Don Evèno
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DON EVÉNO
Albeggiava appena allorchè Fidele Coda di sorcio si mise a strigliare e lustrare il cavallo del dottore.
Nell’ampio cortile grigio il lastrico di granito era tutto umido di rugiada, e i calci che vi sferrava il cavallo destavano quell’eco speciale che hanno i rumori nelle albe molli e serene di primavera. La gran casa del dottore taceva, e i vetri chiusi, freddi, senza riflessi, parevano lastre di latta, ma al di là dei muri si sentiva la campagna verde ridestarsi perchè cento piccoli rumori giungevano col brivido puro dell’aria imbalsamata.
Fidele, con gli occhi gonfi e semichiusi, sbadigliava, tristemente. Era un giovinotto pallido, magro, dal sorriso cattivo e maligno; vestiva in costume, ma invece della lunga berretta sarda teneva in testa un gran cappellaccio cenerognolo, con un foro nel centro e le falde rosicchiate.
Con la striglia impugnata nella destra, Fidele accarezzava colla sinistra il cavallo sulla groppa nera e lucente, e gli favellava fra i denti, sempre sbadigliando. A momenti emetteva dei grugniti, rideva, fischiava e imprecava.
Era di cattivo umore, senza dubbio, e non sapendo con chi sfogarsi, in mancanza di meglio, cercava di esprimere i suoi pensieri amari al cavallo.
— Sta fermo — diceva districandogli la criniera con un pettine di ferro, e accarezzandolo sempre. — Sta fermo, che il diavolo ti pettini! Fuggirai, fuggirai tra poco, non aver paura, bello mio. Il dottore ha detto: — Che sia pulito bene alle quattro. E poi gli metterai la sella e la gualdrappa.
— Dove va don Evéno? Magari vada all’inferno e non ritorni più!
Fallo cadere, bello mio, e che si rompa la testa, fallo, senti bene!
Quasi per trasmettere al cavallo le sue idee pietose, Fidele lo guardò nei grandi occhi foschi, leggermente violacei, poi tornò a sbadigliare e riprese il filo dei suoi pensieri.
— Mi vorrei come questo cavallo: sta meglio di me, povero servo! Cosa hai sognato stanotte, Fidele Coda di sorcio?
Uh! Ch’ero diventato ricco, ricco come il padrone. Che bellezza! Aver le scale dipinte e sette paja di scarpe! E sposare Mikela, la nipote del padrone. No, quella non la voglio. È una sciocca. Meglio la figlia di Francesco Rovedda, che è grassa come un porcellino. Mikela è più bella, ma è troppo magra.
Lustrando le unghie del cavallo, Fidele continuò a sognare, scegliendosi una sposa fra le più belle ragazze del villaggio; e tornava sempre col pensiero a Grazia, la figlia di Francesco Rovedda, ch’era rossa come lo scarlatto e robusta come una quercia secolare. Gli sembrava vero vero. Ma ad un tratto i vetri di una finestra, che cominciavano ad esser meno opachi e freddi, tintinnarono e vennero aperti.
La testa di don Evéno comparve, e Fidele si ritrovò davanti alla sua dura realtà.
— Ancora in faccende sei? Sbrigati, Coda di sorcio — disse il dottore dalla finestra.
Fidele fece una specie d’inchino, ma fra sè esclamò:
— Coda di sorcio, Coda di sorcio! E lui che cosa è? Coda di gatto?
E rise fra sè, cercando la bella gualdrappa di velluto nero ricamata.
Sulla porta di cucina vide Mallena che macinava il caffè, colle cocche del fazzoletto rigettate sulla sommità del capo.
— Dammi la sella — le disse.
Ma la serva gli voltò le spalle, e dovette andare egli stesso a prender la sella, dal chiodo ov’era appiccata, facendo mille perfidi pensieri sul conto di Mallena e del padrone.
— Ohi, se vedessi Mikela, — desiderò, stringendo la cinghia della sella intorno al ventre del cavallo, che raccoglieva l’alito per gonfiarsi, — quante gliene direi! Mallena si trangugia una casseruola di caffè ogni mattina. Ma già, Mikela è una sciocca, non sa comandare, non sa dirigere. Già, già! Chi non ha visto mai ben di Dio...
Rise di nuovo, pensando alla storia di Mikela. Il fatto stava così.
Don Evéno, il medico condotto, aveva sposato una donna ricca e superba, che certamente non l’aveva reso molto felice, pur recandogli in dote un gran patrimonio e una splendida casa.
Meno male ch’era morta giovine, senza figli, e dopo aver fatto testamento in favore del marito.
Don Evéno contava allora quarantasei anni; era un gran dottore, un dotto, un personaggio illustre, e sapeva fare i fatti suoi. Perciò, un anno dopo la morte di sua moglie, si accorse che le sue donne di servizio rubavano a man salva nella sua casa. Occorreva una nuova padrona; don Evéno non poteva occuparsi delle miserie domestiche, ma sentiva che alla fine queste miserie l’avrebbero rovinato, in persona delle serve.
Riammogliarsi? Don Evéno non ci pensò neppure. Sentiva un gran disprezzo per le donne, un infinito e odioso disprezzo.
Un giorno in cui seppe dal suo servo Fidele che una domestica indossava con disinvoltura le sue camicie e le sue calze, e che aveva venduto una quantità di vino, versando altrettanta acqua nella botte, don Evéno salì a cavallo e mancò due giorni.
Tornò portando in groppa una bella fanciulla pallida e bianca, vestita in costume, che si chiamava Mikela, ed era figlia di una povera sorella del dottore, maritata in un altro villaggio.
Subito la servitù di don Evéno seppe tutta la storia di Mickela. Era innamorata del maestro di scuola del suo paese, un giovine bello, biondo e sentimentale, che l’aveva già chiesta in isposa. Il matrimonio si sarebbe fatto senza dubbio, ma l’arrivo di don Evéno distrusse ogni cosa. Mikela non voleva assolutamente sentir di partire.
— Sciocca! — le disse sua madre. — Ha ragione il savio dicendo che chi ha il pane non ha denti. Non vedi? Ecco, lo zio ha tre serve, e il suo palazzo è tutto dipinto.
— Lo so, ma...
— Può lasciare tutto a te...
— No, non ci vado, non ci vado! — pianse la fanciulla.
— Tu andrai, in fede mia. Se resti qui tanto mando al diavolo il tuo innamorato. Mentre se vai... può darsi che...
Il maestro era in vacanze. Mikela, con la speranza di sposarlo anche approfittando dei beni dello zio, partì.
Don Evéno avea ben parlato fuor dei denti, però.
— Io non voglio seccature — disse. — Se Mikela è disposta a far coscienziosamente la padrona di casa, senza grilli per la testa, va bene; altrimenti...
— Se ha grilli se li leverà — assicurò la madre.
Così Mikela mise in un cestino le sue camicie profumate di spigo e il suo corsetto di broccato, e partì con la morte nel cuore. Anzi, credeva di andar precisamente a morire, e quando si trovò nella gran casa signorile di don Evéno, dalle volte dipinte, dalle pareti coperte di stoffa e di quadri splendenti, dai pavimenti smaltati, si domandò piangendo:
— Ma è dunque questo lo star bene?
Nei primi giorni, passando su le lunghe e morbide corsie, ascoltava intensamente, e non udendo neppure il rumore dei suoi passi le sembrava di esser morta.
Così diventò più bianca, più sottile; il suo profilo pareva diafano, e intorno agli occhi le si stese un cerchio nero, che rendeva opaca la grande iride profonda.
Poi guarì improvvisamente. Corrispondeva in segreto col suo innamorato, e sperava. Lo sapeva o non lo sapeva don Evéno? Fidele credeva di no, perchè Fidele sapeva la storia sino a questo punto. Il resto lo sappiamo noi, e lo racconteremo subito.
✕
Certamente, zio e nipote erano due grandi egoisti. Si erano uniti pensando ciascuno al proprio tornaconto, senza alcuna idea di affetto o di altruismo.
Sulle prime, anzi, un astio tutto particolare regnò tra loro. Don Evéno disprezzava le donne, e sua nipote era nel gran numero fatale, e la teoria dell’eccezione non esisteva punto per il dottore. Mikela pensava al suo sogno distrutto per chi sa quanto tempo ancora, e nelle ore di tristezza provava per lo zio tutt’altro che affetto.
Così pensò, dopo aver ricevuto una lettera:
— Io farò il mio dovere; gli guarderò la casa e darò a lui ogni cura; ma devo perciò sacrificargli tutto il mio avvenire?
E rispose alla lettera.
Benchè Fidele dicesse che Mikela era una sciocca, l’esile fanciulla custodiva assai bene la casa dello zio.
Sotto l’epidermide pallida e trasparente di Mikela esistevano dei nervi d’acciaio; le sue manine delicate chiudevano a doppio giro le porte della casa, e i suoi grandi occhi oscuri vedevano ogni cosa.
Aveva vent’anni e rideva poco. Dava ordini precisi, ma in modo cortese e penetrante, e menava una vita chiusa, silenziosa e monotona.
Le vicine del dottore guardavano sempre alle finestre del palazzo, ma non vedevano mai la nuova padrona.
Dacchè era venuta lei i vetri splendevano di pulizia, le cortine, lavate, stavan sempre abbassate, e le serve non vociavano più. Che faceva Mikela, durante quelle lunghe giornate? Le vicine non riescivano ad immaginarselo, e guardavano sempre invano traverso i vetri nitidi e chiusi.
Ma Evéno restava meravigliato della prudenza e dei modi di Mikela.
Nelle ore in cui restava in casa, scrivendo la sua colossale opera scientifica e folklorica sulle medicine popolari sarde e le loro derivazioni, veniva invaso da un profondo senso di pace, sino allora sconosciutogli.
L’ordine più preciso regnava intorno: dalle larghe vetriate la luce d’autunno, così calma nella sua leggera tristezza, entrava pallida e dolce, e nessun rumore turbava il signorile silenzio della casa.
Chi aveva recato tant’ordine e tanto silenzio? Non certamente la morte di donna Maria.
Evéno pensava al passato procelloso come ad un cattivo sogno, e il placido presente lo immergeva in uno stupore voluttuoso, e provava la dolcezza del riposo in tutte le membra stanche.
Certo, non aveva più sogni per l’avvenire, e da lungo tempo anzi aveva cessato di sognare. Egli conservava tutti i denti e tutti i capelli, ma su questi apparivano già delle sottili striscie grigie, e così pure l’alta fronte si piegava, e gli angoli degli occhi profondissimi si restringevano come per stanchezza dolorosa. No, egli non sognava più; ma spesso il desiderio di cose ignote gli faceva interrompere l’arido e bizzarro lavoro. E appoggiava la fronte sulla mano e pensava ch’era giustizia di Dio s’egli poteva alfine morire in pace, nella sua casa silenziosa.
Sì, certo, avrebbe lasciato buona parte delle cose sue a Mikela, alla sottile nipotina, che portava tanto silenzio e tant’ordine nella sua vita squilibrata.
Così passò l’autunno.
Dopo i primi giorni, in cui don Evéno aveva parlato molto con Mikela consegnandole e facendole conoscere tutti i labirinti della casa, non era più corsa alcuna intimità fra loro. Egli stava quasi sempre fuori, viaggiava anche, mancando per settimane intere, e le ore che passava in casa si raccoglieva nel suo studio, e scriveva, oppure riceveva, e, non chiamava Mikela che per darle degli ordini.
Essa ascoltava a testa china, sfuggendo lo sguardo dello zio, e talvolta arrossiva vivamente. Non discuteva mai, non sorrideva, e se n’andava via com’era venuta, silenziosamente.
Don Evéno rientrava sempre tardi per il pranzo e per la cena; perciò faceva da solo i suoi pasti, e d’altronde Mikela non si sarebbe mai adattata a mangiare con lui. Perciò non esisteva tra loro alcuna intimità; neppure dopo l’inverno, quando cioè la fanciulla aveva preso assoluto possesso della casa. Don Evéno la guardava sempre con una specie di stupore.
Non udendone la voce e i passi, la sentiva più che vederla, e quando gli compariva davanti la squadrava da capo a piedi, quasi curiosamente e con diffidenza. Perciò ella arrossiva. Poi don Evéno pareva ricordarsi. Ah, sì, era lei, la nipote, dai piedini calzati con lusso e dal costume poetico.
Un giorno le disse:
— Ehi, Mikela, dovresti vestirti da signora.
— Sì, domani! — esclamò essa con vivacità. E rise. Era la prima volta che don Evéno la sentiva ridere.
La guardò con più stupore del solito.
Il costume semplice ed elegante le dava più grazia plastica di qualsiasi toeletta signorile. La camicia bianchissima faceva risaltare il sottile corsetto di velluto verdissimo, e il fazzoletto di lana gialla incorniciava assai bene la sua faccia delicata, di bruna pallida.
— Togliti almeno quel fazzolettaccio, — disse don Evéno.
Mikela se lo tolse, sorridendo. Don Evéno, che in apparenza pareva non accorgersi di certi particolari donneschi, notò che Mikela aveva i capelli arricciati, le orecchie piccine e la nuca bianchissima.
— Fammi il piacere di avvezzarti a star così — disse. — Stai meglio, e ti conserverai più sani i capelli.
— Ma ho freddo, — rispose lei, portandosi le mani alle orecchie, già coperte da un nuvolo di ricciolini.
— Sfidalo, o non sei capace di vincerlo?
Altro che il freddo si deve combattere, per star bene, cara mia...
Avrebbe voluto aggiungere, nella vita, ma non lo fece.
Questo fu, dopo sei mesi, il primo colloquio intimo fra zio e nipote.
Mikela rimase a testa nuda. Attraversando qualche volta le stanze, don Evéno la vedeva seduta sotto le grandi finestre chiuse, donde calava la tiepida luminosità dei primi giorni di marzo. Mikela lavorava, col cucito appuntato sul ginocchio, e i capelli increspati le descrivevano un’aureola trasparente, sfumata nella luce.
Don Evéno la vedeva traverso una porta aperta, oppure percorrendo la stanza sulle lunghe corsie, e pareva non badasse a lei, come lei non sollevava la testa dal lavoro.
Agli ultimi di marzo Mikela ebbe un po’ di febbre. Non voleva accusarsene, ma Evéno la riconobbe subito per sofferente e la curò affettuosamente. Ella disse:
— Sarà perchè mi ho tolto il fazzoletto.
E voleva rimetterselo.
— No, no, lascia stare, non è questo. Non voglio che te lo rimetta. È orribile. Fallo per me, non rimetterlo.
Era quasi supplichevole, tanto che Mikela, ferma nella sua idea di aver la febbre per la rotta abitudine, se lo rimise sì, ma appena sentiva rientrar lo zio se lo strappava rapidamente di testa e lo nascondeva.
Una sera però non poté levarselo. Don Evéno la trovò coricata sul divano della stanza da pranzo, con la febbre fortissima. Imbruniva, e dalla finestra, sempre chiusa, scendeva un cerchio di luce morente e melanconica.
— Mikela? — chiamò don Evéno. — Mikela, stai molto male?
E siccome essa non rispose, pensò con terrore, involontariamente, al vuoto che la fanciulla, morendo, avrebbe lasciato nella casa.
— Mikela, come stai? — Si chinò e le prese il polso. Benchè aggravata da un peso insuperabile e da visioni strane, Mikela si accorse che don Evéno le toglieva il fazzoletto.
— Zio... Evéno... non ho potuto... — mormorò. Forse accennava al fazzoletto.
— Cosa non hai potuto? — domandò egli con dolcezza.
Ma subito Mikela vide una processione, e dei cavalli che correvano dietro, pronti a calpestare le donne delle ultime file, e si spaventò.
— Date attenzione... sciocchi... Perchè? Non vedete la gente... San Mauro mio!... — gridò con angoscia.
— Sta male! — pensò don Evéno. Si sedette su uno sgabello di noce, vicino al divano, e posò la sua mano sulla fronte scottante di Mikela, guardando ai vetri leggermente rossi nell’ultimo crepuscolo. Poi suonò perché portassero il lume.
Per una settimana Mikela restò a letto, e il dottore dimenticò gli altri suoi ammalati, — che curava più per abitudine e per carità che per altro, — finchè la ragazzina, come egli la chiamava, non guarì bene.
Per darle più attenzione durante la convalescenza, la volle a tavola con sè, e cominciò a prodigarle mille piccole cure; di cui ella si spaventava.
La malattia l’aveva resa espansiva e affettuosa; non voleva che zio Evéno si disturbasse nulla nulla per lei, e le sue premure l’imbarazzavano. Una sera egli, guardandola fissamente, le chiese:
— Vorresti andare a casa tua?
Essa pensò un poco, e poi disse:
— Sì, avrei desiderio di vedere mamma.
— E non altri?
— E Elena. — Era la sorellina.
— E non altri?
— E chi?.. — domandò, esitando ed arrossendo. Don Evéno vide il suo turbamento, e corrugò la fronte. Disse, freddo:
— Fino a due mesi fa so che vi siete corrisposti. Che pensi ora!
— Io? Nulla... — balbettò Mikela, chinando gli occhi e la testa.
Don Evéno vide le lunghe palpebre della fanciulla sbattere rapidamente e si accorse ch’ella aveva volontà di piangere. Era angoscia, o dispetto, o turbamento, per saper scoperta la sua relazione segreta?
Ad ogni modo, don Evéno prese una grande risoluzione. Disse:
— Fra pochi giorni io devo andare al tuo villaggio, e parlerò seriamente con tua madre. Se tu sei contenta, e se anch’essa non si oppone, si farà in breve ogni cosa. Allora tu potrai ritornare laggiù, e rivedrai tutti....
Uscì, dopo aver detto con evidente amarezza queste ultime parole, lasciando Mikela sbalordita.
Quando fu sola si gettò sul divano, e affondando la faccia sul cuscino si mise a piangere, singhiozzando.
Perché zio Evéno operava così? La scacciava dunque? Che aveva ella detto o fatto per meritarsi tanta punizione?
Per tutta la sera non seppe far nulla, e a cena il suo malumore crebbe a dismisura perchè don Evéno le annunziò che sarebbe partito l’indomani.
— Se hai qualche cosa da dire a tua madre....
— Nulla, tanti saluti! — rispose freddamente.
Egli la guardò fisso, e si ritirò presto, dopo aver comandato al servo Fidele di sellargli il cavallo al primo albeggiare.
Mikela, quella mattina, fu la prima a scendere, tuttavia non accudì, come sempre, a portare il caffè nella stanza da pranzo. Zio Evéno scese subito dopo di lei, e uscì nella corte.
— Fidele, — disse, — oggi tu sai dove andare.
— Sissignore.
Tuttavia, non fidandosi della memoria del servo, ripetè i suoi ordini a Mikela.
— Lo manderai subito al monte, oggi e domani; due carri di legna, lo sai.
Mikela lo sapeva benissimo, perchè in quei giorni Fidele trasportava appunto dai boschi del monte la provvista della legna.
— Quando ritornerete? — domandò timidamente, appoggiata allo stipite della porta.
— Dopo domani. Di’ a Mallena che faccia presto... — rispose egli con impazienza, mettendosi lo sprone.
Mikela si mosse, poi tornò al suo posto e disse:
— Verrà presto: non prendete dunque il caffè?
— Portalo dunque quì.
E seguitò a stringere lo sprone, coi denti stretti, nervoso e impaziente. Mentre Mallena usciva con la piccola bisaccia a fiorami, dove aveva collocato qualche cosa, don Evéno, servito dalla nipote, prese il caffè nella frescura del cortile.
Fidele legò la bisaccia alla sella, e bestemmiò sottovoce contro Mallena, poi attese con la staffa in mano, borbottando.
Ma don Evéno gli disse:
— Fammi il santissimo piacere di levarmiti dai piedi!
Fidele sorrise e spalancò il portone, mentre il dottore montava sveltissimo in sella. Mikela uscì correndo e guardò lo zio; aveva una pazza voglia di gridargli una cosa, ma non potè dir altro che:
— Tanti saluti e buon viaggio!...
Don Evéno non rispose, e chinandosi sulla sella per passare sotto l’arco di granito del portone, impallidì mortalmente.
— Dio l’accompagni! — disse Fidele.
— Il diavolo permetta che vi rompiate l’osso del collo — pensò, chiudendo con fracasso il portone.
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— Vieni con me — gli disse Mikela.
— Dove, signorina?
— Vieni qui, con me, — ripetè essa. Egli la seguì, pensando che mai ella voleva dirgli. Traversarono la cucina, e poi salirono le scale, ancora un poco oscure. Fidele era salito sopra altre due o tre volte, e ogni volta aveva guardato con meraviglia la bella casa del padrone.
Le scale erano di marmo, e la luce pioveva dalle lunghe volte dipinte; un gran silenzio aristocratico regnava nella grigia penombra, e Fidele aveva paura di mettere i suoi grossi piedi sulle stuoje dei pianerottoli.
Mikela l’introdusse nella stanza da pranzo, e chiuse la porta di legno rosso lavorato.
— Cosa vuole? — domandò Fidele, entrando, pieno di meraviglia.
Mikela lo guardò bene in volto.
— Tu sai, oltre lo stradale c’è la strada vecchia che conduce al mio villaggio? — chiese rapidamente.
— Sissignora, — disse lui, guardandola anch’egli con fissazione. Vide che aveva una guancia pallida e una rossa, e pensò che doveva essersi coricata dal lato della guancia rossa.
— Tu, — esclamò Mikela, con vivacità, appoggiando forte le mani alla tavola quasi per dar più energia alle sue parole, — tu ci sei andato mai?
— Uh! tante volte!
— Se tu ci vai oggi, e arrivi in modo che zio non ti veda, e ritorni oggi stesso, vedrai cosa saprò fare per te!
— Cosa farà per me? — pensò Fidele, e si decise subito ad andare, ma disse a voce alta:
— E le legna chi le porta?
— Non t’importi nulla di ciò. Dimmi se vuoi andare o no.
Egli pensò alquanto.
— E le serve? — domandò.
— Non t’importi anche di ciò. Se vai, sellati subito la cavalla e corri.
— Dove andrò?
— Ma giurami che non dirai nulla a zio, al suo ritorno.
— Ih, sarebbe bella! — gridò Fidele facendo scoccare le dita. — Sarebbe gettarmi la corda al collo io stesso.
— Lo credo bene, ma... giura.
— Che non riveda mia madre!.. — esclamò egli, agitando le mani.
Allora Mikela parve rassicurata.
— Tu andrai in casa mia e consegnerai una lettera a mia madre.
Ma bisogna che arrivi prima di zio.
Non ti fermerai in alcun posto, e soprattutto filerai dritto davanti alla cantoniera.
— Sicurissimo.
— Cosa diavolo c’è? — pensò Fidele, mentre Mikela gli consegnava la lettera. E fece i soliti pensieri maligni.
— Io mi fido di te, Fidele — disse la ragazza sorridendo. — Non invano devi chiamarti così. Presto, presto va. È una cosa importantissima. È un piacere che non dimenticherò mai. Vedrai, vedrai...
Subito Fidele sellò la cavalla. Era commosso per la fiducia che Mikela gli accordava, e partendo era deciso di far tutto a dovere.
— Non avvicinarti alla cantoniera — gli ripeté Mikela. — Se t’incontri con zio, guai!
— Stia tranquilla; non mi avvicinerò!
Partì al galoppo. Allora entrambe le guancie di Mikela tornarono pallide, e un brivido le corse per tutta la persona.
Mandò le serve a lavare, e si rinchiuse in casa, decisa di non accendere il fuoco per quel giorno.
Si sedette nel cortile, trapuntando i polsi di una camicia, e il suo pensiero prese due direzioni, due vie diverse. Seguiva il passo tranquillo del cavallo di don Evéno, e il galoppo sfrenato della cavalla di Fidele. A momenti le pareva però che i due s’incontrassero, e allora un brivido di freddo angoscioso tornava a invaderla dai piedi alla testa. Così passò tutta la giornata, in una calma perfetta, che in fondo era un’angoscia suprema.
✕
Fidele tornò verso sera, tanto presto che Mikela si spaventò.
— È accaduto nulla? — domandò col volto più bianco del solito.
— Nulla! — esclamò il servo levando la sella alla cavalla. Nell’ombra Mikela non s’accorse che Fidele aveva gli occhi un po’ smarriti.
— Sono andato... sono andato... e ho consegnato la lettera...
— Sono tutti sani in casa? —
— Uh! Credo benissimo! Sua madre voleva farmi restare per mangiare, ma io son ripartito subito... si figuri!
— Hai fame dunque?
— Poco.
Saputi molti altri particolari, Mikela si rassicurò. E, timidamente, diede a Fidele un biglietto da dieci lire.
— Io? — disse il servo. — Io non voglio nulla! Dio me ne guardi!
Ma dopo qualche insistenza da parte della fanciulla, prese il denaro con disinvoltura, e non protestò quando ella disse: — Se hai bisogno di me, qualche volta, non stare in soggezione!
Eppure il fatto stava in questi termini. Avvicinandosi alla cantoniera Fidele aveva sentito una voglia prepotente di bere.
— Vado? Non vado? Il padrone è passato o non è passato? C’è o non c’è?
Con questi quesiti in mente attraversò il bosco. Alla vista dello stradale fu per indietreggiare, ma la sua mala indole gli diceva:
— Va e bevi, sciocco! Il padrone non c’è; è già passato. Va e bevi, e poi corri, corri... Così trovossi sulla porta della cantoniera. Le donne, ivi residenti, vendevano galline, vino e frutta ai viandanti, e Fidele voleva bere mezzo litro di vino, seduto in sella, e comprarsi un pane, perchè quella mattina non aveva punto fatto colazione.
— Comare, comare! — cominciò a gridare chinandosi sulla porta. — Comare Maria, che il diavolo vi baci, uscite fuori!...
— Cosa sento? — esclamò un signore, uscendo come un fulmine dalla porta laterale della cantoniera.
Fidele si fé bianco come un cencio.
Don Evéno gli stava davanti.
— Cosa è questo? — gridò. — Perchè sei qui, Fidele? Chi ti ha ordinato?....
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Fu così che Fidele gli consegnò la lettera di Mikela.
— Sta benissimo! — disse don Evéno, con voce stridente. — Tu non dirai di avermi incontrato. E guai a te se osi pigliar un centesimo da Mikela!
— Sarebbe bella! — esclamò Fidele. Ma poi trovò bellissimo il biglietto da dieci lire di Mikela, e bellissima la speranza di averne altri, all’occasione. Pensò:
— Dal momento che devo dire d’essere andato!
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Don Evéno tornò due giorni dopo.
Mikela aspettava con ansia il suo ritorno, ma non osò chiedergli nulla, nè egli, per tutta la giornata, le disse nulla. Solo, sul tardi, la chiamò nella stanza da pranzo. Come la sera in cui l’aveva trovata sul divano, imbruniva. Ma la finestra era spalancata, e tutto l’incanto del cielo vespertino, sul cui oro pallido pareva si fossero sciolte delle rose porpuree, inondava le pareti, la stoffa del divano, e le corsie di panno giallo ricamate.
Mikela entrò silenziosamente. Quando si voltò per chiudere la porta rossa, don Evéno balzò in piedi, con una mossa strana, ma rapidamente si ricompose. Mikela si mise davanti; fra lui e la gran luce radiosa della finestra. Così il suo viso pallido restò nell’ombra, ma i suoi capelli, attortigliati signorilmente sulla nuca, splendettero intorno alla sua testina vezzosa. E il suo corsetto verde riflettè l’oro roseo del cielo come l’acqua di uno stagno.
— Mikela, — disse don Evéno, — Tu sai perchè sono andato a casa tua. Abbiamo combinato ogni cosa. Tua madre è contentissima. Ma capirai che bisogna aspettar quì finchè sposerete.....
— Dio mio... — gemè Mikela, — cosa vuol dir ciò? Come mia madre può esser contenta?
Ma don Evéno non le badò, e continuava:
— Io farò tutto il possibile per contentarti. Tu mi dirai ciò che devo fare. Mi dispiace assai che tu mi lasci, ma io ho capito subito, fin dal primo giorno, che bisognava rimediare le cose in modo soddisfacente per tutti. Tu non potevi sacrificarti, ed anzi hai fatto troppo; ma io non dimenticherò...
— Voi avete fatto e disfatto, — disse Mikela con angoscia. — Vi ho forse detto mai qualche cosa io?
Lasciò cader le braccia con l’abbandono della disperazione, e non udì più nulla di ciò che Evéno le diceva.
Pensava a questo grande mistero. Ella aveva scritto alla madre facendole sapere che non pensava più, da vari mesi, al suo vecchio amore. E la pregava vivamente di non acconsentire al progetto di matrimonio che recava don Evéno. Scriveva:
«Per quanto avete caro nella vita, vi prego, cara mamma, dite di no. Ma non fate vedere che son io a consigliarvi; perciò vi scrivo in segreto. Io voglio restar quì fino alla morte, e, a meno che zio non mi mandi via, io resterò sempre presso di lui!»
E invece la madre acconsentiva!
Perché? Come? Come, Dio mio?
Tutto il sangue le saliva alla testa, eppure il suo volto impallidiva sempre più, e il fremito gelato dell’altro giorno tornava a serrarle la gola.
E don Evéno proseguiva, ma lei non riesciva a intenderne le parole. A un tratto un’orribile idea venne a scuoterla. «Zio Evéno voleva mandarla via, e lo faceva in questo modo pulito.»
— Uccidetemi meglio! — pensò. Due grosse lagrime le rigarono le guancie, e tutto il suo volto si scompose.
Solo allora don Evéno ne ebbe pietà e terminò la sua orribile commedia.
— Mikela, Mikela mia, — disse, prendendole una mano, — perché piangi?
Essa singhiozzò più forte, e sotto lo sguardo di lui, che si faceva vivo e ardente, provò un’acuta angoscia ch’era una intensa voluttà. Gli nascose il viso sul petto, e per due o tre minuti i suoi singhiozzi si fecero più forti, come singulti di bambina, scuotendola tutta quanta.
Egli si pentì di averla così addolorata, di non aversela presa tra le braccia fin dalla mattina, dicendole che l’adorava, che l’aveva chiesta in isposa a sua sorella, dopo la lettera datagli da Fidele, ma nello stesso tempo gustò intensamente il piacere di vedersi tanto amato, amato così, fino allo spasimo della disperazione......
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— Perdonami, — le disse quando furono seduti sul divano, accarezzandole i capelli. — Ma tu pure mi hai fatto tanto soffrire! Tu devi aver sentito che volevo allontanarti da me per non morire d’angoscia, e non mi hai detto nulla, nulla, nulla.
— Non ho potuto... non ho compreso... Come volevi che io sentissi il tuo amore, se tu non sentivi il mio... Evéno?..
Era la prima volta che pronunziava il suo nome solo, dandogli del tu. Egli ne rabbrividì per il piacere.
— Ma ora... ora ci comprendiamo?.. — domandò sorridendo. Ella chinò la sua testina sulla sua spalla, ed egli, nell’oscurità vellutata che saliva per il cielo lontano, credè veder spuntare una luminosa aurora.
Era il suo giorno, che spuntava, alfine!