giove s’innamorò; e veggendola un giorno in uno bosco sola, si trasformò nella sembianza di Diana... di che ella ingravidò... E essa partorí uno figliuolo, il quale fu chiamato Arcas. La qual cosa Iuno conoscendo, discese in terra e trasmutolla in orsa. Poi essendo cresciuto questo Arcas, e andato un dì a cacciare, scontrò la madre, e non conoscendola la volle saettare; ma Giove avendo misericordia di lei, subitamente convertì Arcas in orsa, e trasportonne l’una e l’altra in cielo: e chiamatisi l’una Orsa maggiore e l’altra Orsa minore...».
Elegia, 177: «Marte, iddio delle battaglie, s’innamorò di Venere moglie di Vulcano fabbro di Giove, e avendo a far con essa, fu accusato da Febo al detto Vulcano. Onde il detto Vulcano volendosi vendicare del detto dio Marte, fece reti di ferro sottilissime che non si poteano vedere, e misele intorno al letto ove facevano il fatto, e quando Marte andò a fare il fatto con Venere, furono tutti e due presi dalle dette reti a modo d’uccelli. Onde il detto Vulcano avendoli così presi, per vituperarli bene, mentre stavano così presi nelle reti, chiamò tutti gli altri dii che venissero a vedere, e così ivi vennero».
Teseida, 187-88: «Scrivono i poeti che giaccendosi Marte con Venere, la quale egli amava sopra ogni altra cosa, il Sole se ne avvide e disselo a Vulcano, iddio del fuoco, il quale era marito di Venere. Per la qual cosa Vulcano, essendo ingegnosissimo fabro, acciò che egli vedesse se ciò era vero, fece una rete di ferro fortissima e fecela sì sottile che appena si discernea; poi la tese intorno al letto suo, in guisa che chiunque v’entrava rimaneva preso. Laonde avvenne che un giorno, non essendo egli a casa, Venere e Marte, sanza avvedersi della rete, se ne entraron ignudi nel letto, nel quale Vulcano tornando gli trovò, e mostrògli a tutti gl’iddíi, li quali vedendo ciò se ne risono».
Elegia, 180: «Erisitone fu di Tessaglia, grandissimo ispregiatore delli iddíi, il quale per ispregiare la detta Cerere tagliò una selva dove era una grandissima quercia consacrata ad essa. Per la qual cosa Cerere corrucciatasi contra di lui, gli mise una fame sì grande in corpo, che veruna cosa li bastava a saziarlo, e manicò se medesimo a poco a poco».
Teseida, 108-109: «Erisitone fu disprezatore delle forze degli iddíi, il quale per dispetto di Diana fece tagliare una quercia la quale era consecrata a Diana; di che Diana turbata, gli mise sì fatta fame adosso, che primieramente manicatosi ciò che egli aveva e non potendo torsi la fame... divenne magrissimo, e ultimamente morì di fame».
Elegia, 183: «Danao ebbe cinquanta figliuole femine, ed ebbe un fratello, il quale ebbe nome Egisto ch’ebbe cinquanta figliuoli maschi, li quali presero per loro spose le dette cinquanta loro consobrine; alle quali Danao comandò che ciascuna dovesse la prima notte ammazzare lo suo marito, e questo fe’ acciò che rimanesse senza erede per tutto lo reame [e lo reame] rimanesse a lui. E così fecero tutte eccetto una la quale ebbe nome Ipermestra che fu maritata col fratello minore ch’ebbe nome Lino, che non l’ammazzò. Si che di cinquanta ne campò uno solo etc. Il detto Danao fu figliuolo di Belo».
Teseida, 13-14: «Belo fu re in una parte di Grecia, e ebbe due figliuoli: l’uno ebbe nome Danao, il quale fu re dopo la morte del padre e ebbe cinquanta figliuole, l’altro ebbe nome Egisto e ebbe cinquanta figliuoli maschi; e di pari concordia diedono le cinquanta figliuole di Danao per mogli alli cinquanta figliuoli d’Egisto; e ordinò Danao, per tema lo quale aveva de’ figliuoli d’Egisto che non gli togliessero il regno, che ciascuna delle figliuole, la prima notte che co’ mariti giacessero, ciascuna uccidesse il suo, fuori che una etc. Ipermestra, Lino etc.».
Credo che non occorra continuare in altri raffronti. Chi vuole può ancora confrontare: Argo ( Elegia, 185; Teseida, 168); Ariete (Elegia, 194; Teseida, 89); Atamante ( Elegia, 195; Teseida, 143); Siila (Elegia, 198; Teseida, 165); Dedalo (Elegia, 199; Teseida, 132); Cloto, Lachesis, Atropos ( Elegia, 203; Teseida, 298); Fetone ( Elegia, 207; Teseida, 274); Piramo e Tisbe (Elegia, 209; Teseida, 204) etc.
È importante, per quanto sia un dato esterno, notare che nelle Chiose all’Elegia è conservata l’abitudine del Boccaccio nello stendere le Chiose per il Teseida, cioè di ripetere la chiosa quando nel testo ricorreva nuovamente la parola che aveva data occasione ad una prima chiosa, ma di farla molto piú breve (come fu detto dinanzi; etc.).
Il lato nuovo e interessante delle Chiose all’Elegia rispetto a quelle al Teseida, è la citazione della fonte. Si può dire che in queste Chiose c’è la testimonianza di quasi tutta la cultura latina del Boccaccio: Virgilio, Ovidio, Stazio, Lucano, Seneca, Cicerone, Livio, Giustino, Valerio Massimo. È citato anche Terenzio (pag. 194), ma è da escludere che il Boccaccio ne conoscesse direttamente le opere30. La frase «Sine Cerere et Bacho friget Venus», deriva da un passo di Cicerone, Nat. deor., 2, 60: «Itaque tum illud quod erat a deo natum nomine ipsius dei nuncupabant, ut cum fruges Cererem appellamus, vinum autem Liberum ex quo illud Terentii: Sine Cerere et Libero friget Venus».
Il testo delle citazioni latine, quale si trova nei due manoscritti, è diffusamente corrotto31: di qui la necessitá di ricostituirlo seguendo il testo di edizioni moderne delle opere latine a cui le citazioni appartengono. Ho lasciato soltanto un pavetque invece di timetque (pag. 199, Met., XIV, 62), e un robore invece di cortice (pag. 209, Met., X, 501). Più ampie giustificazioni di questo e di altri problemi che presenta il testo delle Chiose mi riprometto di darle in un prossimo articolo.
⁂
L’Elegia fu composta dal Boccaccio a Firenze, verso il 1343, dopo l’Amorosa Visione, prima del Ninfale Fiesolano32. Non è forse casuale la coincidenza delle Chiose in quest’opera e nel Teseida. Il Boccaccio le doveva ritenere fra le opere più nobili da lui scritte; e in veritá è palese la preoccupazione del genere letterario tanto per il poema quanto per l’Elegia. Nel Teseida, alla fine dell’opera, il Boccaccio dichiara apertamente la sua ambizione:
ma tu, o libro, primo a lor cantare |
nell’Elegia la dichiarazione manca, ma è sottintesa nel tono che domina in tutta l’opera. Per il titolo si sará ricordato dell’Elegia sive miseria di Arrigo da Settimello, e delle parole di Dante nel De vulgari eloquentia (II, iv, 6): «per elegiam stilum intellegimus miserorum»33, ma il genere letterario ne esce rinnovato per l’influsso delle Eroidi ovidiane. È difficile dire quale fosse la consapevolezza del Boccaccio sullo stile della sua opera. A leggere il congedo al picciolo libretto, ove ci sono le parole: «E se forse alcuna donna delle tue parole rozzamente composte si maraviglia, di’ che quelle ne mandi via, però che li parlari ornati richieggiono gli animi chiari e li tempi sereni e tranquilli», si direbbe che egli fosse persuaso d’avere adoperato l’humile vulgare, come diceva Dante. Ma la realtá è ben diversa: nessun’altra opera del Boccaccio ha uno stile così meditato, sorvegliato, nobilitato dal principio alla fine. Al nuovo genere letterario egli sottopone la materia della sua esperienza amorosa con Fiammetta, della quale ora può scrivere con animo distaccato e con intendimento d’arte34.
Firenze, Marzo 1939 - xvii.
Vincenzo Pernicone.
Note
- ↑ Questo è il titolo dato concordemente dalla tradizione manoscritta. Il titolo di Fiammetta apparve per la prima volta nell’edizione veneziana del 1491, e da allora fu ripetuto nelle edizioni successive.
- ↑ Cfr. F. Zambrini, Le opere volgari a stampa dei secoli XIII e XIV, IV edizione, Bologna, 1884.
- ↑ Di tutte e tre queste edizioni c’è un esemplare presso il fondo Palatino della Biblioteca Nazionale di Firenze.
- ↑ Un esemplare si trova presso la Marciana di Venezia (Rari, V. 701).
- ↑ Un esemplare si trova presso la Biblioteca Nazionale di Palermo (Rari, 411).
- ↑ In Firenze se ne trova un esemplare presso la Riccardiana, e un altro presso la Marucelliana.
- ↑ Un esemplare si trova presso la Biblioteca Universitaria di Padova (54, a, 98).
- ↑ Dell’edizione del 1524. un esemplare si trova presso la Biblioteca Nazionale di Napoli (XXI, E, 112); di quella del 1533, in Firenze, un esemplare presso la Nazionale (19. a. 7. 130), e un altro presso la Biblioteca della Facoltá di Lettere (fondo Bardi).
- ↑ Un esemplare si trova presso la Nazionale di Milano (25, 13, K, 8).
- ↑ Un altro passo che merita di essere segnalato è quello che nella nostra edizione, a pag. 110, si legge: «Per che quindi, come piú acconciamente potei, nella mia camera mi ricolsi». A messer Tizzone parve che qualche cosa mancasse, e aggiunse toltami dopo quindi, e infine completò coi) le parole: «acciò che di ciò niuno s’accorgesse».
- ↑ Cfr. G. Boccaccio, Teseida. Edizione critica per cura di S. Battaglia, «Autori classici e documenti di lingua pubblicati dalla R. Accademia della Crusca», Firenze, Sansoni, 1938, Introduzione, pag. xxxvii, ove si dá notizia di messer Tizzone, noto per La grammatica volgare trovata nelle opere di Francesco petrarca, di Giovan Boccaccio, di Cino da Pistoia, di Guitton da rezzo, pubblicata a Napoli, per Giovanni Sultzbach, nel 1538.
- ↑ Un esemplare si trova presso la Nazionale di Milano (SS, III, 31), e un altro nel fondo Nencini della Nazionale di Firenze.
- ↑ Dalla Giuntina infatti deriva il passo «i quali poi che alquanto hanno e la bellezza delle donne e le loro danze considerate, quelle commendando», che nella nostra edizione, a pag. 93, si legge: «li quali poi che alquanto hanno mirato e le bellezze delle donne e le loro danze». Le edizioni anteriori alla Giuntina concordano coi manoscritti nel mantenere il passo lacunoso, e cioè senza considerate, quelle commendando. Mirato della nostra edizione si trova in qualche codice, ma è congettura di copista (su questo passo si veda piú avanti).
- ↑ Un compromesso fra l’edizione Giuntina e quella di messer Tizzone fu tentato nel 1527 con l’edizione che porta il titolo: «Fiammetta | Amorosa | di M. Gio | vanni | Boc | catio | Nuovamente Ricorretta». L’opera è divisa in sette libri, ma preceduti dai sommari. Il testo segue prevalentemente la Giuntina e saltuariamente (nelle parti aggiunte e in molti passi apparentemente piú chiare) quella di messer Tizzone. L’edizione fu stampata a Venezia nel 1527 «per Francesco Bindoni e Mapheo Pasini». Un esemplare si trova presso il fondo Nencini della Nazionale di Firenze.
- ↑ Per la storia del testo non hanno nessuna importanza. Eccone l’elenco: Venezia, Giolito, 1545; 1546; 1551; 1558; 1562; Venezia, Cavalcalupo, 1564; Venezia, Giolito, 1565; Venezia, Angelieri, 1571; Venezia, Giolito, 1575; Venezia, Vidali, 1575; Venezia, Giolito, 1578; 1584; Venezia, Zoppino, 1584; Venezia, Giolito, 1585; Venezia, Bonfadio, 1586; Venezia, Giolito, 1586; 1589; Venezia, Farri, 1589. L’edizione Giolito 1558 si presenta con la novitá delle postille in margine (le postille non si trovano nell’edizione del 1545, ma sono incerto se erano giá nell’edizione del 1546 o in quella del 1551, perché non ho avuto possibilitá di vederle), consistenti in brevi cenni sugli argomenti trattati nelle varie pagine, e, qua e lá, anche in richiami culturali. Per esempio: «Tutte queste favole sono tocche da Ovidio nelle trasformazioni; Imita Virgilio nel quarto dell’Eneida; Queste parole sono poste dal Bembo negli Asolani; Il simile spiega il Petrarca in un sonetto leggiadramente; IL Boccaccio qui si dimostra non molto giudicioso; Di cui attende che ramante venga leggasi l’Ariosto; È forse il Boccaccio soverchio in raccontare tanti esempi; etc.». Nell’edizione 1558 non figura il nome dell’autore delle postille, ma è certo il Sansovino (cfr. De Sanctis, Storia della letteratura italiana), perché sue sono le postille del medesimo genere per YAmeto.
- ↑ Firenze, Giunti, 1596; Venezia, Bonfadio 1596; Venezia, Alberti, 1601; Venezia, Bisuccio, 1603; Paris, chez Abel l’Angelier, 1609 (traduzione col testo a fronte), Venezia, Perchacino, 1611; Venezia, 1620; Venezia, 1626; Firenze (Napoli), 1723-24 (Edizione delle opere del Boccaccio; furono pubblicati 6 volumi, nel terzo dei quali è La Fiammetta); Firenze, 1724; Parma, Amoretti, 1800 (Edizione dedicata a Sua Eccellenza D. Giuseppe Lopez de la Huerta, con una lettera di dedica in cui fra l’altro è detto che essendo divenuti rari i preziosi opuscoli del Boccaccio, si è creduto utile «multiplicare questi singolarissimi monumenti della toscana favella, rendendo un po’ piú familiare un cosí illustre maestro all’Italia, la quale in oggi ha corrotti i bei modi ingenui della sua lingua»); 1821.
- ↑ Leggo a pag. 91 del recentissimo volume dell’amico V. Branca, Linee di una storia detta critica al «Decameron» con Bibliografia boccaccesca completamente aggiornata, a proposito dell’edizione del Gigli: «È un’autorevole replica della Giuntina del 1517. con le varianti della Giuntina del 1524». Il Branca è caduto nell’equivoco provocato dalle confuse parole del Gigli nella Prefazione e che noi abbiamo riportato nella prima pagina della nostra Nota. L’edizione Giuntina del 1524 riproduce fedelmente quella del 1517, e quindi non è questione di varianti fra quelle due edizioni. Le varianti riportate dal Gigli, sono comuni a tutte e tre le Giuntine (1517; 1524; 1533).
- ↑ Cfr., per questo e per gli altri codici Laurenziani, A. M. Bandini, Catalogus codd. Biblioth, Medic. Laurent., Firenze, 1778, t. V.
- ↑ Cfr. S. Morpurgo, I codici Riccardiani descritti, Roma, 1883.
- ↑ Cfr. G. Mazzatinti, Inventari dei manoscritti delle Biblioteche d’Italia, voll. VIII, IX, Forlí, 1898; L. Gentile, I codici Palatini descritti, vol. I, Roma, 1889; A. Bartoli, I codici Pancialichiani descritti, vol. I
- ↑ A. Cfr. Sorbelli, Inventari etc., vol. LXII.
- ↑ Cfr. A. Sorbelli, op. cit., vol. XLII.
- ↑ Cfr. G. Salvo-Cozzo, I codici Capponiani della Biblioteca Vaticana descritti, Roma, 1897.
- ↑ Cfr. C. Stornajolo, Codices Urbinates Latini, T. II, Roma, 1912.
- ↑ Cfr. C. Stornajolo, op. cit., T. III, Roma, 1921. — Un altro codice dell’Elegia si trova presso la Biblioteca Nazionale di Parigi (Manoscritti Italiani, 987); Cfr. Mazzatinti, Inventario dei manoscritti italiani delle Biblioteche di Francia, 1886, vol. I, p. 174, e Marsand, I manoscritti italiani della R. Biblioteca Parigina descritti e illustrati, Parigi, 1835, vol. I, pag. 185.
- ↑ Mi preme giustificare qualche altro punto del testo: pag. 27: «...che lungamente non senza gravissimo...» (non è congetturale); pag. 34: «...la mia tristizia; all’altre...» (dopo tristizia, l’edizione Squarciafico, seguita dalla Giuntina e da quella di messer Tizzone, legge: nell’anima del suo amore giá cibata senza misura amando accesa; di questo passo non c’è traccia nei manoscritti ed è da ritenersi apocrifo); pag. 59: «...nella niente non essere per terra...» (non è congetturale); pag. 138: «...trattate dagli scedanti...» (la maggior parte dei manoscritti leggono scedali, ma qualcuno ha il segno dell’n, e l’ho accettato; scellerati è congettura di qualche codice, ma a me par certo che qui si tratti di scedanti, buffoni girovaghi); pag. 149: «Non so se infermitá o altro accidente...» (infermitá è congetturale; i codici leggono sanitá).
- ↑ Per la grafia seguo, in genere, i criteri adottati da S. Battaglia per il Filocolo in questa stessa collezione.
- ↑ Alcune delle nostre correzioni si trovano giá nel testo delle edizioni Fanfani, Gigli, e ne abbiamo giá detto il perché; ma l’elenco degli errori e degli arbitri che si trovano in tali edizioni e non in quella del Moutier, sarebbe di gran lunga molto piú nutrito.
- ↑ Edizione Battaglia, giá citata.
- ↑ Cfr. A. Hortis, Studi sulle opere latine del Boccaccio. Trieste, 1879, p. 392.
- ↑ La ricerca dei luoghi citati delle varie opere non è stata perciò molto facile. Per alcuni versi ho avuto il valido aiuto dell’amico W. Ferrari che ringrazio vivamente.
- ↑ L’Amorosa Visione è stata pubblicata in questa Collezione, insieme con le Rime e la Caccia di Diana, a cura di V. Branca; il Ninfale Fiesolano, insieme col Filostrato, a cura di V. Pernicone.
- ↑ È noto che nel medioevo elegia si faceva derivare da «eleyson» (cfr. il commento di A. Marigo al passo dantesco nella sua bella edizione del De vulgari eloquentia — opere di Dante, nuova edizione diretta da M. Barbi, vol. VI, Firenze, 1938-xvii —).
- ↑ L’Elegia merita uno studio approfondito che per ora manca. Fra le migliori pagine critiche si vedano quelle di N. Sapegno nel suo Trecento; per la parte stilistica, interessanti riferimenti si trovano nel volume di A. Schiaffini, Tradizione e Poesia, Genova, 1934; per la bibliografia aggiornata rimando al citato volume del Branca. Un saggio monografico sull’Elegia sta preparando per la sua tesi di laurea A. Roncaglia, allievo della Scuola Normale di Pisa.