Delle feste e dei Giuochi dei Genovesi/Capitolo secondo

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Capitolo primo Delle feste e dei Giuochi dei Genovesi
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DELLE FESTE E DEI GIUOCHI DEI GENOVESI


Dissertazione Prima.




Capitolo Secondo.



I Dogi a vita e i Dogi biennali. Lo vesti del Doge. L’accettazione. I privilegi di Carlo V. Il Doge assume titolo ed insegne di Re. Le feste dell’Incoronazione, ed i presenti di Casa D’Oria per la solennità del Banchetto. Il Senato vuol moderarne le spese eccessive, e raramente vi riesce. I trionfi. Come i Dogi uscissero di ufficio. Onori funebri ai Dogi morti in dignità, nelle Cattedrali di Genova e di Madrid. Esequie celebrate, a titolo di reciprocanza, ai monarchi di Spagna.

La proclamazione del governo dogale a vita, e lo avvenimento di Simone Boccanegra al potere (1339) furono il portato di una gravissima commozione di popolo1; e frutto di tumulti, e di scosse più o meno violente, furono del pari l’elezione di Giovanni di Murta (1345), nonché il ritorno del Boccanegra (1350), e quasi dissi la rapida successione degli altri tutti che nella Repubblica [p. 192 modifica]tennero il seggio supremo fino agli esordi del secolo XVI. Onde potrebbe affermarsi come la serie ducale di quel primo periodo stringa in sè stessa e rappresenti la somma dello vicende in mezzo a cui si agitò allora il paese, consumando nelle ingloriose lotte di parte quelle risorse che l’aveano reso già così grande e potente. Ed invero noi ci abbattiamo a leggere di tali, per cui l’appellativo di Dogi a vita riuscir doveva di amarissimo scherno; conciossiachè, levati un dì al potere, appena è se in quello perseverarono in fino a sera, e d’altri potremmo ripetere che furono tre volte nella polve, tre volte sugli altar.

Già nell’atto medesimo che reca la proclamazione del Boccanegra si erano bandite alcune provvidenze intese così a regolare la nomina del Doge, come a dar norme circa l’autorità e gli onori onde sarebbero stati investiti gli eletti; ma le leggi del 1413 furono quelle che prime introdussero circa tale proposito una sequela di accomodati ordinamenti. Statuivano perciò, fra le altre cose, che al Doge e alla Dogaressa fosse interdetto accettare qualsiasi donativo, se pure non si trattasse di fiere o di uccelli, di latte, di giuncate, di frutti, di vini; e fra quest’ultimi specificavasi il malvasia, limitandosene la quantità ad un’olla e non più. Niuno ardisse poi chiamare il Doge dandogli titolo di Signore (Segnor); bensì lo dimandasse messere il Doge (messer lo Duxe), sotto pena di cinque in cinquanta soldi; conceduta però venia agli stranieri per ignoranza della legge, ed al volgo per semplicità. Infine, nelle pubbliche cerimonie, dovesse il Doge preceder solo ogni altra magistratura2.

La statua a giacere del Boccanegra suddetto, che è l’unico avanzo del mausoleo innalzatogli nella chiesa di San Francesco di Castelletto3, ci mostra qual fosse il [p. 193 modifica]primitivo costume dogale; e questo possiam credere serbassero anche i Dogi posteriori sino alle riforme del 1528, non avendo intorno a ciò documenti in contrario. Ora siffatto costume, il quale molto ritrae di quello degli antichi Dogi e nobili veneti4, si compone della toga munita di cappuccio, di un manto affibbiato da cordoni sul petto, e di un berretto liscio foggiato a guisa di nutria; ha inoltre piuttosto bassi i calzari, e le mani inguantate.

Ma le anzidette riforme, le quali stabilirono per la Repubblica quel nuovo assetto fondamentale, mercè cui si governò dipoi fino al tramonto (1797), aveano sostituito ai Dogi perpetui i Dogi biennali; e intorno a questi allora e poscia si promulgarono alcune disposizioni, o prammatiche, delle quali sarà opportuno lo stringere in questo luogo la somma.

Avesse il Doge l’età di quarant’anni almeno5, fosse di legittimi natali, abitatore della metropoli, e scevro dall’esercizio di professione a nobili interdetta; versato nelle pubbliche faccende, a guarentigia di savio governo, dotato di largo censo, a rappresentare degnamente la Repubblica e se medesimo6. Portasse calzari di velluto o di seta, neri o di colore; berretto egualmente di velluto, foggiato alla dottorale, e del continuo vestisse toga di velluto o raso nero, cum manicis ad instar campanai redolentibus maiestatem ducalem7. La quale prescrizione di già sancita nelle summentovate leggi del 1528, si rinnova con altra del 3 gennaio 1533, conciossiachè experientia comprobatum est Duces in [p. 194 modifica]praeteritum induisse vestibus non togatis ad instar alienigenarum nationum8.

Un decreto emanato dalla Signoria il 7 gennaio 1531 determinava pure la cerimonia dello insediamento, o, come dicevasi, della accettazione del Doge. Questa dovesse compiersi nel pomeriggio, e dentro lo spazio di otto dì a far capo da quello dell’elezione; il popolo ne fosse avvertito dalla campana pubblica; e per mezzo di bando si facesse comandamento agli artigiani di chiudere le loro officine per festeggiare il rimanente della giornata9.

La Signoria, preceduta da’ trombettieri e seguita dai magistrati, si recasse alla casa ovvero alla loggia dell’Albergo cui spettava l’eletto; e questi movesse poscia, col codazzo de’ parenti e degli amici, verso la Cattedrale, per visitarvi l’altar maggiore e la cappella di San Giovanni Battista. S’incamminasse quindi al Palazzo Dogale, e fossero a riceverlo in sulla soglia i membri del Maggior Consiglio, scortandolo tosto alla grand’aula, ove gli astanti dovrebbero salutarlo con fargli di berretto. Sedesse nel luogo digniore, ed avesse a destra il Priore de’ Governatori, il quale, tenendo fra mani lo scettro di argento, pronuncierebbe un breve sermone.

Salisse quindi alla tribuna l’oratore, al quale incombeva trattare argomenti relativi alla gloria o libertà della Repubblica; e dopo la conclone si leggesse da uno dei cancellieri la formola del giuramento che presterebbe il nuovo Doge a inani del Priore anzidetto; e solo dopo il giuramento si rizzassero tutti in piedi, e con titolo di [p. 195 modifica]Doge pigliassero a salutarlo. Il Priore stesso gii rimettesse allora lo scettro; la campana della torre e quelle di tutte ( le chiese sonassero a distesa; i musici dessero fiato alle trombe, e lo sparo delle artiglierie fosse nunzio della compita cerimonia a vicini e lontani. Frattanto il Principe verrebbe dal primitivo corteggio accompagnato alle camere di sua residenza.

Il dì seguente all’altare del Precursore in Duomo si cantasse la messa dello Spirito Santo, con intervento del Doge; e vi si pronunciasse del pari un sermone, de quo... prius per aliquot dies ante a fiat noticia praedicatori ut circa eum studeat et invigilet. Infine, per tre altri giorni consecutivi, si facessero pubbliche processioni, e solennemente si celebrassero gli uffizi divini nelle chiese dei borghi e dei sobborghi10.

Ma alquanto appresso nuove cerimonie e prammatiche si aggiunsero ancora alle teste descritte. Perchè, avendo la Repubblica riportato da Carlo l’un amplissimo privilegio, in cui il Doge si comparava nelle insegne e nel grado a tutti i Duchi d’Italia e del Romano Impero11, la Signoria stabiliva (27 dicembre 1538) che al pileo ducale s’imponesse un aureo cerchio, e innanzi al Doge si recasse la spada. Soggiugneva però che di queste maggiori pompe non si avesse da risentire l’erario, potendo quelle insegne venir portate da uno de’ camerieri dogali, oppure dal mastro di casa, decentemente vestiti12.

[p. 196 modifica] Il primo Doge che nello entrare in dignità fu per tal guisa onorato è Andrea di Baldassarre Giustiniani, eletto il 4 gennaio 153913; ed appunto sotto quest’anno si ha memoria d’alquanti pagamenti fatti ad Agostino Groppo e Pellegro da Zoagli, per avere l’uno eseguito il circolo d’oro, l’altro l’impugnatura ed il fodero della spada14.

Ma accanto alla maestà delle pompe esteriori si collocavano lecci che doveano rendere ben dura la [p. 197 modifica]condizione del vivere ducale; per lo che il Doge in progresso di tempo fu definito: Rex in purpura, senaior in Curia, captivus in urbe. Gli era fatto rigoroso divieto di corrispondere co’ principi e loro ministri, e con altra qualsiasi persona, ove le lettere non fossero scritte dal cancelliere, munite del pubblico sigillo, e formulate di pieno accordo col Senato15. Gli era proibito del pari di ricevere o pigliar contezza d’alcun messaggio indirizzato alla Repubblica, se questo non fosse aperto in Senato o ne’ Collegi, ovvero al cospetto degli Eccellentissimi di Palazzo, e riconosciuto da’ segretari16. Uscisse poi il Doge soltanto ne’ giorni stabiliti dalla Prammatica per le solenni comparse, in occasione di sacre o civili festività; in tutto il resto del biennio sostenesse una specie di prigionia. E dove pure una qualche necessità di famiglia o di salute lo costringesse altre volte ad uscire, gliene concedessero prima la facoltà i Collegi con ispeciale decreto17. Infine anche la manifestazione degli affetti privati era al Doge [p. 198 modifica]interdetta dinanzi alla maestà della Repubblica; sicchè in niuna contingenza gli era permesso di vestire il corretto18.

Ma quanto più lo Stato venia scapitando della originaria grandezza e della sua potenza, tralignava altrettanto la prisca severità de’ costumi, lasciando che subentrassero le pretese spavalde e l’albagìa delle usanze spagnuole. E poichè allora in tutta Italia i principi e signori faceano a gara nello assumere titoli nuovi e nello introdurre pomposi cerimoniali, la Repubblica anch’essa piegò di corto all’andazzo. Onde spedì a Vienna Giorgio D’Oria per ottenere dall’Imperatore che il Doge assumesse titolo di Serenissimo, od a lor volta Serenissima la Repubblica si ossa, e Serenissimi il Senato ed i Collegi si nominassero. Il che essendole conceduto nel 1580 da Rodolfo II, fe’ decreto che l’implorato privilegio sortisse effetto senza indugio di sorta; per modo che Nicolò D’Oria, il quale di già era entrato nel second’anno della dignità ducale, venne tosto con quel titolo salutato19. Allora eziandio dallo stemma del nostro glorioso Comune sparirono gli angioli che l’aveano per tanto tempo fiancheggiato e sorretto, quasi aperta manifestazione del favore del cielo; e pigliarono il loro posto i due griffoni che tuttodì lo sostengono.

L’ultimo passo in questa via d’ambiziosi disegni fu però dato l’anno 1637, in cui, per le deliberazioni altrove già menzionate20, il Doge assunse regie insegne, e si nomò Re di Corsica, a significazione del dominio della [p. 199 modifica]Repubblica sovra quest’isola, alla quale venne por conseguenza attribuito l’appellativo di Regno. Ma il Doge s’intitolò pur anco Re di Cipro e dì Gerusalemme: crescendo con ciò il novero di que’ Principi cristiani, i quali, serbando pur viva la memoria d’antichi diritti e d’illustri possedimenti, mancavano di tutti i mozzi necessarii a vendicarli nel dominio della loro corona.

Fu inoltre decretato (20 dicembre 1637) che il Doge vestisse porpora, e nelle solennità di San Giorgio (24 aprile) e dell’Unione (12 settembre) si ornasse di regio manto e cingesse corona regale, visitando così la Metropolitana come la chiesa, intitolata al santo cavaliere. E finalmente anche all’antica residenza ducale si diede nome di Regio Palazzo21.

Agostino Lomellino fu primo a cingere del regal sorto la fronte; e venne solennemente incoronato (29 e 30 dicembre) nella chiesa di santa Caterina de’ monaci cassinensi per mano di quell’Abate22, non avendo la cerimonia potuto compiersi in Duomo a cagione delle gare di precedenza allora insorte fierissime fra il Doge medesimo ed il cardinale arcivescovo Stefano Durazzo23.


[p. 200 modifica]Il Doge, appena eletto, indossava gli abiti distintivi dell’alto ufficio; ed inchinato da’ magistrati, sedeva accanto al trono, il cui seggio, che lungo l’interregno era volto colle spallo al pubblico, venia ripristinato nella sua normale collocazione. Recavasi quindi alle proprie stanze, e cogli omaggi del clero vi riceveva i complimenti delle dame. La sera gran veglia e visita officiale de/Collegi, con isfarzo d’ogni maniera delicatezze e rinfreschi; che quegli che più largo spendeva e più veniva magnificato24.

L’eletto medesimo proponeva quindi il tempo in cui gli piaceva di compiere alla cerimonia dell’incoronazione; poscia un decreto de’ Collegi determinavalo in modo officiale. Ma in progresso fu introdotta l’usanza di ritardarla anche di qualche mese, allo scopo di renderla sempre più splendida , e d’avere maggior campo all’opera de’ ricchi presenti che doveano decorarla. Fra i quali teneano il primo luogo certe macchine, o trionfi (che appunto con quest’ultimo nome venivano appellate), assai bene architettate, e composte di marmi, di bronzi, di porcellane, di maioliche, con rappresentazioni allusive in ispecie alle virtù del Principe, cui erano offerte in segno di animo esultante da parenti ed amici. Adoperavansi inoltre in queste macchine gli artisti più eletti; e le loro composizioni adornavansi con gusto veramente squisito di ghirlande, festoni e mazzi di fiori e d’erbe artificiali sopra modo vaghi e finissimi [p. 201 modifica]prestati dalle alunne del Conservatorio de’ Fieschi; le quali colla schietta imi i azione del vero aveano allora felicemente superate le industrie francesi. Perlocchè a buon diritto scriveva il Lalande: il tempo più propizio per veder Genova quello essere senza fallo in cui seguiva la incoronazione del Doge. Allora vi si godeano le feste più brillanti, vi si mirava il più magnifico lusso, e tra le altre cose lo sfoggio de ’fiori d’artifizio «i più belli che sieno in tutto il mondo»25.

Il dì stabilito adunavasi nell’anticamera del Serenissimo tutto il Senato; il quale, preceduto dal Generale dell’armi e dalla ufficialità, si recava nella sala del trono tutta [p. 202 modifica]parata di damaschi e tappeti bellissimi; e dove in due appositi palchi raccoglievansi il fiore delle gentildonne ed i musici della Reale Cappella, che salutavano l’ingresso dei Serenissimi con festose melodie26. Quivi deponeano [p. 203 modifica]le insegne ducali; e tosto ritornavano alle camere del nuovo Principe, il quale allora soltanto moveva in lor compagnia per andarne alla Metropolitana. Ai cancelli del Palazzo gli alabardieri deponeano le armi; che armati non si doveano in quello istante trovar per le piazze. A mezzo il tempio lo incontrava il clero, avendo a capo l’Arcivescovo in abiti pontificali, che gli porgeva a baciare la croce gemmata de’ Zaccaria, ed offerivagli l’acqua benedetta. Giunti ai piè dell’altare nel presbiterio, il Coro intuonava inni di lode; poi l’Arcivescovo stesso pronunciava un sermone, e concludeva benedicendo l’eletto.

Ridottosi nuovamente a Palazzo il corteggio, gli alabardieri ripigliavano le armi; e le artiglierie co’ sacri bronzi [p. 204 modifica]annunciavano l’ingresso del Doge nel salone, dove in onore di lui si cantavano alcune accomodate composizioni27. Sedeva egli quindi in luogo eminente; e sedevano appresso per ordine tutti gli astanti, salutandolo poscia con fargli di berretto, senza però levarsi in piedi, che lo vietava un’antica Prammatica28; e per ultimo un [p. 205 modifica]segretario bandiva: ascendat orator. Il quale vestito di toga dottorale, recitava una orazione in cui si magnificavano le gesta dogli avi, e s’amplificavano le virtù pubbliche e private del Principe29.

Terminata poi l’orazione, il Doge veniva condotto al trono; ed allora gli si faceano indossare gli abiti regali, e della regia corona gli si cingeva la fronte30. Delle altre insegne riteneva lo scettro, portogli dal Priore; la spada consegnava all’ensifero che riceveala genuflesso a’ suoi piedi; e per quel dì avea termine la solennità. Il nuovo Doge partendo quindi dalla sala appoggiavasi al braccio del Maestro di cerimonie; i cancellieri ne sosteneano i lembi del manto31.

Il dì appresso interveniva, unitamente a’ Collegi, alla messa pontificale in san Lorenzo; dove un’altra orazione tenea pur dietro agli uffizi divini. Succedeva il banchetto; ed al popolo venia conceduto d’ammirarne la sontuosità e l’eleganza, prima che gl’invitati vi convenissero. Il Doge sedeva sotto un padiglione, ed era servito in coppe d’oro; a destra avea le dame ch’erano andate in [p. 206 modifica]quell'anno a marito; a sinistra i senatori per ordine d’anzianità32.

Or qui siami conceduta una intramessa, per notare come a siffatte allegrezze ed alle sontuosità del banchetto ducale, si piacessero di contribuire costantemente i Principi D’Oria con ricchi doni di caccia e numerosi capi di selvaggina. Di che ho notizie dalla squisita liberalità del ch. sig. comm. Antonio Merli, segretario meritissimo dell’Accademia Ligustica di belle arti, il quale va con rara assiduità ricercando l’Archivio di quello illustre casato, con animo di raccoglierne quanto gli possa giovare nella descrizione del superbo Palazzo di Fassolo.

Appena il decreto de’ Collegi avea stabilito il giorno della incoronazione, il Principe D’Oria ne rendeva partecipi i Commissari de’ feudi di Torriglia, Garbagna, Ottone, Santo Stefano, Gremiasco e Loano, ingiungendo loro di provvedere con ogni diligenza affinchè fosse fatta in quelle dipendenze una gran caccia da quanti erano atti a quello esercizio, ed inoltre si incettasse ne’ paesi circonvicini quel maggior numero si potesse di pernici e selvaggine senza limite alcuno di prezzo. Doveano quindi tener modo i Commissari che tutta la caccia per tal guisa adunata si trovasse alle porte della citta il dì stesso della incoronazione, quando si aprivano allo spuntare dell’alba; donde recata al Palazzo di Fassolo, venia quivi bellamente ornata e disposta. Acconciavansi i volatili in bacili d’argento (dodici per ciascun bacile), e le selvaggine, che per lo più solevano essere lepri, si sospendeano ad aste, numerandosene otto per ciascheduna; il tutto guernito con fiori e nastri ed altrettali galanterie. Quando poi vi era il cinghiale, che si facea portare dalle Maremme Toscane, si accomodava sopra una lettiga riccamente ornata, accosciato tra fiori e frasche sì da parer vivo.

[p. 207 modifica]Le livree di casa D’Oria, scortate dagli staffieri in gran gala, conducevano poscia il ricco presente al Palazzo ducale; e quivi il Maggiordomo del Principe ne facea la consegna.

Il dì successivo al banchetto spettava però al Doge di ricambiare il dono; e sì lo faceva, inviando al Principe un trionfo di dolci, con ornamenti di fiori e di frutti. Notano le carte doriesche, che quello mandato da Alerame Pallavicino ad Andrea IV, il 14 gennaio del 1790 conteneva fra le altre cose otto spalliere volanti di fiori alte due palmi circa cadauna, quattro delle quali al primo piano e quattro al secondo colle loro cimase; ma soggiungono ch’era meno ricco di fiori e meno bello di quello precedentemente avuto da parte di Raffaele De Franchi (il 26 novembre 1787 a ore 3 1/4); benchè anche questo sia pur censurato a sua volta, a motivo dei pochi fiori33.

[p. 208 modifica]Quanto allo cacce sopra dette, ingiunte anche per mezzo di gride dai Commissari, si vuol soggiungere che non sempre gli abitatori de’ feudi vi si prestavano di buon animo, quantunque rimunerati; anzi trovavano in ogni occasione e adducevano diversi motivi a fornire il meno che fosse possibile, or lamentando la mancanza di cani, [p. 209 modifica]or la cattiva condizione delle armi, or la stagione impropizia, ed altre sì futili circostanze da equivalere ad un aperto rifiuto. Per lo che nel 1748, a punire alcuni ricalcitranti di Ottone, disponeva quel Commissario che fossero sostenuti in carcere; ed il Principe lodava poi l’adottata misura, considerando come la poca attenzione che quei terrazzani prestavano alle gride ed agli avvisi de’ caporali meritava pure la mortificazione d’alquanti giorni di prigionia34.

Le funzioni della incoronazione e del banchetto non andavano però sempre immuni da inconvenienti; nel numero de’ quali sono per fermo da porre le spese che presto raggiunsero cifre esorbitanti; comecchè ciascun Doge venisse spinto dal desiderio di mostrarsi ad ogni patto più largo dell’antecessore, e dalla speranza di togliere a’ venturi ogni mezzo per emularlo. Onde l’entrar nel novero delle dogali valse a più famiglie una considerevole diminuzione di censo.

Altri inconvenienti eziandio scaturivano dalla gelosia e dai modi sospettosi, che sempre serbavano i due poteri, civile ed ecclesiastico, nel compiere alla cerimonia. Onde un biglietto di calice del 10 dicembre 1665 lamenta che «alla messa dell’incoronazione del Serenissimo Duce (Cesare Durazzo), il Vescovo (cioè l’arcivescovo Gio. Battista Spinola) disse orationi pro rege nostro, frase insolita che è stata d’amiratione a tutta la cittadinanza, come anche qualche punti che toccò il padre Taverna [p. 210 modifica]nella sua Oratione, la quale poi si è saputo non essere stata riconosciuta dalli Eccellentissimi di Palazzo conforme il solito: il che è bene andar continuando, acciò non si faccino lecito li oratori di dire quello che più le piace, essendo questo il stile di tutte le Corti che avanti il Principe non si dica mai cosa che prima non sia stata essaminata; e perciò sarà bene che prohibischino non si metta alle stampe l’Oratione del Padre Taverna, come anche quella del Rivarola, che non siano prima riconosciute non solamente dalli Eccellentissimi di Palazzo35, ma anche da’ Signori Inquisitori di Stato. E perchè si doverà fare presto dal magnifico Oratio Della Torre l’oratione funebre per l’esequie del Re di Spagna36, avvertano che non si dia nel medesimo inconveniente»37.

Un altro biglietto della stessa data censurava aspramente i difetti medesimi, e diceva: «Nella coronatione di Sua Serenità, che è stata di tanta consolatone a tutti, son state osservate due cose. Il Vescovo ha chiamato il Duce Re più d’una volta, e questo non si può soffrire: l’oratore ha parlato di carceri e di sindicati; non si ricordano i morti a tavola. Questo è stato un terzo sindacato al Duce38, o un rimprovero alla Repubblica. Non si permetta che si stampi nell’Oratione»39.

[p. 211 modifica]Or queste e somiglianti considerazioni e proposte, poichè furono ventilate in Senato, uscì decreto (11 dicembre), per cui veniva «rinnovato l’ordine di non far orationi in occasioni di funtioni publiche, che prima non siano reviste dagli Eccellentissimi di Palazzo....; e volendosi dar alle stampe non possa farsi, solo (se non) di permissione dell’Illustri Inquisitori di Stato»40. E del pari determinava (6 luglio 1674), che nelle preghiere per la messa dell’incoronazione, dovesse la parola Dux costantemente sostituirsi a quella di Rex41.

Quanto poi al moderare le spese della coronazione medesima, il Senato fu più volte concorde nel raccomandare agli eletti la parsimonia, col mezzo di certi decreti fatti in tempo di sede vacante, i quali si dicevano insinuativi, ed erano (come suona la parola) piuttosto consigli che comandi. Alcuni ricordi su tale argomento si trovano scritti del pari alla spicciolata da alcuni fra’ senatori; ed a recarne un esempio, ecco ciò che il 16 agosto 1683 venia riflettendo Agostino Franzone42: «L’incoronatione del Duce Serenissimo starebbe bene levata, perchè invece di (crescere?) decoro, lo diminuisce; o almeno moderarla, come, per esempio, farla il medesimo giorno.... dell’elettione». Ben più radicali economie proponeva però a sua volta Cristoforo Centurione; il quale «mette in consideratione (che) le sei mille lire, che si danno al Serenissimo Duce per la livrea, si potrebbero avanzare, e farla fare dall’Eccellentissima Camera, e che durasse sino che fosse bona»43.

Se gli allegati riflessi non sortirono intero l’effetto, il quale a dirla schietta avrebbe condotto all’eccesso contrario ed era perciò degno di essere egualmente sfuggito, [p. 212 modifica]non mancarono tuttavia di recare buon frutto, quel tanto cioè che poteva essere nei desiderii d’ogni animo discreto. Il che io asserisco, leggendo nei Cerimoniali come il 18 agosto del predetto anno 1683 fosse nominato Doge Francesco Maria Imperiale-Lercari «con applauso universale di tutti, per la esquisitezza in ogni genere del getto, che di virtù e valore non ha pari», e come il dì stesso venisse quindi assunto al trono e coronato. «Non fu nemmeno in sala per detta fontione fatta Oratione, perchè non si trovò chi si arisicasse per la brevità del tempo. La mattina seguente si continovò la fontione, con andare in San Lorenzo alla messa cantata.... Orò il P. Massimiliano Deza della Madre di Dio44, celebrò monsignore Arcivescovo; e fornita messa si ritornò a Palazzo, donde il Serenissimo haveva fatto preparare un bellissimo banchetto, e furono molti li convitati»45.

Racconta Vittorio Alfieri come essendo nel giugno del 1767 capitato a Genova senza conoscervi altri che il suo banchiere, fu da questi presentato ad un compitissimo cavaliere qual era il signor Carlo Negroni, «che avea passato gran parte della sua vita in Parigi, e che vedendomi cotanto invogliato d’andarvi (così egli prosegue), me ne disse quel vero e schietto, al quale non prestai fede se non se alcuni mesi dopo, tosto che vi fui arrivato. Frattanto quel garbato signore mi introdusse in parecchie case delle primarie; e all’occasione del famoso banchetto che si suol dare dal Doge nuovo46, egli mi servì d’introduttore e compagno. E là fui quasi sul punto d’innamorarmi d’una gentil signora, la quale mi si mostrava bastantemente benigna. Ma per altra parte, smaniando io di correre il mondo e di abbandonar l’Italia, [p. 213 modifica]amore non potè per quella volta afferrarmi, ma me la serbò per non molto dopo»47.

Il Banchero ha un documento da cui risulta come le spese per la solennità dell’incoronazione di Giambattista Cambiaso (9 febbraio 1772) rilevassero alla cospicua somma di oltre a 483mila lire48. E nei Cerimoniali si noia che in tale circostanza la chiosa di San Lorenzo «era Tutta in luminosa comparsa, cioè.... tutta apparata, con due palchi vicini al Sancta Sanctorum di numerossima orchestra; e ciò a spese della casa del suddetto Doge49.

Ma l’esempio di tanta magnificenza avrebbe anche potuto riuscire pernicioso; onde, allorché si trattò di dare un successore al Cambiaso, non mancò il Senato di far precedere un nuovo decreto, nel quale, per tagliar corto a’ preparamenti, si veniva insinuando che l’incoronazione ed il convito si celebrassero a norma delle antiche usanze, entro lo spazio di otto giorni da quello della elezione50. L’Acinelli ricorda poi, che Pier Francesco Grimaldi tenne fede al decreto, e l’ebbe con precisura e puntualità rispettato: nelle quali parole mal sapresti indovinare se si ccfntenga un elogio, o si asconda piuttosto uno di que’ sarcasmi . onde quel sacerdote entusiasta del popolo facea segno non infrequente la nobiltà51. Però, non appena il Grimaldi uscì d’ufficio, [p. 214 modifica]ecco che Brizio Giustiniano richiama in vigore le intramesso pompo, e festeggia la propria incoronazione 24 giugno 1775), imbandendo «il superbo banchetto con trionfi»52.

Nel 1780 (30 luglio) era poi eletto Aderame Pallavicino già mentovato, che, al dire di un suo contemporaneo, fu «personaggio di somma equità, e di non comune magnificenza; onde era proverbiale nel popolo, dal quale era ammirato per lo sfarzo specialmente della vilgiatura, e pei superbi conviti che, durante la medesima egli e i fratelli suoi solevano imbandire»53. Rimessa dal Maggior Consiglio allo stesso Pallavicino la scelta del tempo in cui gli sarebbe piaciuto d’essere incoronato, siffattamente però che quel giorno non si dovesse protrarre oltre il gennaio venturo; egli fissò appunto il decimo di quel mese per la cerimonia, e nel banchetto onde volle solennizzarla il dì appresso «si mostrò a niuno secondo»54. Inoltre gli vennero offerti ben diciannove trionfi, per materia e per arte svariati, come quei che si componevano di bronzi, di porcellane, di marmi, e rappresentavano l’Amore che incoronava la Fedeltà, l’Affetto alla Patria, la Maestà Regale, la Liguria, ec.55.

Ma la magnificenza e la splendidezza erano tradizionali in ispecie nei Cambiaso. I quali pareva che se ne fossero fatti una legge, e volessero con queste armi sfolgoraregli emuli e gli avversarli, supplendo col largo spi ndere alle modeste origini del casato, ed alla recente loro ascrizione fra’ nobili cittadini56.

[p. 215 modifica]Siffatte cose io penso, leggendo corno il banchetto di Michelangelo Cambiaso57 fosse numeroso di oltre quattrocento invitati, e rallegrato da musicali concerti non che da una illuminazione sopra modo vaghissima di tutto l’appartamento ducale, che pur allora era stato addobbato con la più ricercata sontuosità58.

Ciò che per altro rese più specialmente pregevoli e degne di ricordo le feste di questa incoronazione, al pari di quella di Giuseppe Maria D’Oria, che è a dire l’immediato successore del Cambiaso59, fu al certo la mirabil copia e la ricchezza de’ trionfi, ne’ quali insieme al Boselli, coll’officina delle maioliche savonesi d’antica celebrità, ebbero mano artefici di sperimentato valore, e giovani d’ingegno ben promettente: il Tagliafichi, il Fontana, il Ravaschio, il Traverso.

Ma poiché questi trionfi, vennero pur di recente descritti da una elegantissima penna cui tanto deggiono le memorie artistiche del nostro paese, io non vorrò cimentarmi all’impresa; basterà l’accennarli in breve, notando come sedici fossero i presentati al Cambiaso, dodici gli offerti al D’Oria. Erano tra i primi la Liguria in atto d’incoronare il merito, con due bassirilievi allusivi alla grand’opera dell’ampia strada cui la gente dei Cambiaso avea spianata da Genova agli Apennini; la Grecia, che mostrando a Giano le virtù di Temistocle, d’Aristide e di Pericle, pareva augurare al governo del nuovo Principe la triplice gloria della potenza, delle leggi, dell’arti; il Tempio della Virtù; Alcide al bivio; l’Immortalità vincitrice del Tempo, la felicità pubblica; l’amor patrio; Apollo e Marsia, la Colonna Traiana, con la Fama che dal sommo di quella spiccava il volo. Tra’ secondi si distingueano, la Neutralità che in que’ dì [p. 216 modifica]già angustiosi e bui mantenevasi ancor; dalla Repubblica vacillante, e i traffici e le gentili discipline che una fallace speranza mostrava dalla neutralità medesima assicurati; le gesta di Oberto D’Oria contro Pisa, quelle di Lamba contro i Veneti a Scurzola. Succedeano altre allegorie; e fra esse più statue modellate di cera, allusive alla pompa della coronazione ed insieme alle virtù del coronato; un tempio di greco stile ed il santuario dell’ agricoltura, ad encomio del Principe che assai piacevasi de’ pacifici studi; finalmente una imagine di certa grotta delicatissima, cui il D’Oria medesimo avea fatta costrurre in una sua villa di San Pier d’Arena con l’opera del gentile architetto Andrea Tagliafichi60.

Esposte in ogni particolare le cerimonie con le quali i Dogi vennero solennizzando progressivamente la loro assunzione, ci restano da accennare brevemente quelle mercè cui, finito il biennio, soleano rassegnare l’alta magistratura, o, come dicevasi, uscire di dogato (dusàgo).

Ascoltata la messa nella Reale Cappella, recavasi il Doge nella sala del trono, dove ritto in piedi e colle spalle volte al medesimo, pronunciava al cospetto dei Collegi un breve discorso di commiato. Replicava in nome de’ Serenissimi il Priore de’ Governatori, od altri in sua vece; dopo di che, preceduto da’ servitori ed accompagnato da’ Collegi medesimi, discendea fino ai cancelli del pubblico Palazzo. Quivi giunti, il Decano lo congedava dicendo: «V. S. Illustrissima vada in buon ora».

La campana della torre annunziava intanto al popolo la partenza dell’ex-Doge, cui scortavano, sino al limitare della sua privala dimora, un corpo di guardie tedesche, e faceano per l’ultima volta orrevole corteggio i Procuratori della Repubblica, uno de’ cancellieri, l’ensifero ed il maestro di cerimonie. Quest’ultimo poi rientrando [p. 217 modifica]nell’aula Ducale voltava la sedia del trono, a significazione del cominciato interregno61.

Venendo per ultimo a dire dei Dogi morti in dignità, noteremo che la serie cronologica ne registra soli cinque fra’ perpetui, otto e non più tra’ biennali62. Ma indizio certo della singolare mitezza d’animo de’ Genovesi sarà sempre il considerare, che se nello accanimento e nelle lotte delle fazioni ben molti si videro balzati di seggio, due solamente perirono di veleno e di ferro, e questi eziandio per istigazione o volontà di stranieri. Difatti Pier Malocello, che nel convito di Sturla propinò la morte a Simone Boccanegra (1368), si ritiene che fosse emissario del Re di Cipro; e Paolo da Novi lasciò la testa sul palco (1507) per le feroci vendette di Luigi XII.

Agostino Giustiniani ricorda che ai Dogi soleano rendersi quegli onori medesimi onde veniano fatti segno i gran maestri degli Ordini militari. Giorgio Stella rammenta i solenni funerali che popolo e clero celebrarono a Giovanni di Murta (1350), e notato come fosse orrevolmente sepolto, e pianto da tutti, soggiunge: Merito riempe; nam in quamplurium fama jugi prudentiae et zelo Patrlae totus deditus bonitati et rectitudini sic adhaesit, ut propria linqueret pro Republica. Pauperes profecto, ut justus rector, de tanta dominii plenitudine seos haeredes reliquit63.


[p. 218 modifica]Lo stesso cronista, nonchè il precitato Giustiniani, riferiscono poi Le splendide esequie di Leonardo Montaldo (1384); le quali «furono molto onorate, e, fra le altre cose . dalla presenza di cento notai genovesi ch’erano attorno il corpo, con grosse facole in mano accese»64.

Inoltre nel 1448, essendo morto Giano Fregoso, la Signoria deputava quattro cittadini perchè nel funerale di lui dovessero spendere quantum iudicaverint dignitati Reipublicae, defuncti ac vivorum memoria convenire; e decretava che, del pari a pubbliche spese, gli fosse eretto il monumento, impiegandovi la somma di mille lire.

Del resto anche alle Dogaresse, si usarono somiglianti onoranze; perchè il Comune deliberava si erogassero lire cinquecento nelle pompe funerarie di Violantina Montarlo, che fu moglie a Giano sunnominato, e quasi di un anno il precede nella tomba65.

Più tardi, quando cioè la Spagna ebbe acquistato sulla nostra Repubblica quel predominio che sì lungamente pesò quindi in ogni sua risoluzione, un apposito trattato dispose che ad ogni morte di re o regina di quella vasta e doviziosa monarchia, se ne dovessero celebrare le esequie nella Cattedrale di Genova; lo stesso, a titolo di reciprocità, avverrebbe poscia in Madrid per ogni Doge morto in ufficio. L’Acinelli dice che siffatto trattato si strinse, o confermò, nel 169966; ma vuolsi invece a questa data riferire semplicemente una conferma, giacche a tutti i monarchi spagnuoli, da Carlo V in poi, si fecero sempre nel nostro Duomo splendidissimi funerali67. [p. 219 modifica]De’ varii funerali ai Dogi abbiamo distinte memorie nei già ricordati volumi dei Cerimoniali; ma basterà rilevarne quanto si riferisce a quelli di Francesco Maria Sauli, conciossiachè il dire patitamente d’ognuno ci condurrebbe a ripetere le medesimo cose.

Adunque il 19 maggio 1699 «alle hore dieci, subito che dal Maestro di Cerimonie si ebbe l’avviso del suo transito, si fecero suonare tutte le campane della città.... A cagione della corpulenza e della stagione calda, si fece imbalsamare il corpo del defunto. Indi si espose in sala de’ Tedeschi, che porta ne’ salotti dell’Audienza. Fu apparata la stanza tutta di baiette nere, con strato in terra simile. Era il corpo esposto sovra un piccolo catafalco coperto di tele d’oro e nere, vestito del robbone rosso e berretto ducale, con collare, le mani distese in bell’atto con guanti. Sovra dei quattro canti v’erano quattro torchieri d’argento con sue torchio; a capo un grande Crocifisso d’argento con due candelieri a lumi pure d’argento a’ lati due paggi con ventarole con armi della

[p. 220 modifica]Repubblica e Saoli dall’altra parte, e questi stavano in atto di cacciarli le mosche. Sui quattro cauti stavano quattro alabardieri vestiti a bruno di baietta; otto assistevano alla porta puro vestiti similmente. Quattro sacerdoti claostrali assistettero sempre giorno e notte al corpo del defunto allato destro, con sedie, dandosi fra di loro la muta, ivi pregando e salmeggiando per la pace della sua anima. Così stette esposto tre giorni, ne’ quali furono celebrate mille messe in cappella, e fatte celebrare nei conventi per suffragio della medesima. La sera del venerdì fu condotto il cadavere privatamente in San Lorenzo68, et esposto sovra del catafalco. Era apparata la chiesa tutta di nero; il coro tutto di velluto nero con trine doro; simile era il baldacchino sopra l’altare. Il baldacchino però del Duce era di broccato, quello di monsignore Arcivescovo pavonazzo. Si portò il Maestro delle Cerimonie ad avvisare monsignor Arcivescovo della funzione, e si esibì pronto ad intervenirvi per onorare la memoria del defunto Duce, ch’era esposto sopra il catafalco alto da terra palmi 55, largo palmi 28 in quadro, con tre ordini di torchie, in tutto al numero di 168. Sovra del primo ordine, ne’ quattro canti, erano quattro vasi grandi con cipressi; al secondo v’erano solamente quattro colonne, e framezzo festoni con armi della Repubblica e Saoli; e nei quattro canti del terz’ordine vi erano le statue. Era riposto il cadavere sovra d’un broccato strato, che faceva bellissima mostra, elevato col capo verso l’altare, vestito col robbone rosso e berretta ducale; sopra del corpo in alto pendeva la corona ducale ad oro. Due paggi, vestiti a lutto con le [p. 221 modifica]banderuole gli stavano accanto. E se gli cantò la messa solenne; nel qual mentre si celebrarono quantità di messe basse. Vi era la musica; infine s’udì il panegirico del P. Turri gesuita. Dopo se gli celebrarono l’esequie con intervento de’ Serenissimi Collegi. Il Decano andò, come è solito quando non interviene il Duce, senza alcun segno delle insegne ducali; che tanto fu ordinato in voce dai Serenissimi Collegi al Maestro delle Cerimonie. Finita la cerimonia si chiusero le porte della Chiesa. Fu riposto il cadavere in San Giovanni il Vecchio, che poi di notte fu condotto privativamente in San Giacomo di Carignano69».






Note

  1. Questa elezione ebbe luogo il 23 settembre nel Palazzo di Governo detto dell’Abbate; il quale Palazzo, chiamato altrimenti di Serravalle e poi Criminale, e quello stesso dove oggi sono gli Archivi di Stato. L’elezione in discorso fu inoltre confermata il dì seguente in pleno et generali parlamento hominum civitatis Janue... congregatorum in platea sancti Laurentii... in quo parlamento fuit maxima et innumerosa quantitas civium Janue et suburbiorum... quod ipsius denumeratio quodammodo erat impossibilis et dificilis valde.... Qui quidem dominus Simon... incontinenti... in loco predicto, in scalinis ecclesie, acceptans regimen et officium supradictum sibi concessum per dictum parlamentum gratanter et benigne, iuravit et sacramentum prestitit in manibus Oberti Mazurri notarii et cancellarii Comunis Janue, corporaliter tactis sacrosanctis evangeliis et scripturis, de dicto ducali offitio et regimine bene et legaliter esercendo et faciendo (V. Regulae Comperarum Capituli; cod. membr. sec. xiv, dell’Archivio di San Giorgio, car. 314).
  2. Leges anni 1413, mss. Ved. i capitoli 12, 17, 18, 28.
  3. Questa chiesa fu demolita ne’ principii del secolo volgente. La statua vedesi in capo allo scalone della R. Università; ed è riprodotta dal Banchero, Genova e le due Riviere, tav. xlvxi.
  4. Ved. Mutinelli, Del costume veneziano ec., p. 86, tav. ix.
  5. Così determinavano le leggi del 1528, in conformità delle precedenti del 1443; ma quelle del 1576 (cap. 25) la portarono a 50.
  6. Leggi del 1576, cap. cit.
  7. Genuensis Reipublicae Legum Compilatio; ms. della Civico-Beriana, car. 186.
  8. Ibid.
  9. Ecco il tenore del bando pubblicato il 7 gennaio 1531:
    «Per parte de l’illustrissima Signoria si comanda ad ogni artista et qualonque altra persona tenia in la presente cita, borgi et sotto borgi bottega et volta alcuna, che ogi se farà l’acetatione de l’illustrissimo Signor novo Duce (Battista Spinola, il primo che fu eletto nelle forme prescritte dalle leggi del 1528), che per honor di quella al hora di nona debia incontanente havore serrato dette loro boteche o volte, nè più aprirle per quel jorno como se fusse festa solene, sotto pena di libre cinque fino in venticinque» (Decretor. Franc. Flisci Botti; ms. dell’Arch. Gov., car. 62).
  10. Id., car. 61.
  11. Questo privilegio, in data di Genova 1.° novembre 1536, dice fra le altre cose: Confirmamus ipsam Rempublicam Genuensem eiusque Statura et Libertatem... Quodque Dux praedictae civitatis et Reipublicae Genuensis , qui nunc est et pro tempore erit, possit et valeat libere ad decorerà et ornamentum, et in signum libertatis supradictae Reipublicae, habitum et omnia insignia ducalia tam ipse deferre et gestare quam ante se deferri et gestari curare, cum circulo aureo et aliis omnibus et quibuscumque ornamentis pro ut olii Duces per totam Italiam et universum Romanum Imperium utuntur (Ved. Privilegiorum S. Georgii etc, ms. della Civico-Beriana, fol. 70).
  12. Ved. Politicorum, mazzo III (Arch. Gov.) Volentes ut... acceptatio (del nuovo Doge) decoretur inter cetera insignia ducalia, scilicet birreto ducali cum circulo aureo, nec non et ense honorabili in signum libertatis et potestatis nostrae Reipublicae, iuxta tenorem privilegii ultimo loco obienti a Carolo Quinto Imperatore semper Augusto etc.; perciò si decreta confieri debere birretum ipsum ducalem cum circulo aureo decens et pro ut Ducibus legiptimis et comprobatis pro Imperatoria Maiestate convenit, et pariter ensem vagina ornatura decora, iudicio duorum Gubernatorum.... ad hoc ut Dux ipse elìgendus ceterique eius legiptimi successores in eorum acceptationibus, aliisque temporibus et necessitatibus pro ut fuerit expediens, possit utroque insigne decorari ad publicum ornamentum, et in signum libertatis, iusticiae ac imperii Reipublicae nostrae; declarato tamen quod in gestatione tam ensis quam pilei seu birreti predicti ante Ducem, Respublica nullum habeat onus salarii; sed Dux ipse... debeat ensem ipsum et seu birretum deferri facere ab aliquo suo cubiculario seu magistro domus honeste et decenter induto.
  13. L’accettazione ebbe luogo il 12 dello stesso mese. Un decreto, emanato dalla Signoria il giorno avanti, determinava che in tal cerimonia il Priore degli Anziani precedesse a tutti i magistrati recando lo scettro, ed avesse alla sinistra quei che portava il berretto; seguissero tosto quelli che recavano l’ermellino ed il manto. Nel vestire il Doge, gli si- facesse anzitutto indossare il manto, poi l’ermellino, quindi il berretto; ed ultima gli si porgesse le spada ch’egli medesimo consegnerebbe all’ensifero perchè la rimettesse nel fodero. Allora soltanto il Priore gli darebbe lo scettro (Decretor. Frane. Flisci Botti, car. 96).
  14. Vedansi i documenti pubblicati dal ch. Varni (Della Cassa per la processione del Corpus Domini ec., p. 129-30), ed estratti dal Cartularium Reipublicae di tale anno. Dove ad Agostino Groppo, habens curam faciendi circulum auri pro birreto Ill. Ducis, si pagano pro consteo ipsius circuii in pendere unciarum novem auri ad lib. 28, sol. 4 singula uncia.... pro eius mercede de acordio lib. 17: in tutto lire 279. 12. 3.

    A maestro Pellegro si pagano: ensis cum vagina et reliquis suis apparatibus argenti deaurati, cioè per metallo e mano d’opera, e per sua de scurandi lainam et faciendi alteram vaginam ligni in qua reponi debet, lire 415. 10.

    Nella doratura poi s’impiegarono 30 scudi d’oro; i quali, a lire 3 e soldi 8, formano altre lire 102.
  15. Diversamente operando, il Doge era sottoposto a sindacato; e così pure si disponeva riguardo al Cancelliere che le avesse scritte, il quale sindicari debeat secundum pondus et preinditium negotii (Leggi del 1413, cap. 27).
  16. Nel libro dei Due di Casa (car. 119, Arch. Gov.) si legge un decreto del 10 aprile 1613, nel quale è detto: «Che il Serenissimo Duce, seguendo il buon uso della Repubblica, non possa nè debba ricever visite, ne sentire le richieste, nemmeno le negotiationi de’ Principi, nè de’ Ministri loro, ne meno de’ Cardinali, salvo con l’intervento d;lli due Illustrissimi Governatori residenti in Palazzo, o in difetto loro d’altri due Governatori». Ved. ugualmente altro decreto del 21 agosto 1685, nel mazzo xvi Politicorum, num. 88.
  17. Nei Cerimoniali (vol. I, car. 248) si nota appunto che il Doge Lorenzo Sauli, invitato al banchetto nuziale di Paolo D’Oria suo cognato (13 giugno 1600), vi si recò dopo di avere ottenuta siffatta licenza. E nel codice della Beriana già menzionato (Genuens. Reip. Leg. Compilatio, car. 180, sotto l’anno 1727, si legge: Propositio conferendi facultatem Serenissimis Collegiis permittendi pro hac vice tantum quod modernus Serenissimus Dux in uno seu pluribus vicibus se transferendo extra Regale Palatium per mensem, modo se contineat intra limites trium Potestatiarum.... Item alia consimilis propositio per alium mensem circa concessionem facultatis moderno Serenissimo Duci aegrotanti.
  18. Genuensis Reipubl. Leg. Compilat., car. 185.
  19. Casoni, Annali, vol. IV, p. 121; Acinelli, Compendio, ecc., I, 07. Questo privilegio e titolo confermò poscia l’Imperadore Ferdinando III, con diploma del 2 settembre 1641. Ma costò caro; perchè la Repubblica, ad attestargli la propria riconoscenza, «stimò bene di fare un dono gratuito a Cesare, negli urgentissimi suoi bisogni di guerra, di 300,000 fiorini; ed intanto gliene fe’ rimessa di 158,000 per mezzo di Raffaele Andora e dellellentissimo Gio. Battista De Ferrari» (Acinelli, Comp., I, 114).
  20. Ved. il capitolo precedente.
  21. Acinelli, op. cit., I, 109; Genuens. Reip. Leg. etc. ms., fol. 16.
  22. Questo avvenimento ricordarono i detti monaci con una epigrafe marmorea, la quale vedeasi murata sovra l’ingresso della sagrestia, ed è riferita dal Piaggio (Monumenta Genuensia, ms. della Civico-Beriana, volume IV, car. 277 verso) nei termini seguenti:


    serenissimi dvcis hic lapis signat favstitatem
    avgvstinvs pallavicinvs svae gextis primvs
    ad patriae dvcatvm evectvs
    primys dvcvm regio diademate insignitvs
    inter civivm plavsvs et favstas acclamationes
    inavgvratione sacra hoc in templo peregit
    pridie kal. decembris mdxxxvii.

  23. Veramente queste dissidenze fra la Repubblica ed il Cardinale aveano incominciato a manifestarsi fino dall’epoca della sua elezione all’Arcivescovato, non avendo la Signoria consentito che egli venisse accolto sotto il baldacchino, e con tal pompa facesse nella Metropolitana lo ingresso. A sua volta poi egli ricusò di prestarsi alla incoronazione del Doge, allegando la sconvenienza che si vedesse un principe della Chiesa coronare un patrizio. Inoltre si oppose virilmente all’intero Senato, allorchè questi tentò erigere nella Cattedrale un baldacchino pel Doge nel luogo digniore del presbiterio. Finalmente rinunziò alla dignità, e si ritrasse a vivere in Roma (Ved. Semeria, Secoli cristiani della Liguria, vol. I, p. 264).

    Leggo poi ne’ Cerimoniali (vol. II, car. 243), che nella incoronazione sopra detta, l’Abate di Santa Caterina «si astenne dal fare al Duce la solita esortatione al buon governo», perchè «il Cardinale arcivescovo lo haveva intimorito con dirli che stasse avvertito a non far cosa che eccedesse le sua facultà e privileggi, perchè il tutto sarebbe poi stato ventilato molto bene in Roma».
  24. Alcuni importanti particolari attinenti al cerimoniale secondo cui ultimi tempi si procedeva all’elezione del Doge, possono leggersi nella Istruzione ecc. del Ratti e nell’opera del ch. Banchero, Genova e le due riviere, p. 330.
  25. Voyage d’un françois en Italie, fait dans les années 1765 et 1766, Venise, 1769; tom. VIII, p. 504. Le stesse cose ripeteva ancora nel 1795 il Galanti (Descriz. di Genova, ec.); mentre il Conservatorio Fieschi proseguiva a tenere il primato fra tutti i pubblici e privati istituti che applicavano alla industria de’ fiori.

    Matteo Marco Beltramini che in una Lettera a Pietro Pedroni descrisse i trionfi stati presentati nel 1794 al Doge Giuseppe Maria D’Oria (di che toccheremo appresso), così conclude: «Parlando dei fiori, gli ho chiamati bellissimi; ma non ho datto tutto. La nostra lingua non ha un termine proporzionato alla loro eccellenza. Quando si arrivò in Genova a tanta perfezione d’arte? Io ve lo dico semplicemente: allora che le donne mantenute nel Conservatorio Fieschi, per far un fiore, presero un fiore vero di prato o di giardino, e non un fiore lavorato a Lione. Voi mi avete spesso insegnato che la natura è l’unica e vera maestra, che fa produrre cose bellissime; e chi si allontana da lei darà sempre nel secco e nel manierato. Quanti pittori dovrebbero adottare i vostri precetti, seguire l’esempio di queste brave fioraie! «Avvisi di Genova; an. 1794, num. 23).

    Trovo eziando nei Cerimoniali (vol. VIII, car. 45), che il Doge Grimaldi essendosi recato al monastero dello Spirito Santo (12 giugno 1772), per visitarvi le sorelle del Principe D’Oria, fu servito di «sorbetti di orgiata gelati, ciocolatte e bacili di biscotti»; ed a Giambattista di lui figlio fu inoltre «presentato un bellissimo mazzo di fiori finti, essendo avanti di questo statone presentato uno a Sua Serenità di non ordinaria bellezza e grandezza, come anche al Maestro di cerimonie».

    L’industria de’ fiori artificiali è ben lungi dall’essere perduta nella nostra città, anche al di d’oggi. Nel 1838 vi si dedicavano circa 400 lavoratrici (Canale, Storia dell’Esposizione, ec. dei 1846, p. 108); e vi si erano poco dopo introdotte nuove forme e processi. All’Esposizione industriale del 1854 il Conservatorio Fieschi riportò la medaglia d’argento dorato (Ved. Notizie sulla patria industria dopo il 1850, ec., p. 65).
  26. L’istituzione della Musica di Palazzo, o, come soleva dirsi, del Serenissimo Senato, rimonta al secolo XVI. Un decreto del 25 aprile 1560 determina che sette, od otto al più, ne siano i componenti fra tromboni e cornetti, ed appartengano alla milizia delle guardie tedesche. Dovessero ogni dì suonare più canti, mentre il Doge ascoltava la messa nella R. Cappella, e la miglior parte dell’anno ricreassero pure il popolo con alquante sinfonie, suonando sulla ringhiera del pubblico Palazzo. Precedessero inoltre il Doge ed il Senato, quando recavansi a qualche chiesa della città; e rallegrassero del pari i festini e conviti ducali (Registro dei Due di Casa, Ms. dell’Arch. Gov., cart. 21-26).

    Nei Cerimoniali (Vol. I, p. 157) si nota, «che, alli 15 di dicembre del 1504, fu eletto per capo della Musica di Palazzo maestro Marco».

    Con altro decreto poi del 6 maggio 1596 (Due di Casa, car. 29) il numero sopra detto de’ musici viene definitivamente stabilito a sette, «compreso uno maestro di capella». Ed ecco i loro nomi, con la nota de’ relativi stipendi mensili:

    Marco Corrado, maestro di Cappella L. 40
    Giulio Monti, primo liuto » 26
    Pacano Fortiguerri, liuto » 20
    Cesare Bucella, liuto » 25
    Nicolò Gavi, trombone » 25
    Virgilio Riccio, tromba » 25
    Bartolomeo Puccione, tromba » 22

    Ma a questa specie di banda militare, dovette, coll’andar del tempo, accoppiarsi la musica vocale, giacchè in una Relazione dei Due di Casa (17 ottobre 1657) si nota come al servizio della Cappella Reale si fossero trovati «ora sei tenori, altre volte quattro bassi, et essere anche per un cantante posto un sonatore». Onde, a toglier l’abuso, il Senato approvando alquante riforme propostegli, decreta che all’anzidetta Cappella sieno destinati «due soprani, uno contralto, un tenore et un basso, et li stromenti conforme le altre volte, cioè un trombone, tre cornetti, un violino, un liuto et una tiorba». Inoltre dispone che tale orchestra si debba accrescere di tre altre parti (contralto, tenore e basso) «quando i Serenissimi Collegi vanno alle fontioni nelle chiese», perchè allora principalmente «conviene che ci sieno più voci per formare miglior musica». Vuole quindi che ogni mancanza sia tosto supplita «di parte idonea e megliore che si possa hevere». E finalmente avverte che «se le parti saranno de’ cantanti o suonatori diventassero col tempo poco habili al mestiere che servono, e quando li soprani perdono la foce di soprano, come segue nelli putti che non sono castrati, debbano li due Eccellentissimi di Palazzo licentiarli, e supplire d’altri megliori..., acciò che non si dia in quell’inconveniente che siano più tenori nell’istesso tempo, e manchinole parti più principali, che sono li soprani, e che la musica che deve ricreare l’orecchio serva per fastidire, e si spendano li denari senza profitto» (Due ec., car. 122-24).

    Nè è da passare in silenzio un altro decreto (14 novembre 1673) circa gli stipendi di essi musici, dove per la prirua volta incontro distinto il maestro dall’organista, e dove i componenti la R. Cantoria sono appellati «i soggetti megliori che hoggidi si ritrovano in Genova». Eccone l’elenco: Maestro di Cappella, con lire 40 mensili; Organista, lire 20; Gambone, soprano, lire 50; Guidobono, basso, lire 20; Paganelli, contralto, lire 18; Galeazzo, tenore e violino, lire 20; Antonio Richi, cornetto, lire 18; Galeazzo Mari, violino, lire 20; Carlo Prete, trombone, lire 18; Girolamo Prete, cornetto, lire 18; Framura, tiorba, lire 18. In totale: lire 260 mensili. Notasi inoltre che al soprano rispondeasi in prima uno stipendio di lire 18 in 19 soltanto; ma al Gambone fu mestieri assegnare invece le dette 50, avendolo la Repubblica chiamato da Roma. Però s’egli venisse a mancare, si potrebbero in suo luogo eleggere ben due soprani, ed assegnare lire 25 mensili a ciascuno (Due ec., car. 124-26).

    Finalmente un successivo decreto (6 agosto 1674) obbliga i musici ducali a cantare, dopo messa, le litanie in ogni festività della B. Vergine; ed una Proposta del 1676 circa (la quale non vedo però seguila da alcuna deliberazione) consiglia di ridurre la R. Cappella ai seguenti soggetti: soprano, contralto , tenore, basso; due violini, un liuto, un cornetto «che suoni anco il trombone», il maestro e l’organista (Due, ec., car. 126, 140).

    Aggiungerò in ultimo notizia d"alcuni documenti, i quali trovansi accennati nell’Index Politicorum ab anno 1384 in 1704 (Ms. dell’Ardi. Gov.); ma più non esistono ne’ mazzi di tali materie che furono ricomposti più tardi . E questi sono: Capitula musicorum Cappellae Palata (an. 1622); Ordini circa i musici del Real Palazzo (1652); Musicorum R. Palatii (1662); Riforma de’ musici della R. Cappella (1673); Per la Cantoria di Cappella (1680).

  27. Nella accettazione di Gio. Agostino Giustiniani, seguita l’anno 1591, venne fra gli altri pezzi cantato «un bel madrigale composto da maestro Marcello musico, che presentò a Sua Serenità» (Cerimoniali, I, 118).
  28. Anche il salutare con togliersi il berretto era segno di tanto rispetto, che solo verso i Dogi doveva essere praticato. Pietro Amelio, nel suo itinerario di papa Gregorio XI (Ved. Muratori, S. R. I., vol. III, l’art. II, col. 696), descrivendo l’ingresso di questo Pontefice in Genova (settembre 1276), dice che i Genovesi erigunt cervicem; non reverentur hominem frante capillata. Il che è conforme a quanto vediamo tuttodì praticare dagli uomini del contado, i quali salutando colla voce portano la mano al berretto alzandolo appena un poco sulla fronte. E forse a questa usanza speciale de’ nostri ed alla deferenza verso la stessa, può riferirsi l’aneddoto narrato dal Varchi, laddove scrive che Andrea D’Oria avendo permissione da Carlo V di rimanersene al cesareo cospetto col capo coperto, facea dare nelle smanie Antonio da Leva cui S. M. non avea consentito mai altrettanto. Onde a quanti lo ricercavano del suo male, che fu di podagra, rispondeva: non essere già i piedi che gli doleano, bensì la testa.

    Il salutare scoprendosi era del resto considerato come servile, e perciò appunto comandato agli schiavi. Onde Cesare Vacchero, il cospiratore, affermava che se la nobiltà aveva in mano il timone dello Stato, non perciò il popolo dovea comparire sì vile da salutare i nobili facendo loro di cappello. Ma una grida del 1641 levò via le querele, ordinando che patrizi e plebei a capo scoperto si salutassero (Acinelli, Compendio ec, III, 128).

    Una tale disposizione fu poi estesa anche agli ecclesiastici dal Doge Matteo Franzone; il quale non sì tosto fu assunto alla dignità (1758), che «invaso dallo spirito di sua alterigia,.... fece ordinanza che i sacerdoti tutti, tanto secolari che regolari, si levassero la secreta, o sia cupolina, mentre passava per la città; e diede pressante intimazione agli alabardieri del suo accompagnamento che ciò facessero da tutti eseguire, come si vide nell’atto che passavano per la città le solite processioni, che si facevano coll’intervento del Doge e de’ Collegi. Sentivasi schiamazzare da essi alabardieri: leva berretta, leva berretta; onde fu da tutti denominato il Doge leva berretta. Terminato.... il biennio di sua dignità, e morto, fu portato al sepolcro in san Cario il suo cadavere, mentre pioveva dirottamente; onde, dopo aver preso un buono asperges, i preti e sacerdoti tutti e gli associanti non solo avevano in capo il cupolino, ma anche il cappello, tabarro e paracqua; e così fu intonato: periit memoria eius cum sonitu in medio aquarum multarum. Et cum in honore esset, comparatus est iumentis insipientibus. Prima però di morire, si fece dipingere in due gran quadri, ne’ quali egli faceva comparsa vestito da Duce sopra una galera, nella quale fu condotto a spasso per mare. Volle che dipinti vi fossero i galeotti tutti con cappello e berretta in mano, e persino quei che in lontananza stavano sui moli e ponti della città in atto di venerazione; onde fu aggiunto alla pasquinata: cum in onore esset non intellexit; videbunt iusti et super eum ridebunt, et dicent: praevaluit in vanitate sua (Acinelli, loc. cit.).
  29. Nota il Bunfadio (a. 1535), che la consuetudine di siffatte orazioni «ha poscia causato che i giureconsulti con lo studio delle leggi congiungano quello dell’eloquenza, e ogni giorno suscitino di quelli che in questa sorte di fatica con molta laude si esercitano».
  30. «. Il Doge è vestito di color cremisi, con un berretto quadrato; nelle solennità e processioni porta come una corona coperta di velluto rosso, portandosi davanti a lui una spada dentro un fodero dorato; e ventiquattro senatori vestiti di velluto nero l’accompagnano» (Scotto, Itinerario d’Italia; Roma, 1747, p. 247).
  31. Il ch. Banchero (op. cit.) riporta alla tav. LXV la figura di un Doge vestito alla regale.
  32. Cerimoniali, vol. I; Banchero, pag. 321-32.
  33. La più antica notizia che serbi di questi doni l’Archivio D’Oria è del 1722; dal qual tempo l’usanza venne osservata fino alla celebrazione dell’ultimo banchetto, che fu del 1797; e perciò anche posteriormente all’epoca in cui i Principi fermarono in Roma la loro dimora.

    Dalle carte poi sopra citate furono eziandio ricavati i seguenti particolari che hanno tratto a ciascuna offerta.
    1722, addi 25 gennaio: Pel banchetto di Cesare De Franchi, numero 138 pernici.
    (Mancano i documenti per un decennio).
    1732, 16 novembre: Pel banchetto di Domenico Spinola, nura. 121 pernici e 51 lepri.
    1734, 9 maggio: Pel banchetto di Stefano Durazzo, num. 72 pernici e 32 lepri.
    1736, 25 giugno: Pel convito di Nicolò Cattaneo, num. 57 lepri.
    (Altra mancanza di documenti pel banchetto di Costantino Balbi).
    1740, 26 giugno: Per Nicolò Spinola, num 50 lepri.
    1742, 6 luglio: Per Domenico Canevaro, una pernice e 61 lepri.
    1744, 19 luglio: Per Lorenzo Mari, num. 66 lepri.
    1746, 3 luglio: Per Gian Francesco Brignole, num. 81 lepri.
    1748, l.o settembre: Per Cesare Cattaneo, num. 6 pernici e 44 lepri.
    1750, 15 novembre: Per Agostino Viale, num. 138 pernici o 61 lepri.
    1752, 19 novembre: Per G. B. Grimaldo, num. 62 pernici e 40 lepri.
    1754, 24 novembre: Per Giacomo Veneroso, num. 27 pernici e 52 lepri.
    1757, 16 gennaio: Per Giacomo Grimaldo, num. 36 pernici e
    72 lepri.
    1759, 21 gennaio: Per Matteo Franzone, num. 52 pernici e 46 lepri.
    1761, 25 gennaio: Per Agostino Lomellino, num. 39 pernici e 47 lepri.
    1763, 17 aprile: Per Ridolfo Brignoli:, num. 116 pernici, 48 lepri ed un cinghiale.
    1765, 23 giugno: Per Francesco Maria Della Rovere, num. 69 pernici e 63 lepri.
    1767, 23 giugno: Per Marcello Durazzo, num. 54 pernici, 44 lepri ed un cinghiale.
    1769, 11 giugno: Per G. B. Negrone, num. 64 lepri.
    1772, 9 febbraio: Per G. B. Cambiaso, num. 120 pernici, 59 lepri ed un cinghiale.
    1773, 10 febbraio: Per Gian Francesco Grimaldo, num. 108 pernici, 73 lepri ed un cinghiale.
    1775, 25 giugno: Per Brizio Giustiniani, num. 90 lepri ed un cinghiale.
    1777, 7 settembre: Per Giuseppe Lomellini, num. 74 pernici, 72 quaglie, 34 lepri ed un cinghiale.
    1779, 14 settembre: Per Giacomo Brignole, num. 170 pernici e 58 lepri.
    1781, 16 settembre: Per Marcantonio Gentile, num. 113 pernici e 73 lepri.
    1783, 23 novembre: Per G. B. Airolo, num. 116 pernici, 18 beccaccie, e 98 lepri.
    1785, 4 dicembre: Per Gian Carlo Pallavicino, num. 129 pernici, e 99 lepri.
    1787,25 novembre: Per Raffaele De Franchi, num. 171 pernici, e 133 lepri.
    1790, 12 gennaio: Per Alerame Pallavicino, num. 130 pernici, e 149 lepri.
    1792, 7 febbraio: Per Michelangelo Cambiaso, num. 121 pernici, e 71 Lepri.
    1794, 30 aprile: Per Giuseppe Maria D’Oria (ultimo banchetto celebrato dai Dogi di Genova), num. 59 pernici, e 79 lepri.
  34. Per questi motivi, ed anche per ciò che talvolta la cacciagione arrivava in Genova guasta, a cagione della distanza de’ luoghi ne’ quali era fitta, oppure dei calori estivi, fu ordinato, che a quella delle pernici dovesse attendersi con certe reti che si denominavano pantere; e se ne ebbero ottimi risultati, in quanto che gli animali, oltre allo aversi in copia maggiore, poterono eziandio essere vivi spediti a Genova. Circa le lepri similmente cercossi di mandarle vive; altrimenti si sventravano, ed avviluppavansi con diligenza in rami e foglie di ortica, sia per mantenerne fresche le carni, e sia per meglio difenderle contro gli insetti, e contro certe mani audaci che ne avrebbero cercate le interiora.
  35. In un decreto del 9 aprile 1584 si legge: Quod de caetero Praefectus Stampae in praesenti civitate non possit quicquam imprimi funere aut permittere, nisi obtenta licentia a Serenissimo Duce et Illustrissimis Senatoribus pro tempore residentibus in Palatio, sub poena arbitraria suis Serenissimis Dominationibus (Giuliani, Notizie della tipografia ligure, ec., nel vol. IX Atti della Società Ligure di Storia Patria, pag. 160).
  36. Filippo IV, i cui funerali ebbero luogo difatti il 21 dicembre stesso anno 1665 (Cerimoniali, in, 66).
  37. Politicorum, mazzo xiii.
  38. Su questo argomento ho cercata invano qualche più esplicita notizia nei Cerimoniali, che invece sono assai riservati. La coronazione del Durazzo vi è appena accennata, anzi che descritta come d’ordinario; nè altro vi si nota se non che in tale funzione tutto «si è osservato secondo le altre passate» (vol. III, car. 66).
  39. Politicorum, loc cit.
  40. Id., mazzo xiv.
  41. Ibid. Dove si ha pure la trascrizione dei diversi Oremus colla proposta variante.
  42. Vacava allora il trono, per avere Luca Invrea compito il biennio del suo Dogato.
  43. Politicorum, mazzo xvi.
  44. È questi l’autore della storia, della famiglia Spinola, e di più altre opere che si leggono a stampa.
  45. Cerimoniali, V, 135.
  46. Questo banchetto, dato dal Doge Marcello Durazzo, ebbe luogo il Luglio 1767 (Cerim., VIII. 9).
  47. Alfieri, Vita, epoca III. capo 4.
  48. Banchero, Op. cit. . p. 332.
  49. Cerim., VIII, 35. G. B. Cambiaso morì in dignità il 21 dicembre 1772; e moltissime furono le benemerenze di lui verso la Repubblica, a pro della quale spese ognora largamente il pingue suo patrimonio. Il Senato gli allogò nel R. Palazzo una statua marmorea; la rivoluzione del 1707 la mandò in pezzi.
  50. Acinelli. Comp., III, 75.
  51. Id., III, 105. Nei Cerimoniali (VIII, 43) si legge che al convito del Grimaldi assistettero soltanto i Collegi, il Generale dell’armi «e non altri, par essere cossi stato decretato et insinuato da’ prefati Serenissimi....a cagione d’evitare la gran spesa del banchetto,... e.... facilitare la via, acciò non seguissero tante scuse di magnifici cittadini che non vollevano accettare la carica ducale, per essere troppo gravata di spese che si stillavano a tal effetto farsi.
  52. Acinelli, III, 105.
  53. Gaggiero, Compendio ec., p. 61.
  54. Gaggiero, p. 71. Vi convennero circa 300 fra cavalieri e dame, comprese alcune straniere (Avvisi, 1790, num. 3).
  55. Avvisi, 1700, num. 3.
  56. I Cambiaso furono ascritti al Libro d’oro nel 1731.
  57. Fu coronato il 6 febbraio 1791.
  58. Avvisi, 1791, num. 6.
  59. La coronazione del D’Oria ebbe luogo il 29 aprile 1794; e fu l’ultima celebrata dalla Repubblica.
  60. Ved. Avvisi, 1794 num. 18; Alizeri, Notizie dei professori del disegno ec., vol. II, p. 199-208.
  61. Cerim., I. 64; III, 173.
  62. Giovanni di Murta (1380), Simone Boccanegra (1363), Leonardo Montaldo (1384), Giano Fregoso (1448), Paolo da Novi (1507); Paolo Battista Calvi-Giudice (1561), Simone Spinola (1669), Silvestro Invroa (1607), Gio. Agostino De-Marini (1642), Gio. Bernardo Frugone (1661), Francesco Maria Sauli 1699), G. B. Negrone;1771), G. B. Cambiaso 17"2i. Quest’ultimo, benchè lasciasse raccomandato a non poche egregie opere il suo nome, fu sepolto ciò nondimeno nella tomba comune della sua gente in San Siro, senza avervi neppure l’onore di una speciale iscrizione; perchè, osserva l’Acinelli (Compendio, III. 74) ben conosceano i di lui parenti come gli epitaffii fossero divenuti già troppo usuali in Genova c dove, a guisa dell’erba parietaria, piene ne sono le mura». Che direbbe mai dunque il buon prete, se gli fosse dato levar la testa oggidì dal suo oscuro sepolcro?
  63. Stella, Annal. Genuen., apud Muratori, XVII, 1090.
  64. Giustiniani. II, 160. Il Montaldo era stato anch’esso notaio.
  65. Diversorum Jacobi de Bracellis cancellarli, ann. 1448, sotto il 15 gennaio o 16 dicembre; id., ann. 1450-51, sotto il 18 gennaio 1450 (Arch. Gov.). Ved. anche Giustiniani, Annali, II, 380.
  66. Acinelli, Compendio, III, 71.
  67. Una relazione ms. delle esequie celebrate a Carlo V nel gennaio del 1559 si legge in un codice cartaceo della nostra Università (Ved. Olivieri, Carte e cronache ec. p. 85); dove si nota che alle funzioni intervenne l’illustrissimo Principe Doria vecchio di 90 anni, portato in un bussolo» e vestito di gramaglie. Dopo la messa solenne «il spettabile dottor d’arti e medicina, messer Ottavio Boero. . . cantò un’oration funebre dove brevemente con voce querula, secondo la qualità dell’ufficio e del locho, recitò tutti i preclari gesti fatti dall’Imperatore».

    Nel vol. I dei Cerimoniali (fol. 203) si ha poi la descrizione de’ funerali di Filippo II (novembre 1598), ne’ cui apparati venne impiegato il pittore Cristoforo Grasso. E piena di curiosi particolari, e circa l’orazione vi si legge che fu recitata «dal magnifico signor dottore Lorenzo Conti, in latino da pochi intesa e manco gustata». Si aggiunge che «ad esso Conti fu dato baietta per farsi una veste longa e larga funerale, con cappello di feltro e collaro di camisa riverticato da dismuto (lutto), se ben volse da 20 lire in denari e non veste, come si fece al magnifico signor Ampeggi Chiavari, quando recitò quella per la Regina di Spagna».

    Ne’ volumi successivi degli stessi Cerimoniali si hanno pure descritte le altre pompe celebrate più o meno solennemente in casi consimili; ma il Gaggiero (Compendio, p. 61) osserva che per istraordinario apparato di magnificenza e parzialità si distinsero i funerali di Carlo III (gennaio 1789). «Ad una non mediocre altezza (egli scrive) fu innalzato un catafalco , circoscritto da due piramidi laterali in mezzo alle quali vedeasi il busto del Re defunto. Lunghe ed assai lusinghiere epigrafi leggevansi in fronte al catafalco medesimo».
  68. Secondo la Prammatica avrebbe dovuto esservi trasferito invece pubblicamente, con l’intervento degli inviati di Francia e di Spagna, e di quest'ultimo anzi in veste di corrotto. Ma si recava il contrario sempre per la comunicazione segreta, tuttavia esistente fra il Duomo ed il pubblico Palazzo, per ovviare alle contese di precedenza onde i ministri di quelle due Corti non mancavano mai di bisticciarsi poco decorosamente in ogni occasione di pubblica mostra.
  69. Cerimoniali, vol. V, car. 186.